ateatro 7.1 Un Amleto giapponese Uno spettacolo (in giapponese) sulla prima messinscena (mancata) del capolavoro di Shakespeare in Giappone di Oliviero Ponte di Pino
Tanto per cominciare,
un po' di date.
1600 (?) - Va in scena a Londra l'Amleto di William Shakespeare, il testo più
noto (e probabilmente il più rappresentato e e il più riscritto)
del teatro occidentale.
1748 - Izumo Takeda, Shourako Miyoshi e Senryu Namiki scrivono quello che diventerà il
testo più noto e popolare del teatro giapponese, Kanadehon Chusingura,
ispirandosi a un fatto di cronaca avvenuto nel 1702 (ma ambientando l'azione
nel XIV secolo). Il signore di Ako, Asano (Enya), dopo essere stato offeso,
cerca di uccidere il proprio nemico, Kira (Kono), nei corridoi del castello
di Edo. Asano fallisce nell'impresa, gli viene ordinato di uccidersi e
il suo clan viene disperso. I samurai che erano al suo servizio si trovano
senza padrone; 47 di loro, guidati da Oishi, decidono di vendicare il loro
signore. Ci riescono, al termine di varie peripezie. Dopo di che, commettono
hara-kiri per dimostrare la loro fedeltà all'antico signore. Il
testo ha curiose analogie con Amleto: il tema è lo stesso,
la vendetta; Amleto si finge folle, Oboshi nasconde i suoi propositi dandosi
al libertinaggio; sia Amleto sia Oboshi moriranno dopo aver compiuto la
loro vendetta. Il consigliere di Enya, Ono, che poi tradirà il suo
signore, ricorda Polonio, e morirà come lui. E così il destino
di Gertude è simile a quello di una donna del clan di Enya, Okaya:
suo marito verrà ucciso dal figlio di Ono.
1902 (35° anno dell'era Meiji) - Va in scena al Teatro Asahi di Osaka il primo Amleto
giapponese. A recitare il testo (intitolato Il castello d'acero)
sono attori dello Shinpa (una nuova scuola di kabuki). Ma l'ispiratore
dello spettacolo è Morita Kanya (1846-1897), un impresario che aveva
dato un forte impulso alla modernizzazione del teatro giapponese, portando
in scena testi occidentali e scrivendo egli stesso drammi ambientati in
Europa e negli Stati Uniti.
1992 - Va in scena al Teatro Haiyuza di Tokio Kanadehon Hamlet (Premio Yomiuri)in cui
Harue Tsutsumi intreccia i due classici del teatro orintale e occidentale.
Siamo nel 1897, e stiamo assistendo a una prova dell'Amleto nel
teatro di Morita Kanya, il Teatro Shintomi. In effetti si tratta - secondo
gli usi del teatro giapponese dell'epoca - dell'unica prova dello spettacolo,
che dovrà andare in scena la sera successiva, anche per salvare
un teatro oppresso dai debiti. A recitare il testo sono attori del kabuki
- che però pensavano di essere stati convocati per interpretare
Kanadehon Chushingura. Di Amleto non sanno nulla: mai visto, mai sentito
nominare. "Regista" dello spettacolo è il nobile e facoltoso Miyauchi
Reinojo, che nei suoi soggiorni americani ha avuto l'occasione di vedere
l'ultima esibizione del leggendario Edwin Booth alla Brooklyn Academy of
Music. La serata è costellata da una serie di incompresioni: molti
attori si presentano in scena con i costumi del kabuki, e soprattutto il
loro stile di recitazione tutto convenzionale è lontanissimo dal
realismo ricercato dal regista. Questo Amleto non andrà in
scena: da un lato esplodono le incomprensioni tra il regista e gli attori
(malgrado l'intervento di un giornalista che illustra le somiglianze tra
i personaggi dei due testi); dall'altro lo sfortunato Morita Kanya muore
assediato dai creditori. Le sue ultime parole riecheggiano il monologo
finale del pallido principe. Per vedere il primo Amleto giapponese
bisognerà aspettare il nuovo secolo.
Kanadehon Hamlet è un testo che ha evidenti sfumature didattico-didascaliche, nel tentativo
di ricostruire un episodio poco noto della storia del teatro. E' un momento
peraltro molto particolare. Il Giappone è nel pieno dell'era Meiji,
quella che segna la modernizzazione dell'arcipelago. In Occidente inizia
invece a infuriare la moda del "giapponismo". Mentre gli attori giapponesi
si trovano costretti a misurarsi con il "realismo psicologico" occidentale
(quello che nasce, per certi versi, proprio nei monologhi di Amleto), gli
spettatori occidentali restano affascinati di fronte alle raffinate convenzioni
dei primi attori orientali che viaggiano verso gli Stati Uniti e l'Europa:
proprio in questo incontro si trovano alcune delle radici delle rivoluzioni
teatrali del Novecento.
