ateatro 52.61
Per un teatro politico?
dal "Patalogo 19"
di Oliviero Ponte di Pino
 

Pubblicato originariamente sul "Patalogo 19", 1996.

"Le arti che non realizzano alcuna ‘opera’ hanno grande affinità con la politica. Gli artisti che le praticano - danzatori, attori, musicisti e simili - hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro virtuosismo, come gli uomini che agiscono hanno bisogno di altri alla cui presenza comparire: gli uni e gli altri, per ‘lavorare’, hanno bisogno di uno spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro ‘esecuzione’ dipende dalla presenza altrui. Tale spazio destinato alle apparizioni degli uomini non è affatto un attributo fisso e scontato di qualsiasi comunità. La polis greca fu appunto quella ‘forma di governo’ che forniva agli uomini uno spazio per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare la propria comparsa".
Hannah Arendt, Tra passato e futuro

"L’arte e la politica non funzionano come due ingranaggi sincronizzati; un’idea non può essere trasposta semplicemente in un’immagine, a meno di ottenere un quadro storto o un’esplosione dell’idea. Io sarei piuttosto per l’esplosione".
Heiner Müller, 1983

"Per la politica ‘passare’ da Costanzo
è importantissimo, se Costanzo
passasse alla politica subirebbe
una diminutio".
Enrico Mentana, 1996

Se esiste una cosa che le varie autonomie dell’estetico ed opere aperte, elogi del disimpegno e cadute di muri, fini della storia e morti delle ideologie, videopoli e sondaggiomanie sembravano aver cancellato per sempre, è proprio il teatro politico. Che senso può avere quando ormai, nell’era della telecrazia, è stata decretata l’obsolescenza della politica?

La questione del teatro politico, oltretutto, pareva risolta già in precedenza. Il problema, si argomentava, non è quello dei contenuti. Come diceva Godard, non si tratta di fare film politici (o spettacoli politici o libri politici), ma di farli "politicamente": il punto è l’elaborazione dei materiali, la forma, poiché la qualità politica di uno spettacolo non dipende tanto dai contenuti, o dalle etichette che esibisce, quanto dall’uso del linguaggio e dal rapporto di comunicazione con il pubblico. