ateatro 60.40 Marco Paolini (ri)monologa in tv Il pezzo su Bhopal a Report su Raitre di Fernando Marchiori
Nel febbraio scorso, Marco Paolini era andato in scena in Piazza San Marco a Venezia, in pieno carnevale, con il suo Parlamento chimico, riportando nel salotto buono della città lagunare la storia drammatica del polo industriale di Porto Marghera, dei morti per cancro nei reparti cvm, del processo ai dirigenti Montedison e Enichem conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Era un modo - scrivemmo allora - per intere generazioni di veneziani di tornare a pensare senza vergogna né pregiudizi ad un tempo in cui a sfilare per le strade non erano le maschere di Arlecchino e Pantalone, ma quelle antigas degli operai in sciopero. Fu un successo enorme, doppiato oggi, 23 novembre, dall’altra parte della città, a Marghera, dove una piazza Mercato stracolma (forse cinquemila persone, in piedi, attentissime), a due passi dagli impianti del petrolchimico, ha seguito Paolini nel racconto di Bhopal. Certo l’attore trevigiano richiama grandi folle ovunque, e la recente esperienza televisiva nella trasmissione Report (di cui Bhopal era una delle puntate) ne ha ancora una volta confermato la bravura e la popolarità. Ma l’appuntamento di Marghera ha avuto un significato che va ben al di là del successo di pubblico.
Bhopal e Venezia
Organizzato nell’ambito delle iniziative per rilanciare la "questione petrolchimico", a un anno dall’incidente al reparto TDI che, il 28 novembre 2002, fece temere il peggio (l’esplosione dei depositi di fosgene), con la città industriale paralizzata e la gente ancora una volta costretta a chiudersi in casa per evitare la nube tossica, lo "spettacolo" si è affiancato ad altri appuntamenti di non minore pregnanza politica: una campagna informativa, un’assemblea permanente sul rischio chimico, una raccolta di firme per chiedere l’allontanamento del fosgene, e soprattutto la mostra delle sconvolgenti fotografie scattate da Raghu Rai all’indomani del disastro di Bhopal, in India, 19 anni fa. Già presentata al vertice sulla Terra di Joannesburg e in varie capitali europee, la mostra ha trovato a Marghera la sua più coerente e inquietante conclusione. Diversi i tempi della strage e le sostanze chimiche impiegate, Bhopal e Venezia hanno conosciuto le stesse dinamiche criminali: l’inquinamento continuato e pianificato, l’irresponsabilità delle dirigenze aziendali e di un’intera classe politica, la riduzione progressiva della manutenzione degli impianti e dei sistemi di sicurezza per abbattere i costi di produzione, la mancanza di informazioni a medici e cittadini. E infine l’ingiustizia: in India nessuno è alla sbarra, quindi né bonifiche né risarcimenti in vista; in Italia una sentenza scandalosa ha assolto due anni fa tutti gli imputati eccellenti al processo celebrato nell’aula-bunker di Mestre dopo quattro anni di indagini. Ma il legame tra i due centri industriali, e i timori fondati di un rischio-Bhopal per Venezia, sono resi ancora più inquietanti dal fatto che non solo la Union Carbide (insieme a un’altra multinazionale americana, la Monsanto) fornì il supporto tecnico per lo sviluppo del Petrolchimico negli anni Cinquanta, ma la Dow Chemicals, che nel 1999 ha acquistato la Union Carbide, è attualmente proprietaria anche degli impianti veneziani.
Trasporti, ponti e indiani veneti
Accolto da un lunghissimo applauso, Paolini ha iniziato proprio con una scheggia del Parlamento chimico: la scena dei veneti che si chiedono vicendevolmente il luogo d’origine ("da ‘ndove ti xe?"), tastandosi la lingua (le diverse varianti del dialetto) come gli animali si annusano per riconoscersi l’un l’altro. Scena che a sua volta era un trasporto da un altro spettacolo, il Milione, cardine di quel processo di reciproco riconoscimento tra l’attore-autore e il pubblico veneto che è la ragione prima del successo di Paolini e del suo impegno anche televisivo (sia detto per inciso: chi inverte i fattori non solo è in cattiva fede e dimostra di non conoscere il lavoro di Paolini, ma soprattutto troverà che il risultato non torna, sfugge ai parametri di una critica aprioristica). Pur mitigato dall’invito a non correre troppo lungo facili parallelismi, il sottotesto veneziano del racconto di Bhopal (del resto più volte reso esplicito da richiami a situazioni tecniche equivalenti o alla medesima condizione di subalternità culturale dei lavoratori: spesso gli operai indiani finiscono per parlare in veneto) scorre limpidamente fra i grumi di emozioni quasi palpabili tra la folla silenziosa. Qui ogni famiglia ha conosciuto sulla propria pelle la metastasi sociale, quando non direttamente anche quella organica, causata dall’insorgere incontrollato di un polo chimico che tutt’oggi è il più grande d’Italia. Non ci vuole molto, perciò, a riconoscersi in quelle altre famiglie che a Bhopal sognarono di poter finalmente uscire dalla miseria grazie al lavoro in fabbrica o nell’indotto. La strage avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 viene ricostruita dal loro punto di vista: dalla gioia per la fine della stagione dei monsoni ai matrimoni celebrati