ateatro 67.15 Come si programma un teatro Benvenuto Cuminetti organizzatore: il “nuovo” compatibile e il “modello” Teatro Donizetti. di Mimma Gallina
Il pezzo che segue è tratto dalla relazione che ho tenuto al convegno “Percorsi attraverso esperienze drammaturgiche e teatrali in ricordo di Benvenuto Cuminetti”, che ha avuto luogo a Bergamo, organizzato dall’Università, il 24 e 25 maggio 2002. Gli atti del convegno saranno pubblicati nella Collana Bergamo University Press, edizioni Sestante, Bergamo.
Persona di grande qualità umane e intellettuali, Cuminetti è stato fra le altre cose e per moltissimi anni “consulente alla programmazione” del Teatro Donizetti di Bergamo, che ha portato a 9 repliche (fate un po’ il calcolo percentuale rispetto agli abitanti!), e per cui ha inventato i cosiddetti “altri percorsi”, esportati poi in tutta la Lombardia. Credo sia interessante, nel quadro del dibattito sulle miserie dell’organizzazione del teatro italiano, riflettere sulla qualità e l’intelligenza del suo lavoro. Anche perchè l’eventuale rinascita passa dalla riqualificazione delle programmazioni e delle gestioni delle sale: la distribuzione è a mio parere il punto più dolente del sistema.
Ho scelto di dare questo titolo al mio contributo individuando la preoccupazione di conciliare innovazione e concretezza come un filo conduttore molto preciso nel pensiero di Benvenuto Cuminetti, e come la caratteristica più importante – fra le molte – della sua azione di organizzatore di cultura. Come risulterà chiaro, non considero per niente riduttiva quest’attitudine ad un pragmatismo guidato da forti motivazioni culturali e ideali.
Benvenuto Cuminetti è stato una personalità di riferimento tale che la sua mancanza si sente nel teatro italiano molto al di là di quanto potrebbe far pensare la posizione marginale: quella di programmatore di teatro in città importanti, ma di provincia, come Bergamo e le altre sedi con le quali ha collaborato. Tutto il mondo teatrale identificava il Teatro Donizetti con lui, ma non solo. Era uno di quei pochi, di quelle pochissime personalità (e in via di estinzione), cui compagnie dalle caratteristiche più diverse, dal grande Teatro Stabile al teatro privato di qualità (anche di alta densità commerciale), fino alla compagnia che si era appena affacciata al teatro ufficiale (ed era stata portata a confrontarsi con il pubblico “vero” magari proprio da una sua scelta), una gamma molto articolata di operatori quindi, poteva trovare in lui un interlocutore con cui confrontarsi, sempre competente, da cui ricavare stimoli, o anche – a volte – la franchezza del non incoraggiamento.
Questa disponibilità è una qualità fondamentale in chi si occupa di teatro, non soltanto a livello della produzione (dove è l’assenza di confronto che genera spesso ”autoreferezialità”), ma proprio anche a livello della programmazione dei teatri, funzione non meno rilevante e – vorrei dire – creativa, oltre che di grande responsabilità, in un sistema “di giro” come è tuttora prevalentemente il nostro (sempre naturalmente, che se ne ipotizzi una gestione culturalmente e socialmente consapevole).
Un’ulteriore premessa. Le considerazioni che sto per sviluppare derivano in gran parte dall’analisi dei programmi delle stagioni e dalle frequenti pubblicazioni del Donizetti. Dal complesso di questo materiale si ricava con chiarezza l’importanza attribuita alla formazione degli spettatori, una funzione divulgativa che si concretizzava, anche attraverso questi testi, in un dialogo continuo con il pubblico.
La lezione più autentica e originale di Benvenuto Cuminetti organizzatore, sta proprio nella capacità di dialogo fra un teatro e il suo pubblico e fra produzione e programmazione, associata alla consapevolezza della distinzione precisa delle due funzioni (non è un caso che il Teatro Donizetti non abbia mai realizzato una propria produzione, ma semmai, spesso, e in termini quasi sempre molto motivati, ospitato delle “prime”).
