ateatro 69.2 Teatro in Italia: un sistema in stallo: Oliviero Ponte di Pino per Un nuovo pubblico per il teatro, un nuovo teatro per il pubblico In convegno a Roma il 20 maggio 2004 di Oliviero Ponte di Pino
Picciola premessa. Mi occupo da più di vent’anni di spettacolo e di cultura ma, a differenza di quasi tutti gli altri relatori, non mi guadagno da vivere occupandomi di teatro. Quello che sto per dire rischia dunque di apparire un po’ rozzo e presuntuoso, perché fondato su un’esperienza eccentrica. Penso tuttavia che a volte uno sguardo esterno, obliquo, magari provocatorio, possa essere utile e fornire qualche spunto di riflessione. Del resto questa non è una analisi improvvisata, anche se certo discutibile: riprendo infatti e cerco di approfondire una riflessione che conduco da tempo, sia sul «Patalogo» sia più di recente sul sito www.ateatro.it, e che si avvale anche del lavoro condotto dall’équipe di Mimma Gallina sugli ultimi due numeri della rivista «Hystrio» con il dossier Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi.
Nel quadro dell’endemica crisi del nostro sistema teatrale, sempre lamentata e sempre irrisolta, ho avvertito negli ultimi anni un crescente disagio, di cui la «Vertenza Spettacolo» indetta dall’Agis è solo uno dei sintomi. La ragione di fondo è abbastanza semplice. Una delle due principali fonti di finanziamento si è drasticamente ridotta: in termini reali, al netto dell’inflazione, il Fondo Unico dello Spettacolo, ovvero il sostegno del governo al teatro, dal 1985 al 2002 si è ridotto del 50% circa. La seconda fonte di finanziamento – mentre le altre, a cominciare dalle sponsorizzazioni, restano purtroppo marginali – è invece rimasta sostanzialmente invariata. Nello stesso periodo, infatti, il pubblico del teatro – e dunque gli incassi in termini reali – non hanno subito variazioni sostanziali. Insomma, il teatro italiano negli ultimi vent’anni non è riuscito a coinvolgere nuove fasce di spettatori, le sue risorse si sono progressivamente ridotte e dunque attraversa difficoltà sempre maggiori.
Come hanno reagito i teatranti a questa situazione?
Hanno ovviamente cercato, oltre che di attingere maggiormente alle risorse degli enti locali. I maggiori teatri e circuiti hanno cercato di ridurre i costi di produzione e di limitare il numero delle produzioni e/o degli spettacoli in cartellone. La politica degli scambi tra i teatri si è vieppiù accentuata, favorendo al di là dei meriti le compagnie che dispongono di una sala.
Sul versante della produzione, le grandi compagnie e i teatri hanno tentato di minimizzare il rischio. Ovvero hanno cercato di produrre e programmare spettacoli più «sicuri», garantiti dai soliti nomi in cartellone, con testi che non irritassero né sorprendessero troppo: perciò una notevole preponderanza di classici (o di teatro parascolastico), tanti spettacoli di derivazione paracinematografica o televisiva, un incremento assai significativo dei musical. Allestimenti in genere senza eccessivo mordente o fantasia.
Il teatro italiano di questi anni è di conseguenza caratterizzato da una scarsissima attitudine al nuovo sia nel campo della drammaturgia sia nel campo del linguaggio sia per quanto riguarda il ricambio generazionale. (Dopo di che, come sempre, ci sono le eccezioni, e ogni teatro – stabile o instabile – può sventolare il suo fiore all’occhiello, la produzione stagionale «a rischio»: ma l’impressione generale, di fronte ai cartelloni di altri paesi europei, resta quella di una sostanziale e cautelosa immobilità.)
La crescita del numero delle produzioni rappresenta invece la risposta delle realtà più nuove e piccole, che provano a reagire alla crisi diversificando l’offerta cercando di intercettare nuove fasce di pubblico. La continua nascita di giovani compagnie è peraltro il chiaro sintomo di un diffuso bisogno di teatro, che però non si traduce in nuovo pubblico: in un sistema distributivo «blindato», dove i maggiori teatri e circuiti praticano una politica di sistematica chiusura, queste realtà di fatto non trovano sbocco.
