ateatro 57.1 Che fare dei festival? L'editoriale di ateatro 57 di Redazione ateatro
Quella del 2003 è stata insieme l’estate dei festival e l’estate della crisi dei festival - e non solo perché il blocco dei maggiori festival francesi da parte degli «intermittents du spectacle» ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutta Europa.
Per fermarsi al nostro paese, da un lato - come ha testimoniato il forum dei Festival, che ha segnalato decine e decine di rassegne piccole e grandi - l’Italia è sempre più «il paese dei festival», dalle Alpi allo Ionio. Questa proliferazione testimonia una straordinaria ricchezza di proposte e di progettualità, in località e situazioni a volte imprevedibili. Dal punto di vista della diversità genetica, l’Italia dei festival ricorda la foresta amazzonica.
Di fronte al progressivo appiattimento delle stagioni invernali su modelli consolidati, il teatro estivo regala un maggiore margine di rischio, la possibilità di sperimentare terreni nuovi, soprattutto dal punto di vista della definizione dello spazio teatrale e del rapporto con il pubblico (nelle metropoli le norme della sicurezza vengono evidentemente applicate con burocratica ferocia). Queste caratteristiche hanno un forte impatto: attirano spettatori spesso curiosi e attenti, interessati a scegliere e fare una esperienza in qualche modo insolita, eccezionale, «festiva», che a inserire nei normali ritmi di vita urbani, «feriali», gli aspetti culturali e civili del teatro. A questo punto diventa interessante scoprire se chi affolla i festival estivi continui a frequentare le sale teatrali anche d’inverno. Insomma, se non comincino a delinearsi due gruppi (o tipi) di spettatori teatrali.
E’ però fin troppo facile cogliere i rischi di questa situazione: molte di queste iniziative hanno corto respiro (o un respiro vagamente turistico) e implicano uno spreco di risorse, energie e denaro che si disperdono in mille rivoletti. Nel meccanismo ha certamente un ruolo chiave quel «funzionariato intellettuale» (genericamente di sinistra) contro cui Goffredo Fofi si è scagliato con solito il rischio fare di ogni erba un fascio): un ceto alla continua ricerca di progetti da patrocinare e dunque di legittimazione, sempre sospeso tra le necessità e le lusinghe dell’impegno culturale e l’imperativo di costruire consenso con iniziative para-televisive. In secondo luogo, questa impostazione spinge verso la creazione dell’evento, di una eccezionalità irripetibile (e magari giocata sull’appeal di curiosità extra-teatrali, e su investimenti spesso ingenti) per pochi eletti.
Questa tendenza riflette più in generale la crisi della «forma festival», un problema su cui si dibatte da anni e che continua a trovare soluzioni diverse. Una rassegna gloriosa come il Festival dei Due Mondi di Spoleto sembra giunta alla fase terminale del proprio declino. La Biennale di Venezia cerca faticosamente di mettere a punto una forma credibile di direzione artistica. Sul ruolo e sul destino del Festival di Santarcangelo, da sempre punto di riferimento della ricerca italiana, si discute con passione (basta vedere il dibattito sul «manifesto», di cui «ateatro» rende ampiamente conto: nel forum, nel 56 e in questo 57).
La nostra cultura teatrale (e forse non solo) sembra vivere una sorta di schizofrenia. Da un lato una serie di esperienza di notevole impegno e peso culturale, che hanno a volte respiro internazionale, ma in genere marginalizzate dal sistema teatrale (ma senza la forza di costruire un sistema o un circuito alternativo). Dall’altro l’universo dei cascami della televisione, che pare colonizzare i diversi ambiti della cultura, dell’arte, della comunicazione. Il sistema teatrale e culturale, le istituzioni che avrebbero dovuto fare da cerniera tra questi due universi, pare aver rinunciato al proprio ruolo, cercando semplicemente di sopravvivere salvando orticelli sempre più miseri.
Qualche anno fa Leo De Berardinis aveva lanciato un manifesto per un «teatro popolare di ricerca». Ma il popolo non c’è più, cancellato dalla massa degli individui consumatori. Ci sono poi delle élite (non per censo, quanto per scelta, per affinità) che continuano a produrre (e cercare) cultura. Mettere in comunicazione questi due universi diventa ogni giorno più difficile. E’ molto più facile incanaglirsi seguendo l’audience oppure trovare identità e forza nella marginalità, rinchiudersi nel ghetto dei puri & duri. E tuttavia ci sono esempi di artisti che paiono aprire nuove strade, artisti in grado di misurarsi con queste due dimensioni senza perdere la loro identità.
In ogni caso non è solo un problema di crisi di identità dei festival. La situazione del teatro italiano - e in particolare quella del nuovo teatro - è molto difficile. Le risorse pubbliche stanno progressivamente diminuendo, e questo implica sia una sempre più complessa e difficile attività di ricerca di sostegno e di mediazioni presso gli enti locali (che spesso hanno un’idea assai diversa di politica culturale), e dall’altro impone il ricorso a fonti di finanziamento private che inevitabilmente finiscono per far sentire il loro peso anche sulle scelte artistiche. Così molte realtà semplicemente chiudono, e altre rischiano di cambiare la loro natura. In generale, le sempre più rare «isole felici» rischiano l’estinzione.
Gli stessi artefici dei festival italiani sono evidentemente consapevoli di questo intrico di problemi. Alcuni di loro hanno provato a creare un primo coordinamento, ma finora senza risultati apprezzabili.
Forse è il caso di aprire una riflessione su questi temi. ateatro ha chiesto ad alcuni operatori di contribuire alla discussione (speriamo di ospitare qualche intervento a partire dal prossimo numero), ma il dibattito è aperto agli interventi di tutti: lo spazio del forum NTVI è a disposizione.
Nel frattempo, in questo ateatro 57 offriamo alcuni spunti: oltre agli interventi di Capitta e Manzella sul «manifesto», la cronaca dal Mittelfest di Alessandro Romano e il diario di Noemi Quarantelli, che ha seguito come stagista tre festival tre (»ci vuole un fisico bestiale»...).
Ma in ateatro 57 non si parla solo di festival: ci trovate l’introduzione del libro dedicato a César Brie e al suo Teatro del los Andes, la recensione di Clara Gebbia alla seconda puntata del lavoro che Giorgio Barberio Corsetti sta dedicando alle Metamorfosi di Ovidio, il ritorno della Trilogie del dragons di Robert Lepage, una mail di Oliviero Ponte di Pino e la risposta di Andrea Balzola sulle Storie mandaliche di Giacomo Verde e del medesimo Andrea Balzola (ma intanto x capire un po' di cosa si parla guardatevi le animazioni flash della Storia del Mandorlo con il super-sound del mitico Lupone - basta cliccare & avere caricato flash6 o superiori). E ancora, molte molte news...
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