ateatro 63.18 Una censura post-moderna Una prima versione del testo per il dossier di "Hystrio" di Oliviero Ponte di Pino
Questa è la prima versione del testo che confluirà nella seconda parte dell'ormai imprescindibile dossier "Hystrio" a cura di Mimma Gallina.
Lo presentiamo ora in anteprima, in una versione ancora non definitiva: speriamo di raccogliere ulteriori spunti e suggerimenti dai visitatori di ateatro.
In Italia da qualche anno la censura teatrale non esiste più. Almeno in teoria. Fino a tempi abbastanza recenti, prima di portare in scena uno spettacolo era necessario sottoporre il testo a un’apposita commissione per ottenere un «nulla osta per la visione ai minori». Con risultati grotteschi: ancora negli anni Settanta uno spettacolo-manifesto del «teatro immagine» come Pirandello chi? di Memè Perlini rischiava di essere vietato ai minori di 18 anni perché non esisteva alcun testo da far visionare. Finché nel 1998 il ridicolo procedimento contro il film Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco ha finalmente indotto il Ministro della Cultura Walter Veltroni ad abolire la censura preventiva, sia per il cinema sia per il teatro.
Anche se in Italia quella del censore non è più una professione, si trova sempre qualcuno che continua ad aspirare al ruolo. Per esempio Gianfranco Micciché che nell’estate del 2002 ha tentato di bloccare l’allestimento delle Rane firmato da Luca Ronconi a Siracusa a causa dei manifesti degli uomini politici usati nella scenografia (questo il commento a caldo di Curzio Maltese sulla «Repubblica»: «Penosa e ridicola era già la censura del Micicchè, il piccolo viceré siciliano del premier. Ancor più penoso e ridicolo, oltre l’apparenza liberale, è il comunicato con il quale Berlusconi, travestito anche nella retorica magniloquente da novello Re Sole, concede il "permesso" a Ronconi di satireggiare con la sua sacra immagine. Ma più penoso di tutto è il breve e commosso ringraziamento di Ronconi e Escobar a sua maestà per il gesto di alta "intelligenza e civiltà"»). Al ruolo di censori aspiravano anche quei membri del cda del Piccolo Teatro che alla fine del 2003 volevano impedire le rappresentazioni milanesi dell’Anomalo bicefalo di Dario Fo: un tentativo di censurare il Premio Nobel bloccato da una denuncia preventiva del direttore Sergio Escobar.
D’altro canto per un comico (e in generale per un artista) le censure sono come le medaglie per i generali: una prova di eroismo e integrità che garantisce indipendenza di giudizio agli occhi del pubblico. Insomma, una forma di pubblicità gratuita, che a volte può essere addirittura cercata attraverso lo scandalo. Purtroppo si trovano sempre più di rado quei parroci un po’ ingenui e quei sindaci sbruffoni che all’ultimo momento negano la sala al guitto sboccato e sovversivo, garantendo qualche articolo sulle gazzette locali e l’inevitabile solidarietà.
Peraltro le frecce della censura non sono rivolte tanto ai big della satira o del dissenso politico. Servono soprattutto a intimidire gli altri, quelli tra gli artisti e soprattutto tra chi programma i teatri che non vogliono crearsi troppi problemi. Perché tutti sappiamo che la forma più efficace di censura è l’autocensura.
Del resto esistono mille modalità di repressione assai meno goffe e controproducenti del brutale divieto di andare in scena. Più persuasive. Di questi tempi, per esempio, è molto in voga l’intimidazione giudiziaria. Le querele, più o meno fondate, con annessa richiesta di danni miliardari, sono ormai ordinaria amministrazione per i comici televisivi, da Grillo a Luttazzi a Sabina Guzzanti. Di recente hanno colpito anche il teatro: per querelare Dario Fo e Franca Rame, chiedendo danni per un milione di euro, si è scomodato addirittura il senatore Marcello Dell’Utri, forse temendo soprattutto la trasmissione dell’Anomalo bicefalo in un network televisivo indipendente.