Per quanto riguarda l’allocazione di risorse sempre più scarse, nell’attesa di una legge sempre promessa e mai approvata, il sistema ha continuato di fatto a seguire il modulo che conosce da decenni, ovvero l’autogoverno corporativo attraverso le rappresentanze dell’Agis, che hanno provveduto alla spartizione dei fondi con la supervisione ministeriale (a evitare le risse più cruente e a garantire quel minimo di controllo politico e clientelare). Il metodo implica inevitabilmente una scelta conservatrice, che tende a privilegiare e difendere l’esistente, ovvero le rendite di posizione di chi all’interno delle associazioni di categoria si trova già in posizione di forza. Ma, come abbiamo visto, la pressione è in aumento e prima o poi questo meccanismo è destinato a saltare.
In sostanza, visto dall’esterno, quello del teatro italiano è un sistema bloccato, poco innovativo a livello sia di produzione sia di distribuzione, arroccato in una posizione difensiva, che non appare in grado di avvicinare e coinvolgere nuove fasce di pubblico. O meglio: qualcuno sistematicamente (e qualcun altro episodicamente) può tentare nuove strade, e avere successo e conquistare nuovi spettatori: ma si tratta di esperimenti isolati, che non riescono a incidere sull’andamento generale e si trovano presto neutralizzati come lodevoli eccezioni, senza riuscire mai a diventare un modello.
Lo stallo è reso ancora più evidente dalla crisi di quella che era e resta la spina dorsale del nostro sistema, ovvero il teatro pubblico. Da un lato i teatri stabili, l’unica innovazione di successo del teatro italiano dell’ultimo secolo oltre l’avvento della regia, vivono ormai da decenni uno svuotamento del loro ruolo e delle loro funzioni (per non parlare delle funzioni che di fatto non hanno mai svolto, in particolare il rinnovamento del linguaggio teatrale, l’attenzione alla drammaturgia italiana, il ricambio generazionale). I dirigenti degli stabili ne sono consapevoli (vedi al proposito il recente scambio tra Carlo Repetti e Renato Palazzi sul «Sole-24 Ore» del 23 aprile 2004) e tentano (ciascuno a suo modo) di trovare soluzioni, ma non appaiono neppure in grado di sedersi intorno a un tavolo per discutere i termini culturali del problema, lo sviluppo da dare alla loro progettualità. In anni dove si moltiplicano convegni e pubblicazioni, gli stabili non hanno avvertito l’esigenza di confrontarsi pubblicamente per fare il punto della situazione e individuare possibili prospettive di sviluppo. Tra l’altro l’autonomia dei direttori artistici, già pesantemente incrinata ai tempi della lottizzazione in stile Prima Repubblica, con l’avvento del maggioritario rischia di ridursi a zero.
Per ovviare alla cronica incapacità degli stabili ad affrontare il tema del rinnovamento del linguaggio teatrale, della sperimentazione di diverse modalità produttive, del coinvolgimento di nuove fasce di pubblico, una quindicina di anni fa sono nati i Teatri Stabili d’Innovazione (secondo l’attuale definizione ministeriale), che hanno assorbito una notevole quota delle scarse risorse destinate al «micro-settore» della ricerca e sperimentazione. Il progetto degli Stabili d’Innovazione è sostanzialmente fallito: non si è creato un circuito alternativo (neppure un circuito di stabili di Serie B), e così sono emersi (salvo rare eccezioni) due tipi di organismi: quelli che servono da sede di una compagnia/gruppo che li gestisce, sempre più concentranti sulle proprie produzioni (e sugli scambi); mentre gli altri, al di là della buona volontà dei loro dirigenti, sono poco più di scatole vuote, alla perenne ricerca di «operazioni».
Il teatro pubblico – Stabili e Stabili d’Innovazione – dovrebbe svolgere la funzione di regolatore e di stimolo dell’intero sistema. In quest’ottica è fondamentale anche il ruolo dell’ETI, che assorbe una quota determinante del FUS (nel 2003 poco meno di 9,5 milioni di euro): se quei soldi servono unicamente alla gestione di quattro sale in tre città italiane, rappresentano uno spreco che va eliminato al più presto. Per completare il quadro, va registrata l’involuzione che appare inarrestabile dei tre festival teatrali italiani che hanno storicamente maggior prestigio, la Biennale di Venezia, il Festival dei Due Mondi di Spoleto e la stagione del Teatro Greco di Siracusa affidata all’Inda: ulteriore sintomo di una crisi di sistema. Se l’ETI, i grandi festival e gli stabili non funzionano – o funzionano a metà, senza idealità e progettualità sistemiche, ma solo come feudi autoreferenziali – è inutile pensare di allargare il pubblico teatrale. Sarà al massimo possibile aumentare l’audience dei teatri, con operazioni parassitarie, di matrice televisiva o cinematografica, e di scarso respiro culturale. Le altre componenti del sistema possono tentare di imboccare strade diverse, inventare e reinventarsi, ma difficilmente potranno sopravvivere se l’ecologia che li circonda è retta da questi meccanismi.
