ateatro 59.70 Il monaco guerriero del teatro italiano Sul teatro di Danio Manfredini di Oliviero Ponte di Pino
E' in uscita Piuma di piombo. Il teatro di Danio Manfredini di Lucia Manghi (il principe costante, Milano, 2003, 160 pagine, 12,50 euro & lo potete comprare anche online).
In anteprima per , la prefazione del volume.
Danio Manfredini è il monaco guerriero del teatro italiano. Per lui il lavoro dell’attore è un duro esercizio di autodisciplina e un percorso di conoscenza. Una tecnica e un’etica. Richiede una dedizione assoluta e impone difficoltà e sofferenze, perché obbliga a scandagliare le parti più oscure di noi stessi. «Il teatro è un’arte dura», confida con la voce appena velata dalla stanchezza. «Attraversi dei tuguri neri, in cui il corpo ti pesa, e non ti muovi più». Il contatto, lo scontro con il pubblico non consentono compromessi: appena la tensione cala, il lavoro dell’attore diventa insensato, sciatto. Prostituzione.
Eppure, come tutti gli autentici credenti, Danio dubita. Dubita del teatro, dove troppo spesso si svuota la forza del rito. Dubita di sé stesso, dei propri mezzi e qualità, o della propria costanza e dedizione, e cade nello sconforto, si chiude in se stesso – nella rabbia o nell’apatia. Finché il demone non lo assale di nuovo, e gli restituisce la forza per attraversare la propria ombra.
Persino nel variegato e sfrangiato universo della nuova scena italiana, Danio Manfredini rappresenta un caso a sé, un’eccezione che è difficile inquadrare in qualche regola. Solitario e schivo, nell’arco di vent’anni ha costruito con ascetico rigore una mezza dozzina di preziosi spettacoli, per lo più assoli, replicati di rado, soprattutto per la sua ombrosa ritrosia e il suo tormentato rapporto con il teatro.
Al tempo stesso, molti colleghi lo considerano un maestro. Per la sua coerenza, per il suo rifiuto di fare facili concessioni, per la fedeltà ai suoi principi. Ma anche perché, attraverso numerosi seminari e workshop, ha disseminato un metodo e una pratica di lavoro che hanno segnato ormai alcune generazioni di teatranti. E’ diventato quasi imbarazzante vedere nei curricula di troppi giovani attori una dicitura pressoché obbligatoria: «Ha partecipato a un seminario di Danio Manfredini». Infatti lui si irrita, e vorrebbe che non lo citassero. Tuttavia la sua traccia resta: anche perché insegna che l’attore non è solo un esecutore, un replicante programmato, una marionetta (o una supermarionetta, anche se deve averne tutte le qualità tecniche). La sua pedagogia dimostra che quello strano essere è prima di tutto un creatore, e che la sua creatività affonda le proprie radici nella consapevolezza di sé.
La sua vocazione era la pittura. Così quando il proprio lavoro o il teatro lo deludono, quando la tensione tra l’intenzione e il risultato, tra il gesto e l’opera non lo soddisfano, e naturalmente quando si tratta di immaginare un nuovo spettacolo scena dopo scena, torna a dipingere. Acquerelli e chine con figure precise e fragili, che spesso emergono da sfondi stesi con le varianti più tenui di colori primari: un azzurro che tende al grigio, il rosa e l’arancio...
Ma per raccontare la storia, bisogna fare un passo indietro, in una serata milanese molto qualunque. A casa di questo giovane aspirante pittore che non frequenta il teatro si presenta all’improvviso César Brie, un attore argentino esule in Europa, come tutti i suoi compagni della Comuna Baires. E’ un caso o un destino, ma Danio è incuriosito. Segue un suo seminario e inizia a lavorare anche con la compagna di César, Iben Nagel Rasmussen, una delle anime dell’Odin Teatret diretto da Eugenio Barba, e viene iniziato alle pratiche del training. Alla base c’è un intenso addestramento fisico e vocale, una tecnica che permette di trasformare corpo e voce in uno strumento, ma anche di saggiare le sue possibilità e i suoi limiti.
Per certi aspetti non siamo molto lontani dalla pittura e dalla musica: non ci sono parole, solo movimenti e suoni. Il training ruota intorno al gesto prima come espressione di una interiorità e poi come segno e dunque comunicazione. Anche qui – come di fronte alla tela – si tratterà poi di fissare questi gesti e di inserirli in una composizione. Solo che la tela non c’è: bisogna di lavorare su di sé, sul proprio corpo – non su un oggetto esterno. E bisogna lavorarci nel tempo e nello spazio, davanti a un pubblico con cui costruire ogni volta un rapporto di complicità e tensione – senza mai chiudere il gesto creativo in un’opera che resterà per sempre uguale a se stessa, ma ridandogli vita ogni volta, in ogni momento, con la stessa tensione, la stessa verità.