In concreto, si trattava in primo luogo di interpretare i progetti produttivi, conoscere il percorso dei gruppi e degli individui, cogliere elementi di curiosità o magari scoprire guizzi di genialità, e capire le motivazioni reali, la necessità delle scelte (che a volte c’è, ma molto spesso non c’è nel teatro italiano) e la coerenza fra questo livello ideale e la realizzazione materiale (coerenza che spesso è condizione di qualità).
Non sono, quelle di Benvenuto, le modalità del “grande innovatore”, di chi rompe deliberatamente con una tradizione, anzi, nell’illustrazione delle linee programmatiche del teatro, e in tutte le sedi possibili, si sottolinea il collegamento con la tradizione e assieme la necessità di dare spazio a quelle che lui chiama le ragioni del nuovo (che indaga con una curiosità instancabile a livello teorico, ma soprattutto in giro per l’Italia a vedere spettacoli). Non innovazione nel senso di rottura, dunque, ma secondo il modello del Teatro Donizetti, un rinnovamento soft: la capacità, cioè, di introdurre nelle stagioni (caratterizzate da una qualità di base irrinunciabile anche a livello dell’area più tradizionale) quei piccoli, continui spunti che sono stati fondamentali – e sono fondamentali dove altri riescono a interpretare non meccanicamente questa lezione – per innescare dinamiche di ricambio effettive nell’ambiente teatro (e nei gusti del pubblico).
Si è trattato di una linea estremamente consapevole: c’è in tutte le dichiarazioni, si legge tra le righe, la certezza, e anche a volte l’orgoglio di fare delle scelte di rottura (penso che con le precisazioni indicate il termine diventi corretto), e precisamente motivate all’interno del sistema teatrale oltre che per la città di Bergamo.
Tutto questo comportava – ed era questa una delle sue qualità umane principali – una grande capacità di ascolto (delle singole vicende e della loro evoluzione, e dei fenomeni teatrali nel loro complesso) e una sorta di understatement, che si esprime molto bene nella definizione del suo ruolo al Teatro Donizetti, che è, ed è sempre stata mi sembra, “consulente alla programmazione” (quando sappiamo benissimo che basta mettere insieme tre spettacoli per chiamarsi “direttore artistico”, in giro per l’Italia, e io credo che pochi siano stati direttori artistici come lui).
Questo “dettaglio” mi sembra molto significativo della levatura culturale, ma anche di una consapevolezza politica e di una denuncia esplicita dei limiti in cui opera scegliendo, senza nessuna incertezza, il fronte pubblico: nel momento in cui metteva il suo lavoro al servizio dell’Amministrazione comunale, Cuminetti accettava di recepire “indirizzi” e attuare una serie di mediazioni, a volte molto faticose probabilmente. Di queste mediazioni si leggono gli alti e bassi nella stessa composizione dei cartelloni; per tutti l’ultimo, dove si giustifica un po’ forzatamente l’introduzione del musical: ma la scelta politica e anche per certi versi civile (torneremo su questo punto) è quella di ribadire la funzione dell’Amministrazione pubblica.
Tutto questo fa della personalità del nostro “consulente alla programmazione” un caso abbastanza eccezionale di intreccio tra competenze culturali, passione teatrale, pensiero organizzativo e consapevolezza politica.
C’è un percorso ricorrente nelle riflessioni teoriche di Benvenuto, che a mio parere lo motiva intellettualmente ma gli dà anche la forza morale necessaria a svolgere la sua funzione di organizzatore di cultura fra le difficoltà che dicevamo: la consapevolezza della “marginalità” del teatro come elemento di forza, come filo conduttore del teatro del Novecento, come “necessità” dell’innovazione.
(...)
La marginalità, la consapevolezza della marginalità del teatro è però anche, in termini che per certi versi potrebbero sembrare paradossali, la ragione della sua forza, del suo significato nella comunità, ed è fondante della sua potenzialità innovativa.
Su questo vorrei leggervi un pezzo, che appare con alcune varianti in più di una pubblicazione, intitolato “Il teatro e la città”, cui credo abbia dedicato molta cura, perché ricco di significati evidenti, ma anche di sfumature, di riflessioni tra le righe.