Questa sconsolante situazione nasconde però un paradosso. In questo momento il teatro italiano – un certo tipo di teatro – costituisce una punta di eccellenza a livello europeo. Non si tratta della certo rispettabilissima ma pressoché ignota Officina Accademia Teatro di Potenza, cui si accenna nel volume Il pubblico in Italia, e neppure delle stagioni parigine costosamente sponsorizzate dall’ETI. Sono piuttosto quelle realtà italiane che stanno ottenendo una straordinaria notorietà internazionale e che spesso, visto lo scarso sostegno che ottengono in Italia, sono costrette a raccogliere risorse all’estero.
La Compagnia Pippo Delbono, ora prodotta dall’ERT, è da anni protagonista di tournée nel mondo intero; dopo il grande successo al Festival di Avignone, è in queste settimane protagonista di una personale di un mese al Théâtre du Rond Point sugli Champs Elysées a Parigi.
Un altro gruppo italiano pluri-santificato da Avignone, la Socìetas Raffaello Sanzio (che di recente ha visto le sovvenzioni ministeriali pesantemente tagliate), in questi mesi è protagonista di un clamoroso progetto multinazionale in undici città europee (due sole italiane), con un sostegno CEE di oltre 600.000 euro più altri finanziamenti locali.
I Motus hanno prodotto il loro ultimo lavoro a Rennes, in Francia, con un sostegno di circa 120.000 euro e ospitalità per l’intero periodo della produzione; per dare un termine di paragone, i due festival italiani che coproducono e ospitano il lavoro faticano a mettere insieme 50.000 euro in tutto, visti i loro budget.
Sono solo tre casi clamorosi, ma dovremmo citare anche altre compagnie che ottengono sostegno produttivo dall’estero e/o successo nei grandi festival europei, da Ravenna Teatro a Fanny & Alexander, dal Kismet al Teatrino Clandestino, dal Teatro delle Ariette alle diverse compagnia di danza (o teatrodanza) costrette di fatto all’esilio, oppure a un regista come Giorgio Barberio Corsetti che ormai lavora più spesso all’estero che in Italia.
Queste realtà rappresentano punte di eccellenza che il nostro sistema teatrale non è in grado di riconoscere e sostenere adeguatamente, ma che anzi spesso considera come corpo estraneo e fonte di disturbo, da relegare nel ghetto della ricerca.
E’ inoltre interessante rilevare che tutte le realtà citate lavorano da sempre al rinnovamento del linguaggio teatrale e spesso sono attive piano della pedagogia teatrale. Inoltre sono in molti casi impegnate sul fronte dell’integrazione del teatro con i nuovi media, una delle prospettive di sviluppo su cui insiste con maggior enfasi l’analisi di Fabiana Sciarelli.
Il rapporto tra il teatro e i nuovi media si può del resto declinare su due versanti. Da un lato l’integrazione dei nuovi media all’interno di quell’opera d’arte totale che è lo spettacolo teatrale. Su questo fronte, fin dai tempi di Carmelo Bene molte compagnie italiane lavorano in questa direzione, anticipando e riflettendo l’interesse delle giovani generazioni per il linguaggio e le arti multimediali.