«Il punto di partenza per me è stata la pittura. Forse è meglio parlare di "visioni interne": tutti i miei lavori erano accompagnati da film interiori, come se per sostenere le situazioni sceniche mi fosse necessario lavorare sulla vivificazione di una serie di impulsi interni che possono dare ritmo, forza o comunque scansione del tempo nell’azione. La differenza è che nella pittura il processo avviene in solitudine e quindi lo spettatore si trova davanti la traccia di un processo; di lì lo spettatore risale a una serie di spinte, agli impulsi motori che hanno spinto il pittore a generare quell’immagine. In teatro invece questo percorso tenti di ricrearlo anche davanti al pubblico. Questa è la grande difficoltà: far sì che l’evento possa succedere in una maniera interessante.»
Danio e César iniziano a frequentare i centri sociali milanesi, soprattutto quello dell’Isola, dietro la stazione Garibaldi. E’ un quartiere popolare, all’epoca teatro di lotte per la casa, per la scuola, per il lavoro. E il teatro è anche, in quegli anni, attività nel sociale e militanza politica. Dopo lo sgombero dell’Isola, Danio continuerà a trovare accoglienza in altri centri sociali milanesi: prima al Leoncavallo, il più grande, noto e combattivo, dove però vive una incessante frizione tra le istanze politiche degli ospiti, che tendono a subordinare l’evento estetico alle esigenze della militanza, e la sua autonoma ricerca artistica. Poi, in maggior sintonia con la sua visione, alla fine degli anni Ottanta si trasferisce in un altro spazio milanese, l’Usi di viale Bligny, dove trova uno spazio in cui può provare in tranquillità.
Paradossalmente, in un’epoca e in luoghi dove il collettivo e il gruppo sono l’orizzonte di riferimento, mentre la colonna sonora sono gli slogan gridati in corteo e i concerti, Danio sceglie un itinerario quasi clandestino e individuale. Il suo segreto sono le lunghe prove solitarie, le mille improvvisazioni buttate via, le sequenze di gesti inanellate e poi smontate, sezionate e ricomposte. Un’attività quotidiana che prosegue per anni e anni, maniacalmente, asceticamente, alla ricerca della maestria tecnica e della conoscenza di sé – che sbocciano e trovano un momento di verità quando ci si incontra con il proprio limite fisico e psichico, oltre il confine della resistenza e della fatica.
In parallelo un’altra esperienza segna il suo percorso esistenziale: lavora a lungo come operatore presso Casa Nuova, una comunità che si occupa di malati psichici. Per anni, prima di essere sostituita dal teatro (in realtà più dai seminari che dagli spettacoli, che restano un lusso, un investimento anti-economico), questa attività sarà la sua principale fonte di reddito. La professione implica una lunga consuetudine con il mondo della follia e dell’emarginazione. Per Danio, per la sua sensibilità sottile ed esasperata, i matti non sono molto diversi da noi. Sono solo persone che vivono e sentono con troppa intensità sensazioni ed emozioni, e per questo sono insieme fragili ed eccessive, inquiete e instabili. Ai suoi occhi la follia, sembra di intuire, è una ferita che ci portiamo tutti dentro, ma che le regole e le convenzioni sociali riescono a occultare, a sedare, a consolare, un dolore che gli affetti possono farci dimenticare. Proprio su queste ferite non ancora rimarginate, su questa solitudine, sullo scontro tra il desiderio e i rapporti di potere, sui conflitti che attraversano insieme la nostra interiorità e le relazioni con gli altri, si fonda il suo lavoro. Il teatro, per certi aspetti, diventa un lungo viaggio nella diversità – in una diversità non riconciliata. O meglio, il teatro porta alla scoperta delle diversità di cui ciascuno di noi è portatore.
«Anch’io appartengo a una categoria sociale considerata diversa dentro la società, e quindi non posso ignorare questo fatto. E’ difficile staccarsi da te stesso, dagli argomenti che ti toccano. Ci sono queste categorie "diverse" ma poi ognuno, anche gli "uguali", hanno delle esperienze della diversità sociale. Forse per me c’era anche il bisogno di scoprire, dietro a tanti svantaggi, qualche vantaggio: cogliere comunque una qualità assolutamente pazza della vita, che la tua diversità spesso ti porta a scoprire. E far in modo che questa condizione un po’ pazza di esistenza, di incontri, di status, di modo di vivere gli incontri o la sessualità, non diventi solamente un segno di disperazione ma dia anche un senso di qualità della vita, o possa far nascere una poetica cruda, o comunque non una cosa da cancellare ma qualcosa che comunque ti permetta di fare un’esperienza che altri magari non fanno. Inoltre nella mia vita ho conosciuto delle persone che devono vivere nella società come diversi e che mi hanno molto colpito: perché questa possibilità di poter esistere è una lotta; e può anche essere interessante vedere come una persona cerchi di trovarsi uno spazio vivibile e una forma per vivere, anche se non è considerato uguale agli altri».
