ateatro 58.40 Lettera aperta ai "critici impuri" Sul documento apparso su "Lo Straniero", ottobre 2003 di Oliviero Ponte di Pino
Cari amici,
ho letto e riletto con attenzione il vostro documento sulla critica pubblicato sullo «Straniero» di ottobre (Il critico impuro di Fabio Acca, Carla Romana Antolini, Andrea Lissoni, Andrea Nanni, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci, ovvero il gruppo di lavoro sulla critica tenuto a Prato dal 10 al 12 giugno 2003 nell’ambito del festival Contemporanea 03 - Lo spettacolo e le arti delle nuove generazioni), per capire lo stato dell’arte e alla ricerca di suggerimenti e indicazioni.
Pur trovandomi con voi in sintonia su diversi temi e provocazioni, mi ha molto colpito, in un testo così ambizioso, l’assenza pressoché totale di due orizzonti che invece per me sono sempre stati molto importanti.
Perché nel vostro elogio del «critico partigiano» mi sembra mancare quasi totalmente ogni riferimento alla storia, e questo vuole dire sia la storia del teatro sia la storia tout court. Di conseguenza rifiutate ogni «esercizio di marketing da condurre secondo una logica ormai esaurita di ricerca di ricorrenze e contiguità e similitudini fra oggetti (opere) più o meno contemporanei» e vi distanziate «dalle fonti e dalle ombre della poetica degli autori». Si parla, è vero, di tradizione, ma in termini piuttosto generici. Per me, la stessa definizione di tradizione è un problema aperto e irrisolto. Che cosa è oggi per noi «tradizione»? Mimmo Cuticchio? Luca De Filippo o Luca Ronconi? Carmelo e Leo? Pasolini o Testori? Giorgio Albertazzi o Giorgio Barberio Corsetti? Senza capire un po’ meglio di che cosa stiamo parlando, «una presa di posizione politica in rapporto alla tradizione» diventa piuttosto difficile.
Un secondo aspetto che mi pare trascuriate riguarda la politica e l’economia dello spettacolo. Insistete molto, e giustamente, sull’importanza dei processi e delle esperienze rispetto alle opere, ma non si accenna mai alle condizioni materiali che rendono possibili (o impossibili) gli uni e le altre. Il teatro non sono solo gli artisti, le opere e i processi, ma anche un sistema con i suoi centri di potere e i suoi margini, i suoi ricchi e i suoi poveri (per scelta o necessità), e dunque i suoi conflitti. E’ soprattutto di fronte a questo scenario e alle sue convulsioni che – soprattutto di questi tempi – ogni atto critico è inevitabilmente «di parte».
Va bene, risponderete, queste cose le sappiamo bene anche noi. Non si può chiedere di avere tutto da un sintetico documento programmatico. Tuttavia queste rimozioni mi paiono il frutto dell’impostazione generale del vostro testo, che è fondato in sostanza sull’esaltazione della soggettività del critico e sul suo rapporto diretto, immediato, quasi intimo, con i processi creativi e produttivi, con l’opera e con gli artisti che li generano.
Se si pone davvero in questa prospettiva, il vostro «critico impuro» mi sembra alla fine assai «puro»: un lettore e traduttore di sistemi di segni, un testimone di processi, aperto e disponibile, che però fatica a trovare punti d’appoggio e un quadro di riferimento per le sue analisi. Insistete molto – tanto che alla fine inserite addirittura una postilla – sulla «umiltà, onestà intellettuale, sincerità, autenticità» del critico impuro. Fermo restando che ammiro in voi queste qualità, non mi sembrano quelle più adatte a discriminare un bravo critico da uno mediocre, così come conosco tanti artisti onesti e sinceri (fin troppo, aggiungerei) che fanno spettacoli assai poco interessanti. Peraltro, onestà e sincerità sono qualità assai difficili da giudicare in qualunque situazione e in qualunque essere umano. Lo sono e a maggior ragione in un campo di forze complesso come quello della creazione artistica e della comunicazione. Le nostre motivazioni sono insieme troppo complesse e vaghe, la consapevolezza di noi stessi troppo fallace perché questo tribunale della coscienza critica possa avere un qualche esito. Se non – parzialmente – di fronte a noi stessi e, appunto, alla nostra coscienza.
La moralità (e la responsabilità) si misurano piuttosto sugli atti, sulle pratiche, a cominciare dall’antico e volgare «Chi ti paga?» Ma qui bisognerebbe aprire un dibattito troppo lungo sul «critico impegnato» o «militante», quello che si sporca le mani e genera dunque possibili compromessi e conflitti di interesse tra la «purezza» richiesta a un osservatore neutrale, distaccato, oggettivo, e la necessità di sostenere in tutti i modi il teatro che si ama. A questo punto bisognerebbe fare nomi e casi concreti: voi signorilmente non li fate, e dunque eviterò di farli io.
Un’ultima annotazione. Esordite interrogandovi sul mestiere del critico (sulla sua sopravvivenza) e accennate alla necessità della pratica critica di conquistare altri spazi e di emanciparsi da «un linguaggio spesso usurato e inefficace». Queste buone intenzioni restano però tali, nel senso che non si precisano le forme e i luoghi dove si potrebbe (o dovrebbe) praticare l’esercizio critico. Anche questo mi sembra un tema che varrebbe la pena esplorare in futuro.
Oliviero
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