Ma alla “marginalità” cui il teatro è stato indubbiamente spinto non corrisponde, automaticamente, una presenza irrilevante o trascurabile nella nostra società. Anzi. La ricerca teatrale più rigorosa e innovativa del Novecento aveva avvertito l’avviarsi di una vicenda che, come accadde, avrebbe eroso il primato di questa antica forma di comunicazione e favorito la sua omologazione a forme di spettacolarità evasiva. Aveva reagito, esplorato altre strade, aveva soprattutto riscoperto le radici e la specificità dell’esperienza teatrale esaltandone perennità e modernità.
Infatti, i grandi riformatori della scena novecentesca si erano resi opposti e avevano combattuto il progressivo prevalere e imporsi della ricerca del facile consenso e del successo commerciale. Ma avevano anche percepito che altre modalità di comunicazione essenzialmente affidate all’immagine, che ora caratterizzano massicciamente la nostra società, avrebbero messo radicalmente in questione e relativizzato, rispetto alle moderne forme, il teatro. Ma questa condizione di inevitabile “marginalità” fu da quei grandi protagonisti della scena novecentesca – da Copeau a Craig – lucidamente assunta e trasformata in una grande sfida con l’invenzione di nuovi processi creativi e di produzione di nuove forme di teatralità. La “marginalità” ha svolto e svolge un ruolo di spinta alla creazione e alla elaborazione di modalità creative qualitativamente diverse da quelle, oggi, dominanti1.
L’innovazione trova quindi radici precise nella storia del teatro del Novecento: il nuovo non è un corpo estraneo, è elemento costitutivo di questa tradizione e funzione. Per contro, questa continuità, questo pensiero, sostiene culturalmente Benvenuto (gli offre buone giustificazioni intendo: questa considerazione è del tutto personale, e deriva da una mia personale lettura delle stagioni), anche quando fa scelte “convenzionali” e di cui certo non era entusiasta ma che – oltre che dai limiti del sistema, come vedremo più avanti – partono dalla necessità (che tutti i direttori di teatro ben conoscono e cui danno diverse gradazioni di importanza), di non perdere, di conquistare anzi, il pubblico “borghese”.
In questo senso è significativa la situazione da cui la città di Bergamo parte, e che, come “consulente alla programmazione” si propone di trasformare. Vale la pena di ricordare2, come il teatro del dopoguerra fosse disastrato: qui a Bergamo negli anni ’50 e ancora negli anni ’60 gli spettacoli facevano una sola rappresentazione (i non giovanissimi sicuramente lo ricordano). C’erano i famosi lunedì del Piccolo Teatro, mitici per il pubblico “borghese” colto di allora, ma che non di rado trovavano platee semivuote (per spettacoli memorabili), e solo in casi eccezionali si rischiava la replica.
Più avanti, dalla fine degli anni ’60 e nel corso degli anni ’70 inizia quella “rimonta” che ha caratterizzato tutto il teatro italiano, ma che a Bergamo è stata particolarmente significativa: con le 9 repliche in abbonamento (su 130.000 abitanti) e un’indiscussa qualità di programmazione, Cuminetti ha fatto della sua città una delle capitali teatrali d’Italia (e “piazza” ambitissima!).
La straordinaria crescita delle presenze dagli anni Settanta ad oggi, l’espandersi delle iniziative, il consolidarsi del consenso nei termini di una risposta ragionata e convinta è testimonianza di una politica che ha avuto la finalità di riportare e fortemente riproporre l’esperienza teatrale al centro della vita della città e, poi, di radicarla sempre di più. La consapevolezza del difficile contesto mediatico con il quale il teatro doveva, inevitabilmente, fare i conti – perdita della sua centralità, imporsi massiccio del cinema, avvento della televisione, prevalere della spettacolarità – è stata alla base della politica teatrale dell’Amministrazione e dell’Assessorato. […]
La conquista, ma soprattutto lo straordinario ampliamento del pubblico avviene per una politica teatrale con la quale l’Amministrazione Comunale risponde alle gravi difficoltà del teatro. Accetta la sfida e punta risolutamente sulla qualità artistica delle proposte, sulla valorizzazione della specificità di questa esperienza, sul promuovere partecipazione e attenzione a programmi nei quali anche la ricerca teatrale trova un suo significativo spazio.
Le scelte dell’Amministrazione e dell’Assessorato furono fondate, perciò, su un elevato senso della sua responsabilità pubblica3.