Questa dimensione personale, che affonda le radici nel vissuto, trova ben presto una serie di punti di riferimento artistici che resteranno costanti. In primo luogo, per quanto riguarda la visione del mondo, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini e Rainer Werner Fassbinder, profeti della diversità e di una irriducibile tensione alla trasgressione. Poi la violenza del segno pittorico, le torsioni e gli oltraggi del corpo dei quadri di Francis Bacon. E, sul versante teatrale, l’immaginario poetico e visuale di Tadeusz Kantor e il training gestuale e i metodi di composizione drammaturgica che arrivano dall’Odin Teatret.
Il suo primo assolo, La crociata dei bambini, ispirato a una poesia di Bertolt Brecht, lo prova e lo rappresenta nella prima metà degli anni Ottanta all’interno del Centro Sociale Leoncavallo. Come negli spettacoli successivi, è impossibile fissare la data di debutto ufficiale: ci sono varie fasi di studio, private e pubbliche, versioni diverse dove le opere cambiano forma e struttura, fino ad arrivare a un punto fermo che può essere solo provvisorio. Nella Crociata dei bambini questo processo dura alcuni anni. Si tratta di mettere a punto un metodo di lavoro, di inventare una lingua teatrale e di offrirla al pubblico.
Lo spettacolo è breve e dichiaratamente povero – tre riflettori, un fondale grossolanamente dipinto a cielo, un solo interprete. Rivela una intensa efficacia e sorprende per la maturità del lavoro, sia nella precisione dei dettagli sia nella composizione. Con l’aiuto di un paio di pupazzi, di un elefantino a rotelle nel ruolo del cane, grazie all’uso preciso di pochi oggetti (una sciarpa rossa, una corda tesa a mezz’aria, un bastone, un siparietto bianco), Manfredini anima i vari personaggi di un testo pieno di pathos, dando corpo a un gruppo di bambini in fuga di fronte all’incalzare della guerra: si allontanano da una società dilaniata dalla violenza e cominciano a vagare seguendo i loro sentieri privati, in un ultimo e disperato sogno di libertà e di pace.
Le tecniche usate sono molteplici: molte richiamano l’area del Terzo Teatro anche nel riferimento folklorico ed etnologico, e non sarebbe difficile trovare altre ascendenze e precedenti. Tutti assimilati e ripresi con misura in un intreccio di immagini che si imprimono nella memoria: magari un piattino tenuto tra i denti o, nel finale, un pupazzetto che ruota all’infinito vorticosamente, appeso a un filo. Quello che maggiormente colpisce è la chiarezza con cui in scena convivono due linee opposte, radicalizzate e in apparenza inconciliabili: da una parte un’espressività immediata, quasi fastidiosamente viscerale, che sembra voler fare a meno di ogni mediazione intellettuale per esprimere la molteplicità di risposte istintuali che trascendono l’unità dell’individuo; dall’altra la ricerca di un linguaggio del corpo e del movimento, stilizzato e preciso come quello dei teatri orientali, un alfabeto di gesti di cui abbiamo forse perso il significato preciso.
Come se, cancellato il centro offerto dai punti di riferimento ideologici e corporei – quelli coscienti e quelli inavvertiti – non restasse che l’accentuarsi di due tendenze latenti, che spingono il lavoro sul versante della danza: quella dell’informalità dell’urlo, del puro impulso immediato e irriflesso; e quella verso l’astrattezza di un codice che tende a chiudersi su se stesso nella sua formale e inattaccabile purezza. Due tensioni che spingono, al limite, verso l’incomunicabilità: quella di un Io originario che ancora non riesce a trovare una sua unità e una sua mediazione interpersonale; e quella di un linguaggio senza più punti di riferimento, e per questo assolutamente trasparente.
E’ nelle oscillazioni tra questi due poli che La crociata dei bambini offre un’inedita versione dello straniamento brechtiano: se a tratti il risultato è volutamente frammentario, questa è la strada che porta alla costruzione di uno stile. Non vissuto come maniera, come formula rigida, ma come confronto tra due tensioni che si riflettono una nell’altra.
Anche il successivo assolo, Miracolo della Rosa, ha per protagonisti dei giovani isolati dalla società e dalla famiglia. Sono gli adolescenti del riformatorio di Mettray, il luogo terribile e splendido che ospitò il giovane Jean Genet, lo sfondo mitico di molti suoi romanzi. Nel testo s’intrecciano anche gli ultimi quarantacinque giorni di Harcamone, condannato a morte nella vicina prigione di Fontevrault (un’antica abbazia), che Genet – in una assoluta inversione tra bene e male – dipinge come un santo, incarnazione del male e della bellezza. L’inversione non riguarda solo la sfera etica e quella estetica, si riflette anche nel linguaggio: fin da un titolo che riecheggia le allegorie medievali, lo stile tradisce la fortissima tensione lirica e metaforica.
