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Ma il teatro serve?
Alcune domande a Massimo Castri
di Elisabetta Cosci
 

Di che cosa si potrebbe parlare?

C’è ormai una noia a parlare di queste cose... Perché, a cosa serve?

Ma il teatro serve?

Così no. E non serve neanche parlare di teatro se non abbiamo chiaro a chi parliamo di teatro. Le parole hanno senso se hanno la possibilità anche remota di diventare prassi, altrimenti diventa perversione, vizio.

L’emozione che un regista come te riesce a dare testimonia la necessità del teatro.

La necessità del teatro nessuno la mette in dubbio, almeno spero, perché ultimamente in questo paese sembra che nessuno abbia più bisogno del teatro. Tant’è vero che in questi ultimi 50, 60 anni non siamo riusciti a far niente a livello di riforme o di strutture. Quando constati con mano, per esperienza, che ormai non hai più interlocutori anche nell’ambito della sinistra – gli assessori di sinistra, per esempio, che sono i tuoi maggiori interlocutori, sono assolutamente inconsapevoli di che cosa sia il teatro e a cosa serva – allora significa che non c’è più speranza per il teatro. Non siamo riusciti a fare una legge sul teatro e questo per me assume il valore di una soglia simbolica. Il teatro è come un malato terminale: se non siamo riusciti a intervenire quando potevamo tanto vale che gli stacchiamo definitivamente il cannello e lo lasciamo morire in pace.

Tra poco diventerai direttore della Biennale di Venezia. Che cosa farai? Quali sono i tuoi progetti?

Alla Biennale andrò a far finta di fare le cose serie, perché la Biennale ha settori importanti quali per esempio quello del cinema, o quella delle arti visive, ma il tentativo di far crescere, all’interno della Biennale, anche il settore delle arti dal vivo non è riuscito.

Perché?

I budget sono risibili, mancano i teatri e le strutture. Per spirito civico si fa finta di fare cose serie, si inventano cose per tentare di dare dei segnali, non possiamo fare di più. Tutto ormai rasenta il tragicomico. C’è un nome roboante che è quello della Biennale ma dietro non c’è niente.

Segni di vitalità artistica ci sono?

No, neanche quelli, e come potrebbero esserci?

E il pubblico?

Parlare del pubblico in questa situazione fa un po’ ridere. Il pubblico si sta allontanando progressivamente.

Questo è imputabile ad una scarsa qualità artistica o a che altro?

Scarsa qualità globale: di contenuti, di interessi tematici, artistici, estetici. Ci sono delle punte altissime che qualcuno raggiunge ma in genere è la scarsità che prevale. E poi direi anche scarsa qualità artigianale, che è quello che allontana il pubblico dal teatro. La qualità artigianale, o la grande capacità attoriale, è infatti quello che caratterizza il teatro e che lo differenzia dal cinema o dalla televisione. A livello subliminale si comunica un senso di povertà, di incapacità di invenzione di immagine, di fascinazione. Il pubblico così va ad esaurimento come la città di Venezia. La situazione non sarebbe terribile come è perché le inversioni di tendenza potrebbero essere attuate con relativa facilità, basterebbe volerlo senza fare miracoli. Prendi il caso di Torino, dove il teatro è ridotto allo stremo, asfissiato dopo la crisi strutturale in cui è caduto in seguito allo storico abbandono di Guazzotti, negli anni ’80, rappresentante di una visione di teatro pubblico storicamente forte su modello del Piccolo di Milano. Dopo 15 anni di traversie per questo teatro, con la mia direzione ero riuscito a prendere in mano la situazione (nonostante l’opposizione di tutti) e nel giro di un anno e mezzo ero riuscito ad aumentare di 1500 presenze gli abbonamenti in campo giovanile e ad aprire due spazi nuovi. La città iniziava a capire e il teatro iniziava di nuovo a diventare una presenza a Torino, con la gente che mi fermava per strada per dirmi che se restavo io il teatro avrebbe contato. Queste sono le cose che contano, questo significa che le inversioni di tendenza si possono operare, basta fare alcune cose semplici.

Come fare, appunto, il teatro per esempio?

Il livello del teatro è importante. Se il teatro non porta con sé questa qualità di poesia forte, di poesia di comunicazione, di poesia corporea... Ma sono importanti tutte le cose che si fanno per il teatro, come aprire spazi diversi, penetrare nei luoghi, offrire forme di teatro diverso per diversificare l’offerta e le fasce di utenza, passare dal circo e così via. Non si inventa niente, si presenta un progetto di rapporto e di funzione: di rapporto con la città e di funzione nei confronti della città. Si può fare, ma occorre fare.
Perché stanno distruggendo il Piccolo di Milano? Non per motivi teatrali sia ben inteso, ma per altri motivi. Non ci vuole molto a sperperare un patrimonio culturale come quello. Bastano cinque anni, una serie di fattori concomitanti, le città cambiano in fretta e noi siamo un popolo che non ama la memoria. La crisi della drammaturgia italiana dopo Pirandello in fondo è tutta qui nel nostro non voler ricordare.

Massimo Castri (Cortona 1943) è considerato uno dei principali esponenti del teatro di regia novecentesco; la sua ricerca si è concentrata soprattutto sulla crisi del dramma borghese, con la realizzazione di spettacoli che hanno segnato gli anni Settanta e Ottanta (dal ciclo di drammi pirandelliani a Ibsen) e che hanno più volte ottenuto i premi Ubu della critica italiana. Successivamente ha lavorato su Goldoni e sul mito, attraverso la tragedia greca. Laureato in lettere con una tesi sul teatro politico, che è servita da base al volume pubblicato da Einaudi nel 1973.Vincitore del Premio del Consiglio d’Europa, è stato direttore del Teatro Metastasio di Prato - Teatro Stabile della Toscana e del Teatro Stabile di Torino. Nel 2004 assumerà la direzione della Biennale di Venezia Teatro: il tema attorno a cui si svolgerà l’attività di Massimo Castri è la regia, intesa come l’innovazione principale del Novecento teatrale, vista un secolo dopo la sua introduzione e all’inizio di un nuovo secolo.


 
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