Da questo documento, che è del ‘94, risulta molto forte e motivato l’orgoglio per questa crescita e per il suo significato politico, ma credo si senta già la necessità di difenderne le ragioni, e a maggior ragione emerge in modo inequivocabile – nelle ultime dichiarazioni – la forte preoccupazione che questa consapevolezza pubblica si stia sfaldando:
…il che significa salvaguardare una forma di incontro essenziale a produrre “socialità”, programmare e operare con maggiore attenzione alle ragioni dell’arte e della cultura che a quelle commerciali o del facile consenso, equilibrare l’attenzione ai classici, alla produzione contemporanea, alla ricerca.
Mi sembra di poter leggere oggi queste parole come un appello, un richiamo a chi avrebbe raccolto, sul fronte dell’amministrazione – e della “consulenza alla programmazione” - la sua eredità.
Ma analizziamole anche facendo un passo indietro. Il punto di riferimento, anche per un teatro di programmazione (non soltanto per un teatro di produzione), era il Piccolo Teatro di Milano, primo Teatro Stabile italiano. Ma ricordando l’assunzione convinta di questo modello sul piano culturale, Cuminetti sottolinea qualche distanza significativa su quello organizzativo.
Dal punto di vista politico culturale il Piccolo rappresentava la ricerca e l’affermazione delle ragioni della presenza e dell’intervento pubblico in un settore delicato come quello della cultura, una programmazione attenta ad equilibrare i classici, il rapporto necessario con la tradizione teatrale, con i moderni e i contemporanei, attenzione e sviluppo di quelle attività che accompagnano la programmazione, come incontri, dibattiti, seminari, pubblicazioni ed altre forme sia d’informazione che occasioni forti di approfondimento e conoscenza.
Sul piano organizzativo, il Teatro Donizetti non ha mai sposato la forma dominante dell’“organizzazione del pubblico”, quel “reclutamento” nelle scuole, nelle fabbriche, ecc. richiamato (con forte significato “militante” e chiaramente storicizzabile), nel manifesto della fondazione del Piccolo: “Un teatro d’arte per tutti”. Sostiene Cuminetti:
Il pubblico del Teatro Donizetti è cresciuto […] per contagio, per aggiunzione spontanea, per il richiamo dell’esperienza teatrale proposta, per il consenso e il giudizio positivo sulla programmazione. L’Assessorato allo Spettacolo, infatti, non ha mai avuto un Ufficio Stampa né un Ufficio Organizzativo (che nel ’93 non c’era e non c’è nemmeno adesso). Soltanto da due anni è stato creato un responsabile, a tempo parziale, del rapporto con i giovani e con le scuole, …4.
Il pubblico quindi non si “recluta”, si crea “per contagio”.
La considerazione citata presenta però aspetti ambivalenti su cui si potrebbe ingaggiare una discussione complessa: ad esempio l’uso del termine “consenso”, la compatibilità di quello che ho definito “nuovo compatibile” con la creazione del consenso, che significa anche “numeri”. Ma anche su questo punto la coerenza è sorprendente: la soddisfazione per i risultati quantitativi raggiunti non cancella mai la consapevolezza della relatività dei numeri. Non ho trovato in un solo documento, ad esempio, l’utilizzo del termine mercato: personalmente sono convinta che intendere il pubblico come mercato (l’abuso e l’estensione meccanica al teatro del concetto di mercato), sia una delle più gravi deformazioni del senso stesso del teatro. Benvenuto sapeva di dover “dare dei numeri”, che il riconoscimento (e il futuro) della sua attività era legato al riscontro quantitativo. Ci sono momenti precisi, nella sua carriera di organizzatore, in cui quest’aspetto è fondamentale: mi riferisco in particolare al passaggio da un assessore all’altro. Ma l’aspetto quantitativo resta sempre relativo. In 15 anni, è tutto proteso, ad esempio, a valorizzare le linee che guidano Altri percorsi, indipendentemente dai risultati quantitativi assoluti, ma proprio per il valore del piccolo numero: i 400 abbonati ad Altri percorsi, di una stagione – non ricordo quale – diventano molto più significativi dei risultati, ben più consistenti, della stagione ordinaria in abbonamento.