Filtrati da Genet, si esplicitano e precisano alcuni temi. Il teatro di Manfredini, del resto, può essere letto anche come una ossessiva «riflessione pratica» sull’opera dello scrittore francese. Danio non mette in scena i suoi testi teatrali (non è interessato alla regia, il suo è un teatro dell’attore-autore), piuttosto rivive nella propria carne le visioni di Genet, il rapporto con la diversità e la trasgressione, l’ansia lirica e metaforica, l’omosessualità, la pulsione di morte e il disperato bisogno d’affetto, la follia e la solitudine, la violenza e la tenerezza. Una ribellione che non prende le forme della politica ma quelle del desiderio.
Tuttavia c’è uno snodo che non si può trascurare. In un lavoro certo personale, quasi intimo, i primi assoli non sono mai autobiografici: preferiscono dare voce a una folla di personaggi e presenze, incarnare una alterità, che recupera magari brandelli di comportamenti osservati e memorizzati, gesti, frasi e inflessioni rubate alla vita. Resta sempre – e qui l’esordio brechtiano è rivelatore – uno scarto, la possibilità di una distanza tra l’attore e i personaggi che di volta in volta lo possiedono. Questa distanza può farsi talmente sottile da rivelarsi impercettibile – e tuttavia resta fondamentale sia per la creazione dei suoi lavori sia per determinare la sua parabola creativa.
Manfredini non si dedica solo agli one man show. Periodicamente lavora a spettacoli collettivi, che riflettono le sue ossessioni e il suo metodo di lavoro. In questa direzione l’esperienza più significativa e ambiziosa è, nella prima fase del suo percorso, La vergogna. Fonti principali sono Genet – ancora una volta – e Pasolini. Tema centrale, una trasgressione radicata da un lato nel mondo individuale dell’illuminazione e della ribellione poetiche; dall’altro in quello dell’insopprimibile senso di libertà dell’adolescenza, e nella linfa assorbita dal «popolare», nel senso più autentico del termine: un tessuto di vissuto ed esperienze in cui orientare i propri sentimenti e le proprie azioni.
L’ambientazione – il pavimento ricoperto di plastica trasparente, lo spazio circondato da precarie transenne di legno grezzo da cantiere edile – rimanda a una precarietà insieme reale e simbolica. Siamo al limite tra la città e la campagna, tra il costruito e l’incolto: i terreni devastati oltre l’ultima periferia, i palazzi incompiuti, abbandonati e già in rovina, le ultime ore della notte, gli amori febbrili e inquieti di chi elemosina o regala l’ultima briciola di sé.
Questa terra di nessuno non è ancora limite e confine: ma piuttosto margine, spazio di assenze e di vuoti, una smagliatura della realtà in cui può sopravvivere il diverso, il deviante, il nuovo, il luogo in cui le esperienze sfuggono a ogni definizione e gli affetti scivolano continuamente da un oggetto all’altro: intrappolati nella tenaglia di amore e di morte, sospesi tra la brama di un possesso totale e l’angoscia di un continuo abbandono. I tre interpreti hanno scelto per questa loro desolata parabola tre personaggi votati irrimediabilmente alla sconfitta e al fallimento. Ernestine, folle solitaria, ninfomane e stracciona, ma anche per paradosso beffarda e lirica incarnazione dello slancio rivoluzionario (impersonato con efficace rigore da Luisella Del Mar); Bruno, ragazzo di vita e di borgata di pasoliniana memoria (Paola Manfredi); e infine un immaginario Genet, cui presta la sua presenza Danio Manfredini: disperatamente cosciente dei suoi slanci e della sua spinta autodistruttiva, dello scarto irrimediabile tra la sua sensibilità e il mondo che lo circonda, intorbidito dai suoi intricati impulsi amorosi.
Il lavoro (che sconta qualche sfilacciatura, e in particolare un eccesso di movimenti non sempre indispensabili) ha il tono di una dissacrante liturgia: squarci di cerimoniali semplici ma misteriosi, lampi di immediatezza realistica, parentesi liriche, frammenti di un erotismo che è sempre – imprevedibilmente, di fronte alla violenza del mondo – estrema tenerezza, e forse per questo risulta ancor più atroce.
Nell’intreccio dispersivo e gratuito di queste tre sensibilità, costrette via via a rinchiudersi nel loro mondo segreto, si disegna una trama di incontri forse vaghi e inutili, ma che trasmettono istanti di fragile felicità e commoventi perturbazioni dell’animo, la nostalgia di una autenticità e di una libertà perdute, l’impossibile aspirazione all’accettazione di sé e della oscura diversità di ciascuno.
Il limite del lavoro è tuttavia proprio questo: i tre personaggi alla fine non si parlano, ciascuno rimane chiuso nel proprio orizzonte. Il percorso individuale di autoconsapevolezza di Danio Manfredini si specchia, per così dire, in altre declinazioni ed esemplificazioni, ma continua a restare un viaggio solitario che può solo sfiorare altre solitudini.
