ateatro 71.60 Le recensioni di "ateatro": Reflection, A Tragedy of Fashion e PreSentient La Rambert Dance Company alla Biennale Danza 2004 di Fernando Marchiori
Filamenti organici, catene di cromosomi, stringhe di tessuto palpitante, cellule striate: comunque le si voglia guardare, le due file di cinque danzatori ciascuna, che si annodano in movenze contratte e trattengono lateralmente le spinte erratiche dei singoli, danno vita a un organismo pulsante e teso negli spasmi. I 25 minuti di Reflection, coreografia di Fin Walker, ci mettono sotto gli occhi un campione biologico isolato e ingrandito in un vetrino, ma si direbbe anche un frammento di materia celeste catturato al telescopio. E ci danno la misura del rigore e della versatilità della Rambert Dance Company, che a Venezia ha chiuso in bellezza la prima parte della Biennale Danza diretta da Karole Armitage. Nato dalla scuola aperta da Marie Rambert a Londra negli anni Venti, il più prestigioso ensemble di danza della Gran Bretagna ha più volte cambiato nome (assumendo quello attuale nel 1987) e direttore (Norman Morrice, ancora insieme alla fondatrice, poi Christopher Bruce e infine Mark Baldwin), ma ha mantenuto da una parte la sua importanza come vivaio di talenti (basti ricordare Frederick Ashton, Antony Tudor, John Cranko), dall’altra l’apertura a quanto di nuovo si muoveva nell’universo della danza. Dalla vocazione classico-innovativa della Rambert, che nei Balletts Russes di Diaghilev aveva portato l’esperienza dell’euritmica di Jaques-Dalcroze, contribuendo a disegnare la complessa partitura del Sacre du Printemps di Nijinskij nel 1913, agli innesti degli studi newyorkesi di Morrice con Martha Graham, fino all’interesse di Baldwin per le nuove tecnologie e la coreografia assistita dal computer, la storia di questa compagnia è uno spaccato della storia della danza contemporanea. Oggi è un centro di produzione che attrae alcuni tra i maggiori coreografi della scena mondiale e ha in repertorio opere di Christopher Bruce, Lindsay Kamp, Merce Cunningham, Wayne McGregor, Karole Armitage.
Si comprende, dunque, come la serata veneziana, in un Palafenice affollato e generoso di applausi, abbia voluto offrire tre esempi assai differenti dell’arte della Rambert Dance Company. Il pezzo della Walker è interamente costruito su azioni stop-start: scatti, calci, sobbalzi, gambe sempre irrequiete e braccia che servono per tirare, spingere, trattenere, oppure diventano inerti quando le singole cellule cercano di uscire dalla fila forzando il magnetismo della struttura. Nuclei morfologici nervosamente piegati a una sintassi agglutinante. Riflessi ed echi rimbalzano tra una fila e l’altra, in una catena sdoppiata di input e output che ricamano il tempo sulle volute degli archi di Ben Park. Coreografia e musica sono nate insieme, ispirandosi al Libro tibetano dei vivi e dei morti, alla legge universale della trasformazione incessante di tutte le cose. Sorprendente il passaggio al secondo pezzo, A Tragedy of Fashion, riscrittura del celebre balletto perduto di Ashton ad opera dell’australiano Ian Spink. Della produzione originale non è rimasto che un paio di foto, ma Spink ha lavorato sul contesto, chiedendo collaborazione ai designers e ricercando materiali visuali, biografici e d’archivio. "La ricerca - spiega il coreografo - ci ha condotto a un ambito di connessioni che legano moda e tragedia". Un tono di macabra ironia s’impone fin dal primo quadro, con le danzatrici, piume di struzzo in testa e lunghe collane di perle, intorno a una bara da cui esce un ballerino dal volto sbiancato. Nel lungo flash-back rivedrà ambienti, personaggi, episodi della sua vita, in un continuo cambio di musiche, scene e costumi (il complesso, e a volte complicato, progetto visivo è firmato da Antony McDonald e Juliette Blondelle). PreSentient di Wayne McGregor porta invece i dodici ballerini a misurare lo spazio con veloci disegni geometrici tracciati sul Triple Quartett di Steve Reich. Eleganti a solo, che ritrovano inarcature, sospensioni, vibrazioni, si stagliano nei quartetti incrociati, spinti al limite del virtuosismo, fino al gesto scomposto dell’ultima danzatrice sulla griglia luminosa che rivela, per un attimo, la nervatura del palcoscenico.
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