Altri percorsi: la genesi e l’affermazione come modello lombardo, meritano una riflessione ad hoc. Di cosa si tratta innanzitutto: di integrare nella stagione ufficiale una selezione di spettacoli.
Il riferimento è all’“altro” teatro: spettacoli che in qualche modo si staccano dalla norma, dal cosiddetto teatro “ufficiale”, e che affermano “le ragioni del nuovo”.
Una delle cose che colpisce percorrendo i cartelloni bergamaschi di Altri percorsi, è però la scelta di non considerare il termine “altro” sinonimo di “nuovo” (e di non sposare conseguentemente una o più tendenze riferite al “nuovo” teatro), ma di restare estremamente curioso ed aperto a scoprire cosa sta succedendo intorno (indipendentemente dal proprio gusto, ma tentando sempre un’interpretazione, una lettura personale dell’evoluzione del teatro italiano). Voglio sottolineare quest’aspetto, che porta a un’innovazione che non è mai aggressiva, non è mai impositiva, rifugge da scelte di tendenza e dal rischio dell’ideologia, ma è, in primo luogo, aperta.
Nell’assumere Altri percorsi (qualcosa di più, come abbiamo visto, di uno slogan felice) come modello per il territorio, la Regione Lombardia ha fatto propria questa scelta (e ha sposato la causa del sostegno del teatro “altro” nelle programmazioni pubbliche) anche se non sempre, e non ovunque mi sembra, ne è stato colto lo spirito.
Certo Altri percorsi in quanto “contenitore” separato del teatro “altro”, costituisce anche un limite (forse necessario, sicuramente utile come chiave politico-amministrativa): sembra quasi che la soglia della “compatibilità del nuovo” stia arretrando. E Benvenuto ne prende atto, inventando, pragmaticamente, una soluzione, certo non da “grande innovatore”: ma si può essere grandi innovatori programmando un teatro Comunale bene? Non so, non lo so davvero.
(...)
Un ulteriore importante aspetto, è la consapevolezza che ci si muove in un sistema e che non è possibile programmare un teatro senza conoscere questo sistema, e senza che le logiche delle scelte siano motivate e dichiarate. E’ uno degli argomenti del dialogo continuo di Benvenuto con gli spettatori: la volontà di far sapere al pubblico che cosa succede nel teatro italiano e di denunciarne i limiti e gli errori, quando occorre.
Qui voglio ancora leggere le sue parole, dal programma della stagione 96/97:
Alla presentazione di ogni stagione si fa, se pur brevemente, un accenno alla situazione del teatro italiano perché ogni programmazione dei teatri è inserita nel sistema teatrale nazionale. Si vuol dire che non si possono giudicare in assoluto le stagioni di Bergamo, Modena, Milano, Genova, Firenze Venezia e di altre importanti città senza la consapevolezza che si è “dentro”, si voglia o non si voglia, un’organizzazione del teatro che incide e condiziona, ancor prima delle scelte, le produzioni e la distribuzione. Un sistema teatrale di cui conosciamo le ragioni del suo formarsi, del suo sviluppo anche imponente e significativo, ma che da anni è andato rivelando limiti preoccupanti e, soprattutto, ha creato ostacoli all’accesso delle novità produttive e creative di tanto giovane teatro. Se non è stato possibile sottrarsi alle pesanti costrizioni di questo sistema che è stato radicato e alimentato dalle grandi compagnie e dai grandi produttori (ma non sono state estranee le istituzioni teatrali pubbliche), si è riusciti ad introdurre modifiche con attenzioni e scelte di spettacoli che, pur meritevoli, erano collocati ai margini del teatro ufficiale. A dire la verità anche oggi molti, troppi teatri perseguono una politica di chiusura verso i mutamenti che pure si sono prodotti nel teatro italiano5.
E’ una critica precisa e pesante che, sottolineata dalla rivendicazione – e dall’orgoglio- per le scelte operate negli anni (quelle possibili), si vena di un pessimismo nuovo, forse un senso di solitudine e di impotenza rispetto a un degrado che non risparmia nessuno.