Seppur confinato in un pomeriggio di prove in un teatro in via di fallimento, lo scontro
tra Oriente e Occidente può farsi assai aspro, come dimostra questo
brano del dialogo, dove il protagonista dell'Amleto, il volonteroso
Naritaya Maziko, si scontra con il produttore e con il regista.
KANYA Naritaya, sei così bravo a fare lunghi monologhi, non è vero?
Non puoi trovare toni un po' più ricchi?
MAZIKO Beh, nei testi che recito ho sempre un qualche accompagnamento, musica,
o danza, in modo che sembri davvero teatro.
MIYAUCHI Non hai ancora capito che cosa sia un vero dramma. Te l'ho detto mille
volte, devi esprimere i tuoi sentimenti, le tue emozioni, invece di cercare
lo "stile".
MAKIZO Ma questi sentimenti, queste emozioni, io non le capisco. Davvero, non
riesco a capire perché Amleto si comporti in questo modo.
MIYAUCHI Ma perché?
MAKIZO Amleto ha appena incontrato lo spettro di suo padre e ha deciso di vendicarlo.
Ma allora perché mai sta lì a baloccarsi con questa idea
di uccidersi o non uccidersi, e su tutto quello che succede dopo che siamo
morti?
TOKUJIRO (Claudio) E' vero. In Chushingura Yaranosuke, dopo la morte
del suo capo, non si lascia distrarre da nulla, si concentra solo sulla
vendetta. Non certo ha tempo per balbettare di essere o non essere, finché
non ha compiuto il proprio dovere.
MIYAUCHI Amleto non è Yaranosuke. Che sciocchezza è mai questa? Siamo
nel trentesimo anno dell'era Meiji, lo shogunato Togukawa è finito
da trent'anni! Ma il teatro giapponese non ha speranze, non è ancora
arrivata l'alba.
Questo frammento esemplifica uno dei temi del testo, le incomprensioni tra due mondi che s'incontrano
per la prima volta. Sono incomprensioni che riguardano due diverse visioni
del mondo (solo per fare l'esempio più clamoroso, il diverso significato
e valore del suicidio nelle due culture), ma anche due diverse concezioni
del teatro. E' una situazione che porta a situazioni a volte esilaranti:
per esempio quando gli attori si presentano in scena con abiti e trucco
a metà tra i costumi del kabuki e quelli di un uomo d'affari occidentale
di fine Ottocento. O quando uno dei comprimari commenta: "Un attore così
bravo è sprecato nella parte di Amleto" (mentre poco prima il regista
aveva proclamato: "Amleto è il nuovo teatro"). O, ancora, nel tormentone
delle scarpe che bisogna assolutamente togliere prima di salire sulla scena...
Quello che per i protagonisti fu, all'epoca, autentico dramma (l'impresario Kanya morirà
sulla scena a causa del fallimento dell'impresa), è diventato per
noi occasione di divertimento. Come spettatori smaliziati e consapevoli,
che hanno visto gli Shakespeare della BBC e il kabuki, studiato gli scritti
di Brecht e Mejerchol'd sui teatri orientali, rileggiamo le difficoltà
di interpretazione in chiave di parodia. Insomma, ci siamo costruiti un
altro punto di vista, che ci permette di de-costruire ironicamente i punti
di vista degli interessati. Anche questo spiega il successo del testo di
Tsutsumi Harue, portato in scena 4 volte nel giro di pochi anni.
Nota: per ulteriori approfondimenti (e qualche indicazione bibliografica), cfr. Graham Bradshaw e
Kaori Ashizu, Reading Hamlet in Japan, in Shakespeare
and the Twentieth Century. The Selected Proceedings of the International
Shakespeare Association World Congress, Los Angeles, 1996, cur. Jonathan
Bate, Jill L. Leverson e Dieter Mehl, University of Delaware Press, 1998.
Nello stesso volume, un saggio di Yoshiko Kawachi (Gender, Class, and
Race in Japanese Translations of Shakespeare) elenca alcune delle traduzioni
del celeberrimo "essere o non essere", che nel primo allestimento giapponese
il monologo venne tagliato. Va ricordato che è praticamente impossibile
trovare in giapponese un equivalente di "to be": il verbo "aru" significa
semplicemente esistere e non comporta tutti i significati di "to be".
Charles
Wirgman (1874) |
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