Nel successivo Tre studi per una crocifissione, un altro assolo, ci sono ancora tre percorsi individuali, ma tutti vissuti in prima persona. Manfredini racconta, per brevi monologhi, altrettante storie di diversità, emarginazione e sconfitta. La prima è una follia ironica e svagata, una sofferenza profonda ma vissuta con beffarda leggerezza, con una incoscienza che appare l’unica possibile difesa (ed è questo forse il brano più frammentario e sfaccettato, ma insieme più ricco di sfumature e più evoluto nella costruzione del personaggio). La seconda storia (almeno nelle prime uscite pubbliche del lavoro, in seguito l’ordine tra il secondo e il terzo pezzo sarà invertito), introdotta da una sorta di leggero tip tap al suono di Bach, riprende brani del monologo di Bernard-Marie Koltès La notte poco prima della foresta: è l’appassionata, struggente e tragica richiesta di aiuto di un immigrato, una toccante dichiarazione d’odio e d’amore per il mondo, che propone tra l’altro l’istituzione di un «sindacato internazionale per la difesa dei ragazzi non troppo forti». Infine, una sintesi di Un anno con tredici lune di Fassbinder, il fallimento della patetica storia d’amore di un travestito, traccia di una passione senza futuro, desolata e lucida.
Sono tre storie di sconfitta, come se solo indossando la maschera della sconfitta – rifutandosi alla sicurezza e all’arroganza dei vincitori – fosse possibile rintracciare ancora qualche brandello di umanità. Sono tracce di una umanità che può scoprire se stessa solo nella differenza, nella distanza, nell’impossibilità di un incontro reale. E che solo quando la ferita è aperta, solo quando la sofferenza è accesa, può dispiegare la gamma dei suoi colori, ora livida ora giocosa ora malinconica ora disperata.
Il trittico è dedicato, fin dal titolo, a Francis Bacon, al quale rimanda un certo uso del corpo e del movimento; ma siamo però lontani dall’isolamento assoluto, dalla straziante disperazione, dalla primordialità e dalla rabbia dell’urlo che esplode nelle opere del pittore inglese. Perché i personaggi riuniti in Tre studi per una crocifissione ribaltano immediatamente la loro solitudine in una urgente richiesta d’affetto e di contatto. Quel che c’è di metafisico nell’angoscia di Bacon (e che permette l’oggettivazione del gesto sulla tela), si risolve qui piuttosto nel sentimento, nella speranza d’una carezza, forse il deliro di una passione. Tanto è vero che i monologhi che compongono questi Tre studi sono in realtà dei dialoghi in cui il pubblico assume la parte del necessario interlocutore: prima confidente su cui riversare la propria con forzata disinvoltura il proprio disagio, e per il quale costruirsi una maschera di timidezze e esibizionismi, furbizie e ingenuità; poi destinatario d’un disperato appello, d’una richiesta di solidarietà e complicità; e infine, oggetto d’amore perduto, in un rapporto che stravolge e distrugge corpi e sessi, emotività e desideri. Sono passioni che il destino proietta verso la frustrazione e la prostrazione, e tuttavia possono rivelarsi esplosive: nella violenza, nella radicalità, nella capacità di sprigionare poesia.
Il successivo Al presente segna una ulteriore e importante evoluzione. Per la prima volta, in alcuni momenti la dimensione autobiografica emerge nella sua immediatezza, senza il filtro di altri autori o opere, senza la maschera di altri personaggi o figure. A sottolineare e al tempo stesso filtrare questo scarto di consapevolezza, nell’intero spettacolo accanto all’attore-protagonista c’è un manichino che ne riproduce le fattezze.
«In scena ci sono io, e un manichino che ho scolpito, uguale a me. Un doppio artaudiano. Avevo voglia di scappare, sentivo che in scena agivo moltissimo, mentre il mio punto di partenza era: "Io non ho niente da dire, niente da fare". Ma il teatro non è come il cinema, dove il silenzio è bellissimo, perché l’attore è figura su uno sfondo di paesaggio, in un contesto, e allora può anche tacere perché arriva tutto. Nel teatro la comunicazione è nell’attore, e se l’attore non agisce non arriva niente. È stata una lotta terribile. Mi dicevo: "Ma ho quarant’anni, perché faccio tutto quel casino? Devo cercare di avere un po’ di peso". Così ho avvertito la necessità di avere questo contrappeso fermo sulla scena. Questa presenza mi ha liberato, in modo da potermi muovere come quella parte di noi che continuamente viaggia, senza riuscire mai a soffermarsi. E poi resta quella parte lontana, dimenticata, che non dice niente, che non ha niente da dire, che ascolta, per la quale tutto è possibile, tutto cambia, niente è fisso, e che quindi non se la prende.
Paradossalmente io non gioco mai me stesso. Il "me stesso" è il manichino, mentre io gioco tutti quelli che mi girano intorno. Perché l’immagine della mia esistenza mi viene data da quello che io vedo: infatti, come tutti noi, io non vedo mai me stesso, se non ogni tanto allo specchio. Quello che io sento della vita è quello che gli altri mi fanno vedere. In questa rappresentazione, in Al presente, io agisco sempre gli altri.»