Tuttavia a questo proposito – ma più in generale sulle esperienze del nuovo teatro in Italia – mi ha molto colpito la riflessione di un giovane attore, Andrea Cosentino:
«C’è un tipo di teatro cui corrisponde il cosiddetto pubblico degli abbonati, che puoi criticare o ritenere in decadenza, ma che comunque resiste perché utilizza quel teatro come un rituale. Noi invece non abbiamo creato un rituale davvero alternativo a quello. E’ come se l’alternativa a questo teatro fosse rimasta una faccenda generazionale e di rapidissimo consumo: un teatro fatto da giovani, ma anche da consumare da giovanissimi che poi finiti quei tre anni in cui si vedono quel tipo di cose si può tornare a fare la propria vita, seguire altri interessi, come se tu non seminassi nulla che poi a sua volta possa diventare tradizione. O almeno bisogno. Perché non credo sia più il tempo di creare una tradizione teatrale. Allora bisogna capire in cosa lo spettacolo dal vivo può soddisfare dei bisogni.» (intervista di Anna Maria Monteverdi, «ateatro 66»)
Il rischio della realtà del nuovo teatro, se non riescono a crescere e a far crescere il loro pubblico in maniera organica all’interno di un sistema in grado di accoglierli e valorizzarli, è che finiscano per rappresentare quasi solo esperienze generazionali, destinate a ripetersi ciclicamente come una malattia esantematica. Credo che invece per il futuro del nostro teatro sarebbe indispensabile fidelizzare i giovani spettatori accompagnandoli nella trasformazione da pubblico adolescente a pubblico adulto. Ma questo può essere possibile solo se in parallelo i gruppi e gli artisti godono di possibilità autentiche di crescita e possono assumersi maggiori responsabilità all’interno del sistema.
Un secondo versante del rapporto tra teatro e nuovi media riguarda la possibilità di diffondere lo spettacolo teatrale, in qualche forma, all’interno del sistema televisivo, e di sperimentare nuove forme di integrazione tra teatro e internet. Nell’analisi di Fabiana Sciarelli si parla di un 11% di persone potenzialmente interessate al teatro in televisione. Una considerazione: l’11% è lo share medio di alcune reti nazionali, e dunque in sé non sarebbe un dato sconfortante, anzi. Ma soprattutto porre la questione in questi termini è inutile e scorretto, perché attualmente stiamo assistendo in tutti paesi avanzati (e in Italia con grave ritardo, a causa del duopolio Rai-Fininvest) alla nascita di canali tematici per un pubblico che non è già più generalista. In questi ambiti gli intrecci tra teatro e televisione possono ovviamente trovare ampio spazio. E persino sulla televisione generalista possono accadere cose strane. Un solo esempio, un invito a laffrontare il problema in una prospettiva diversa.
«Il 9 ottobre 1997 una trasmissione ha mandato in frantumi molti luoghi comuni sul teatro in televisione. Era un giovedì, quel giorno era arrivato l’annuncio del Nobel a Dario Fo. C’era aria di crisi di governo, e infatti Fausto Bertinotti era ospite di Santoro a Moby Dick per illustrare agli italiani le sue minacce a Prodi. Su Raiuno sfilavano le più belle modelle del mondo, con gli abiti dei più famosi stilisti. Insomma, una serata con diversi appuntamenti di forte richiamo. Eppure quella sera un attore sconosciuto al grande pubblico, mai visto in televisione o al cinema (a parte qualche trascurabile comparsata) ha sbancato l’Auditel con un monologo di oltre due ore e mezza su una tragedia dimenticata e vecchia di oltre trent’anni (insomma, rimossa), tra lo sbalordimento dei funzionari Rai e degli esperti. (...) Tre milioni e mezzo di spettatori sono una cifra incredibile per un programma del genere, oltretutto inclassificabile. Un giornale l’annunciava come "documentario", un altro come "dibattito", un terzo come "film drammatico", qualcun altro semplicemente non lo classificava. In ogni caso nessuno aveva osato la definizione tabù: "teatro". Insomma, roba adatta al massimo alla seconda serata di "Palcoscenico" o magari ai quattro gatti e ai videoregistratori di Fuori orario.» (Oliviero Ponte di Pino, «Effetto Kappa. Teatro su Raidue secondo Carlo Freccero e Felice Cappa», in il Patalogo 21, Ubulibri, Milano, 1998).
Quel programma era Il racconto del Vajont con Marco Paolini. Inutile aggiungere che quello spettacolo era nato fuori dal normale circuito teatrale, seguendo un proprio percorso produttivo, e dunque era un corpo estraneo anche per il nostro sistema teatrale. E va aggiunto che esperienze di questi genere, estranee o marginali rispetto al sistema teatrale «ufficiale», si stanno moltiplicando, con produzioni (a basso costo e alta intensità di lavoro) e circuiti legati a varie associazioni e gruppi.
Questo solo per suggerire che troppo spesso continuiamo a ragionare in base a categorie che stanno perdendo senso. Per cogliere le opportunità offerte dai nuovi media è necessario prima di tutto imparare a immaginare. Mischiare vecchio e nuovo, antico e postmoderno. Tornare a inventare. Progettare e rischiare. Anche per incontrare un nuovo pubblico.