Non vorrei infine dimenticare una considerazione (anche se mi limito ad accennarlo per motivi di tempo): l’attenzione per il pubblico passa anche dalle riflessioni su un aspetto apparentemente tecnico e di dettaglio, ma fondamentale: gli abbonamenti. Croce e delizia del teatro italiano, sono ben più che un fatto amministrativo: l’abbonamento può essere una gabbia, ma anche un grande strumento di crescita, attraverso su cui si possono costruire – o meno - reali processi d’innovazione. Allora si comprende lo sforzo di spiegare gli incastri di tagliandi, la motivazione di “forzature” apparenti, che forzature non sono, ma scelte precise che si chiede al pubblico di capire (e condividere).
Per chiudere vorrei leggervi un pezzo che ha il pregio di ricondurre i problemi del teatro, al contesto sociale e politico generale e di riassumere il senso e i risultati di un’avventura professionale e umana.
Il tema è “Il ruolo pubblico e la tendenza alla privatizzazione”:
In una stagione politica che accentua la dimensione privatistica e si sta riinterrogando sulle ragioni dell’intervento pubblico la vicenda del Teatro “G. Donizetti”, ripercorsa se pur rapidamente appare per più aspetti esemplare. Il dibattito sulle ragioni dell’intervento pubblico, del resto, ferve non soltanto in Italia e non riguarda soltanto il teatro, ma più sfere ed aree della società.
Deve essere affrontato con la coscienza che sono in questione patrimoni di tradizioni vitali da salvaguardare e difendere perché non vengano meno nella vita associata, pena il suo impoverimento. Dibattito giusto e necessario, perciò, ma da condurre almeno con la coscienza della complessità della questione e dei valori che sono in gioco. L’intervento rilevante e decisivo dell’Amministrazione pubblica nella politica culturale e teatrale della città ha avuto sin dall’inizio la preoccupazione di rendere evidenti ed esplicite le ragioni e il senso della sua presenza. Non è stato sempre facile difendere e mantenere questo orientamento. Ma ci si è riusciti e i risultati sono stati di grande rilievo e difficilmente contestabili. L’impegno pubblico ha, infatti, fatto crescere un imponente e sorprendente consenso – invidiatoci da tanti teatri – attorno a proposte di qualità e di indubbio rilievo culturale e sociale. Ha mantenuto viva la dialettica tra il patrimonio di forme e di testi che la civiltà teatrale ci ha consegnato e le ragioni del nuovo. Ha orientato progressivamente l’attenzione della città e dei giovani verso la ricerca teatrale contemporanea perché non c’è salvaguardia del passato senza che lo si rimetta in gioco con nuove reinterpretazioni e creazioni. Ha soprattutto rimesso al centro della vita della città un’esperienza che se non ha più il primato della partecipazione e dell’attenzione – appartiene, ormai, ad altri strumenti di comunicazione -, è necessaria e insostituibile a produrre nel rapporto “faccia a faccia” e nella compresenza fisica dibattito, riflessione, godimento, e a incrementare la vita di rapporto6.
NOTE
1 BENVENUTO CUMINETTI, Il Teatro e la Città, in Teatro Donizetti – Stagione di Prosa e Altri Percorsi 1994-1995, Comune di Bergamo – Assessorato allo spettacolo e alla Pubblica Istruzione, Bergamo 1994, pp. 9-10.
2 Riassumo da: Il teatro e la città, cit.
3 Ivi, pp. 10-11.
4 BENVENUTO CUMINETTI, Il teatro e la città: Bergamo, in AA. VV., Un teatro a Varese: quale futuro? – Atti Giornate di studio sui problemi organizzativi e gestionali di una struttura teatrale: esperienze a confronto, Comune di Varese, Assessorato alla Cultura, Varese, 25/26 settembre 1993, p.78.
5 BENVENUTO CUMINETTI, (Senza titolo), in BENVENUTO CUMINETTI (a cura di), Teatro Donizetti – Stagione di prosa e altri percorsi 1996-1997, Comune di Bergamo, Assessorato allo Spettacolo, Bergamo 1996, p.7.
6 BENVENUTO CUMINETTI, Il teatro e la città, oggi, in AA VV, Il teatro Donizetti e la città 1990 –1995, Teatro Donizetti – Quaderni dello spettacolo, Comune di Bergamo – Assessorato allo Spettacolo e alla Pubblica Istruzione, Bergamo 1995, pp. 9-10.
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