Come in tutti i suoi assoli, lo spettatore viene colpito e conquistato da un grumo di umiltà e orgoglio, di vulnerabilità e fierezza che traspare da ogni suo gesto. Orgoglio, perché si capisce che ogni gesto è assolutamente necessario, lì, in quel momento, e fa parte dell’integrità del suo lavoro, e che lui è pronto a difenderlo con tutte le sue forze. Umiltà, perché per distillare quel gesto è stato necessario un lavoro lungo, duro, difficile. Non è mai semplicemente un problema di tecnica (e la padronanza che ha del proprio corpo va oltre il virtuosismo), ma prima ancora una radicale messa in questione delle proprie certezze, in ogni istante. Vulnerabilità, anche perché la bellezza e la necessità di quel gesto sono un frutto fragile, e basterebbe un nulla per distruggerlo, per renderlo inutile. Fierezza, perché in questa vulnerabilità risiede l’unicità di ogni esistenza, il suo valore più prezioso.
Ma che cos’è l’esistenza per Danio Manfredini? È innanzitutto un dolore innominabile, una lacerazione originaria, una ferita che tende a cicatrizzarsi e irrigidirsi nel corpo che la ospita. Irrigidimento è tanto la normalità e le sue nevrosi (comprese le coazioni della danza), che sono solo una forma di anestesia. Lo è anche la follia, che pare cristallizzare quella ferita originaria nella ripetizione, nell’ossessiva e totale attenzione. E però nella follia (come nell’amore e nei suoi rituali, così spesso disperati) quella ferita è ancora possibile vederla e forse riaprirla. Ecco, Al presente è il continuo e ostinato tentativo di riaprire quella cicatrice e di mantenerla aperta, di vederla pulsare sospesi tra la fascinazione della morte e l’energia vitale.
C’è il terrore che nasce dalla sofferenza, e ce n’è uno forse più inquietante: quello che viene da una meccanicità di azioni, da una rigidità di sentimenti troppo simile alla morte. Con un atteggiamento insieme di repulsione e struggimento, di disgusto e pietà, Danio esorcizza quel terrore: perché quella ferita è una forza vitale, è ciò che dà a ognuno di noi la propria individualità e personalità. E’ anche la debolezza, la vecchiaia, la malattia, la demenza.
Al presente insegue il flusso infinito e lancinante di quelle ferite e di quella demenza, quasi a voler riscattare ogni minima briciola di dolore: una molteplicità infinita, che uno spettacolo non potrà mai esaurire. Danio pare impegnato nel compito impossibile di riscattarla tutta, di redimerla nella poesia. Trovando però due misure: la propria esperienza personale, magari ironicamente filtrata dalle ballate rock di Vasco Rossi, e la traccia di alcuni testi con cui misurarsi (Lo straniero di Camus, il Woyzeck di Büchner e Nostra Signora dei Fiori di Genet ma anche il Credo cattolico), passando magari per le ballate rock di Vasco Rossi.
È difficile catalogare questo teatro: è danza ma è anche pittura, è scavo su se stesso ma è anche maestria drammaturgica nel montaggio. È forma cristallizzata e interiorità incandescente. È riflessione sull’essenza dell’attore e schegge di vita, il rapporto tra l’esperienza e la forma, l’intimità e la comunicazione.
Cinema Cielo, finora il lavoro più complesso e ricco, segna una decisa maturazione artistica e si impone immediatamente come spettacolo di straordinaria potenza e fascino. Perché tutti i temi che venivano declinati individualmente, in soggettiva, rivissuti dall’attore-sciamano che li impersonava, vengono filtrati dal ricordo e per così dire oggettivati ed epicizzati attraverso una intera galleria di personaggi, fino a formare un universo imprevedibile e variegato.
Cinema Cielo è il frutto del desiderio di trarre un film da Nostra Signora dei Fiori di Genet. A un certo punto, mentre lavora con due attori, Patrizia e Giuseppe, Danio si accorge che quel progetto non si realizzerà mai. Quando Mario Martone, in una serie per Radiotre, gli chiede di presentare un suo «sogno nel cassetto», racconta di questo film impossibile: una pellicola che ha sempre desiderato fare e alla quale ha dedicato anni di scritture e riscritture. E’ venuto il momento di usare quel materiale, quegli appunti e sceneggiature. Ma non per il cinema: prima per un breve dramma radiofonico e poi per uno spettacolo teatrale che parta dal quel mondo e da quelle atmosfere.