Per concludere, credo che il nostro sistema teatrale abbia di fronte tre strade per impostare il suo rapporto con il pubblico. La prima è quella che hanno intrapreso da tempo i teatri lirici: fare del palcoscenico un museo, il tempio della tradizione dove rivivono i capolavori del passato, i tesori del repertorio nazionale. E’ una strada impraticabile in Italia, dove esistono numerose capitali teatrali e altrettante lingue del teatro. Una scelta di questo genere, oltretutto, porta alla morte del teatro come esperienza viva, in grado di interagire con il proprio tempo, di interrogarlo e interpretarlo. Tuttavia, guardando ai cartelloni di molte sale italiane, la tentazione sembra essere molto forte.
La seconda via, molto semplicemente, è affidarsi al mercato: dare al pubblico quello che vuole, creare audience e consenso. E’ un compito che gli impresari privati assolvono egregiamente in tutto il mondo. In Italia peraltro lo svolgono con ampio sostegno pubblico: non solo attraverso le sovvenzioni dirette alle compagnie ma anche grazie a calibrate politiche di circuitazione e di ospitalità, a cominciare dall’ETI. Viene un sospetto, anche risalendo all’indietro, fino alla nascita della sovvenzione pubblica al teatro ai tempi del fascismo: se il teatro privato rappresentasse davvero quello che vuole il pubblico, se fosse davvero retto dalle regole del mercato, non dovrebbe poter fare a meno del sostegno pubblico? Oltretutto l’intreccio di interesse pubblico e privato alla lunga rischia di distorcere l’intero sistema: non mi riferisco solo e tanto ai possibili conflitti d’interesse, quanto al fatto che le finalità del teatro pubblico, in un confronto così serrato con il privato, rischiano di essere gravemente distorte.
E allora, a che cosa dovrebbe servire, secondo me, un teatro pubblico? Quali fasce di spettatori potrebbe coinvolgere? Da sempre, fin dai tempi dell’antica Grecia – dove, come si sa, il teatro era ampiamente sovvenzionato – il teatro è teatro civile. Serve a costruire e rappresentare una identità collettiva, ma soprattutto a portare alla luce, alla consapevolezza, i conflitti che attraversano la polis, anche a costo di creare scandalo. La scena coglie l’emergenza di nuove identità, soggettività, gusti, culture, modi di percepire il mondo. Oggi per il teatro non si tratta più chiaramente di coinvolgere un pubblico-massa, che può trovare più facilmente il proprio nutrimento in altre forme di spettacolo e comunicazione. Si tratta invece di coinvolgere segmenti di pubblico, élite accomunate più dal gusto e dalla curiosità che dal censo, fasce aggregate più per affinità elettive che per classe sociale. Da questo punto di vista, il teatro può essere una utilissima cartina di tornasole, che permette di scoprire quello che accade nella pancia del corpo sociale. Permette anche di suscitare dibattito e discussione. Insomma, oltre che soddisfare un bisogno di cultura, il teatro può anche crearlo.
Ovviamente tutto questo non lo può fare il teatro da solo. Non lo può fare neppure un sistema teatrale – diciamo così – ripulito dalle storture più clamorose e magari addirittura «riformato». Perché tutto questo accada è necessario che il teatro non rimanga un segmento marginale e marginalizzato, ma costruisca scambi reali con il sistema dei media, dai giornali alla televisione, dalle radio a internet. Perché tutto questo abbia senso, è indispensabile in parallelo formare gli spettatori. Altrimenti, inevitabilmente, si scivola verso un pubblico-audience per il quale il teatro non è necessario, ma solo un’opzione parassitaria rispetto ad altre forme di intrattenimento.
Sono convinto che in una società complessa il teatro – come la letteratura e come l’arte in generale – sia assolutamente necessario. Deve essere necessario. Sono convinto che sia una necessità politica, in un duplice senso: perché il teatro è da sempre un atto, oltre che estetico, anche politico; e perché ritengo che un potere politico autenticamente democratico debba in qualche modo farsi carico della scena della polis.
Nelle società totalitarie e cortigiane, la scena è sempre stata ridotta a strumento di propaganda e di consenso. In quelle democratiche è un necessario strumento di conoscenza di sé stessi e della realtà umana che ci circonda, dei conflitti e delle contraddizioni che attraversano la società. Ecco, credo che questo sia il teatro necessario, il teatro che amo, quello che vado a vedere e quello che continuo a sostenere e difendere. Un teatro che abbia un pubblico e non una audience.
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