in serie in quelle notti dolci raccomandate dalle congiunzioni astrologiche; dalla fallita "rivoluzione verde", che impose di sostituire il mais al riso usando i prodotti chimici e causando la desertificazione, fino alla crisi della fabbrica, alla sua dismissione, alla svendita degli impianti in Brasile e Malesia. Sotto terra, chiuse in vasche frigorifere, rimangono 63 tonnellate di isocianato di metile, che a contatto con l’acqua accidentalmente versata da una una squadra di operai (non specializzati) incaricati della manutenzione periodica sprigionerà una nube tossica devastante. » l’apocalisse: quasi 8.000 morti in tre giorni per gli effetti immediati, altri 16.000 in seguito, ripercussioni su mezzo milione di sopravvissuti e su tutto l’ambiente circostante per un’area di 40 kmq. "You want Osama, give us Anderson", ripete più volte Paolini, verso la fine del monologo. » la frase, dura e sconcertante, che si legge su una delle foto di Rahgu Rai. Campeggia sul cartello che un’anziana donna in sahri regge, tra molti altri, durante una manifestazione a New Delhi. » una sopravvissuta alla strage, una delle migliaia di vittime del più grande disastro chimico della storia che da 19 anni chiedono giustizia per un crimine senza precedenti e ancora senza colpevoli. Denuncia il contrasto tra gli sforzi enormi per catturare bin Laden e quelli risibili per ottenere l’arresto e l’estradizione di Warren Anderson, all’epoca presidente della Union Carbide e oggi latitante negli Stati Uniti. Il cortocircuito tra disastri ambientali così lontani e così vicini tra loro, tra modelli di sviluppo e colonialismo economico, tra declinazioni tanto differenti della categoria di "terrorismo" potrebbe continuare in un perverso climax di sicuro effetto. Ma la conclusione di Paolini si affida alla grazia e alla ferma serenità di una ragazza che si vede tra i dimostranti nelle foto di Rahgu Rai, una ragazza nata in quella notte maledetta e che porta nel suo nome la memoria della nube tossica e insieme la forza della vita che continua: Gas Dehvi, Dea del Gas.
Teatralità, televisione
Il Paolini di Report ha attraversato ancora una volta il mezzo televisivo, lo ha usato senza farsi usare, ne ha esaltato i giacimenti di recondita teatralità, imponendo - complice la splendida regia di Giuseppe Baresi – i propri tempi, mezzi e linguaggi. Il teatro di Schio (Vicenza), dove l’estate scorsa sono stati registrati tutti i monologhi trasmessi in tv, è apparso come una metafora del teatro tout court. Uno spazio sventrato (l’edificio era in restauro e mostrava le viscere dell’impianto all’italiana, i muri con i segni dell’attrezzeria strappata, i palchetti, gli ingressi laterali, il sottopalco) ridisegnato dal corpo dell’attore e dagli spostamenti di macchina essenziali. Pochi elementi di riporto (come il trenino caro a Paolini, un leggio, una bicicletta o un baule) e un funzionale riuso del materiale rinvenuto in loco, ovvero delle macerie del teatro (nei due sensi: letterale e metaforico): una scritta sul muro scrostato ed ecco una stazione, la polvere che si alza dal pavimento e siamo nei campi del Kosovo contaminati dall’uranio impoverito, una catasta di travicelli o un percorso nei meandri bui del sottopalco e siamo nei pressi delle vasche che a Bhopal contenevano il gas micidiale. Se nelle precedenti esperienze televisive e radiofoniche di Paolini ci era sembrato di leggere il tentativo di far emergere la teatralità (implicita e spesso strumentalizzata) dei media, qui siamo forse di fronte a un passo ulteriore, che porta la tele-visione del teatro a riarticolare il proprio linguaggio sulla base di un modello di comunicazione che rimane orgogliosamente altro, e non solo rifiuta di farsi "telegenico" ma anzi costringe la tv a portare in luce la propria filigrana teatrale. Tutto questo, ovviamente, non si è visto sul palco di Marghera. Ma è indubbio che ne costituisce l’antefatto artistico. Se agli spettacoli di Paolini non si ha l’impressione di vedere qualcosa che si è visto in televisione (come accade sempre con i personaggi resi famosi dal piccolo schermo e che poi decidono di calcare le scene) è perché la verità di questa forma di relazione con il pubblico, cui volentieri diamo ancora il nome di teatro, si sostanzia in un farsi comunità che sfida i mezzi di distrazione di massa sul loro stesso terreno (e con esiti meno effimeri, per nostra fortuna, della facile satira politica, che conferma la supremazia di quei mezzi proprio mentre ne tenta lo smascheramento). Riempire le piazze con un monologo (per di più molto "tecnico" e molto poco divertente) significa certo saper investire il capitale comunicativo accumulato con l’esperienza televisiva, ma in questo caso significa anche rivendicare quella specificità del teatro che Paolini riesce a mantenere viva anche proprio mettendola continuamente alla prova nel confronto e nell’attraversamento mediatico anziché rinchiuderla nelle nicchie risentite o nelle torri d’avorio che costellano tanta parte del panorama teatrale contemporaneo.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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