Il testo di Genet – di cui restano solo alcuni frammenti e suggestioni – diventano la colonna sonora di un film porno che gli spettatori non vedranno mai. Questa pellicola invisibile viene proiettata al Cinema Cielo del titolo: una sala milanese che ormai non esiste più, smantellata dopo l’avvento delle videocassette e dei club privé. Il pubblico teatrale, sistemato esattamente lì dove dovrebbe esserci lo schermo, ne sente solo le battute, spiazzi di dialogo, e il rumore della pioggia che cade. Il palcoscenico è occupato dalla sgangherata e polverosa platea del cinema, con le sue file di poltroncine sbilenche, i frequentatissimi cessi sulla destra e poi, sullo sfondo, oltre le tende di velluto, verso la luce della strada, il foyer con le sue stralunate e divertentissime cassiere. Pian piano emerge il rapporto tra quello che dicono gli antieroi di Genet e quello che accade in sala: spesso un’associazione, a volte una complementarietà oppure in un ironico contrasto, in un continuo (e drammaturgicamente virtuosistico) gioco di rimandi.
La platea del Cinema Cielo è un inferno – o magari un paradiso – irrimediabilmente perduto, che può rivivere solo nella memoria, con la sua feccia improbabile e composita, una tribù ormai estinta con i suoi rituali spermatici. C’è il dolcissimo e stralunato travestito brasiliano, il tizio che si eccita solo se sente l’odore dei calzini, il sordomuto marchettaro che ulula e grugnisce di non essere omosessuale e che lo fa solo per i soldi, il paralitico in cerca di compagnia, il terzetto che s’incula al ritmo di Forever Young, il travestito in pelliccia e bikini che si scatena al ritmo della disco dance, l’immigrato che ormai abita in sala e si guadagna da vivere facendo lavoretti di mano e di bocca nei cessi, l’esibizionista che ti appoggia il cazzo sull’orecchia, l’uomo che solleva il vestito alla sua donna e la offre agli altri clienti, il Babbo Natale che in questa sconclusionata vigilia si scatena in una danza da giocoliere, il preservativo usato che s’appiccica alla suola della scarpa, lo studente in tuta e tacchi a spillo che si fa sodomizzare a raffica, il vecchio in giarrettiere che sbuca dai cessi, il marito che telefona alla moglie «Sono giù a mettere ordine in cantina, tra mezz’ora salgo» e s’infila nel cesso...
E’ una umanità eccentrica e meticcia, un variegato circo di ossessioni dove il Cristo è un acrobata sui trampoli che allarga le braccia. E’ fatta di manichini, immobili al loro posto oppure trainati, come negli spettacoli di Kantor, da piccoli carrelli. Ed è fatta naturalmente di esseri umani, infoiati dal meccanismo ossessivo della perversione, della coazione a ripetere, della forma che fissa e pietrifica il desiderio: burattini spesso più ridicoli che scandalosi, deboli e fragili come tutti noi, non appena ci liberiamo dall’ossessione della normalità. A dare vita a questa straordinaria galleria composta di decine di figure è un quartetto d’attori di straordinaria potenza e disponibilità: Danio Manfredini in primo luogo, e con lui Patrizia Aroldi, Vicenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro. E’ grazie a questo moltiplicarsi di presenze, alla loro danza a volte grottesca e a volte struggente che le ossessioni private, personali di Danio, il suo sentimento della diversità e della bellezza, trovano per la prima volta una dimensione oggettiva e insieme collettiva.
Cinema Cielo è una Classe morta a luci rosse, un teatro della memoria e della devianza, una danza della morte e della perversione. Ma è sempre attraversato dall’ironia e da un sentimento di umana pietà che accomuna i personaggi, gli attori e gli spettatori, tutti ugualmente mostruosi e umani. Lo spettacolo diventa così una lancinante meditazione sulla natura umana, sulla sua fragilità, sulla possibilità di trovare la poesia dentro e oltre la pornografia. E’ una intricata meditazione sul corpo (sulla sessualità) e sullo sguardo: i corpi degli attori e quelli dei manichini con cui a volte s’accoppiano, lo sguardo della platea che s’incrocia con quello degli spettatori sulla superficie di uno schermo inesistente. Ci sono squarci di quotidianità quasi bozzettisica, con le esilaranti controscene delle cassiere, in grado di accettare e di far accettare qualunque pratica sessuale come il più banale fatto della vita. C’è la bellezza e il degrado dei corpi che si accoppiano nello squallore consunto del cinema. C’è un’ironia, e una autoironia, di fondo, che sdrammatizza e riporta ogni comportamento a una dimensione semplicemente umana, e dunque da accettare come tale.
Ma poi – alla fine di questo canto della diversità, dell’amore e della morte – c’è anche il sospetto che tutto questo rimandi a qualcos’altro, a una realtà più terribile e segreta, che non sappiamo dire, e men che meno definire, ma di cui sentiamo l’oscura potenza non appena ci abbandoniamo a noi stessi. Lo sottolinea in maniera addirittura eccessiva – almeno nelle prime versioni pubbliche dello spettacolo – il finale, con la danza dionisiaca scatenata e oscena che conclude il lavoro: uno scarto rispetto al realismo a tratti grottesco di tutto quello che precede, un rimando al mito, forse addirittura a una trascendenza.