Ovviamente in un settore che dipende in misura sostanziale dal sostegno pubblico non è difficile praticare un filtro burocratico, in apparenza neutrale e tecnico, ed evitare così presenze scomode. Possono essere invocati fattori economici, come è successo nel febbraio 2004 per Grillo ad Arezzo: per la sinistra un chiaro caso di censura, per la destra il recital costava semplicemente troppo. A volte può essere chiamato in causa il mercato: se la stagione si accorcia, è più comodo lasciar fuori un lavoro controverso e rischioso. Oppure si può semplicemente decidere che una rassegna di teatro dialettale vale più di un glorioso festival di teatro d’avanguardia, in termini di affluenza di pubblico e di consenso elettorale (come è successo a Opera Prima, cancellato a Rovigo). Spesso dietro queste scelte si avverte la rivalsa dei nuovi arrivati contro tutto ciò che era vecchio, elitario, «di sinistra»: probabilmente nasce da motivazioni di questo tenore la decisione di non rinnovare nel 2003 il sostegno a Primavera dei Teatri a Castrovillari (costringendo la rassegna a emigrare a Cosenza). I problemi però non vengono solo dalle giunte di destra: anche per numerosi quadri politico-amministrativo-culturali della sinistra sembra diventato molto difficile giustificare l’investimento della cultura. Così se restano alcune isole felici (vedi Ravenna), altrove trionfano l’ideologia del Grande Evento Gratuito che crea (sperano) consensi elettorali (ma ripetendo le logiche televisive del Festivalbar); oppure subiscono passivamente l’ideologia del mercato e i perversi meccanismi della distribuzione teatrale (con il feticcio dell’abbonato). Tutto questo ha innestato negli ultimi anni una spirale involutiva di cui fanno le spese i festival (a destra come a sinistra: vedi il Festival Theatropolis a Moncalieri) e gli spettacoli meno infeltriti.
Può anche accadere che in una regione dove un circuito ha un monopolio pressoché totale una nuova sala – che non risponde alle «normali» logiche di scambio e di progressivo involgarimento – venga boicottata, minacciando di escludere dal giro le compagnie che accettano di recitare lì.
Non si può escludere – anzi, si lo sussurra con insistenza – che in certi teatri circolino liste di proscrizione di registi o attori dichiaratamente di sinistra (anche se è impossibile avere le prove), o più in generale di personaggi ritenuti «inquietanti» per la quiete catatonica dello spettatore paratelevisivo. Mentre curiosamente negli ultimi anni si sono moltiplicati attori e registi che rivendicano una antica (ma a lungo clandestina) militanza di destra...
Non è neppure il caso di ricordare la censura attraverso il silenzio: il triste stato della critica teatrale nei grandi organi di informazione è sotto gli occhi di tutti e, se di censura si tratta, riguarda l’interno ambito del teatro di cultura.
In genere la vigilanza si accanisce sui soliti tre o quattro temi chiave: il sesso e le parolacce, la religione e la politica (con le loro varie combinazioni). In Italia da qualche anno investe anche un aspetto fondamentale della comunicazione teatrale. Le disposizioni adottate dopo l’incendio del Cinema Statuto di Torino hanno imposto una serie di vincoli che riducono notevolmente la gamma delle possibili interazioni tra l’evento teatrale e il pubblico, inserendole in schemi molto rigidi (privilegiando, più o meno consapevolmente, le sale all’italiana). A lungo andare queste restrizioni finiscono per limitare in maniera drammatica (o ridicola, a volte) la libertà d’espressione.
Nell’insieme in questi anni, in teatro, più che di censura vera e propria si può parlare di stretto controllo, ottenuto soprattutto (e in maniera quasi indiscriminata) diminuendo le risorse per un settore ritenuto marginale e scarsamente strategico. Perché sinora (per fortuna e per sfortuna) il teatro è stato considerato un medium elitario, frequentato da frange intellettualoidi che non possono avere grande peso nelle contese elettorali. Rispetto alle censure praticate in questi anni in televisione, che hanno colpito i comici, certo, ma anche giornalisti come Enzo Biagi e Michele Santoro. radiati dopo il diktat bulgaro di Berlusconi, il teatro pare un’isola felice. Anzi, molti personaggi radiati dal piccolo schermo riempiono teatri e palazzetti dello sport con fortunatissimi recital. I capofila sono stati Fo (dagli anni Sessanta, quando venne scacciato da Canzonissima) e Grillo (dagli anni Novanta, quando i suoi recital risultarono indigeribili dai pubblicitari), a loro si sono accodati i già citati Luttazzi e Guzzanti. E naturalmente Paolo Rossi.
Insomma, finché non si accorgono che il teatro è ancora un po’ libero...
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