Va ancora sottolineata, per Cinema Cielo, una novità: è il primo spettacolo che – almeno per la stretta finale – non è stato totalmente autoprodotto. Da un lato è un indizio delle scarse capacità del sistema teatrale italiano di cogliere gli elementi di valore e di novità. Dall’altro segna una possibile svolta – dopo le «partecipazioni straordinarie» a due spettacoli del Teatro della Valdoca e della Compagnia Pippo Delbono – nel rapporto con le istituzioni.
Anche se quello di Danio Manfredini è sempre stato e resta, anche in questa occasione, un teatro militante a cominciare dalle condizioni produttive, dalla povertà e dal rigore, dai lunghi tempi di prova, dalla rivendicazione del diritto di sbagliare e di continuare a modificare e modellare gli spettacoli anche dopo il debutto, come fossero creature vive.
Come artista (e non solo) Danio Manfredini si è formato nella Milano degli anni Settanta, in una fase di forti (e spesso violenti) conflitti sociali e politici. Ha sempre lavorato in luoghi dagli espliciti connotati di militanza. Tuttavia i suoi spettacoli non hanno mai avuto tematiche esplicitamente politiche. Anzi, ha sempre difeso la totale autonomia dell’arte rispetto alle necessità immediate della lotta e della propaganda.
Tuttavia, a un livello più profondo la sua è un’arte dalle forti implicazioni politiche, proprio nel suo nucleo centrale, nella possibilità di costruire uno spazio di autoconsapevolezza e di espressione – e in definitiva di assoluta libertà personale. Condizione necessaria della creatività resta una fondamentale anarchia.
«In qualche maniera il potere ti determina anche sul piano artistico, in quanto agisci sempre in reazione alla sua azione. A un certo punto io mi rifiuto di essere una reazione all’azione del potere, così come a volte mi rifiuto di leggere il giornale, se mi deve condizionare troppo l’esistenza, perché ci sono informazioni che ti condizionano. E’ come se il potere volesse tenere la tua mente su certe cose. E io mi ribello alla possibilità che la mia mente venga messa là dove vuole il potere, anche a costo di essere segnato e di trovare una serie di intoppi. Non sto parlando di un’estraneazione politica, ma della possibilità di tenere aperta una zona che non sia solo di reazione ma di creazione.»
Quello di Danio Manfredini non è solo teatro, o meglio la scoperta – quasi il «miracolo» – di uno degli infiniti teatri possibili. Dal punto di vista formale, è un’«opera d’arte totale» essenziale e immediata. E’ pittura, perché nei suoi gesti minimi e ineluttabili si condensano insieme la traiettoria della mano che traccia il segno e il segno stesso. E’ danza, nel ritmo e nella concatenazione dei movimenti, nell’occupazione dello spazio. E’ letteratura, nel dialogo costante con modelli come Genet e Pasolini. E’ poesia, negli squarci lirici e nella riflessione sulla marginalità e sul diverso che costituisce forse il filo rosso di tutto il suo percorso: sofferta e mai esibita, che rifugge da ogni sentimentalismo e banalità.
Il suo obiettivo – così come quello di Pippo Delbono, che non a caso in diverse occasioni ha lavorato sia con César Brie sia con Danio – resta la semplicità, senza mai rischiare la semplificazione. La popolarità, senza mai cercare l’applauso facile, anzi. E’ la ricerca di una comunicazione e di una comprensione immediata e trasparente, che non ha bisogno di strumenti culturali e di filtri intellettuali per essere decodificata, perché il suo linguaggio si basa sugli elementi fondamentali del nostro essere nel mondo: il corpo e il suo rapporto con lo spazio, il gesto come espressività immediata, il sentimento – l’amore e l’abbandono.
Così, quando questo artista, aristocratico e raffinato come i veri anarchici, afferma «Cerco la semplicità, la popolarità», dice il vero. A patto di non dimenticare che quella semplicità si può raggiungere solo dopo essersi perduti, solo dopo aver attraversato quella che per Jean Genet, nell’ultima frase del Diario del ladro, è «quella contrada di me che ho chiamato Spagna».
Questo testo è parzialmente basato su articoli e interviste pubblicati su «il manifesto» (La povera crociata dei bambini brechtiani, 20 febbraio 1985, Margini di vita precaria, 28 dicembre 1989, «Se siamo tristi abbiamo i nostri motivi». Tre studi di Manfredini, 8 luglio 1992, Leonka story. Il centro nel mirino, «suq», 3 ottobre 1993, Una diversità non riconciliata, 20 ottobre 1995, Un manichino sotto anestesia, 11 luglio 1998), «art’ò» (Il teatro è pesante, numero zero, aprile 1998), www.olivieropdp.it, www.ateatro.it («ateatro 54», 1° luglio 2003, «ateatro 55», 20 luglio 2003).
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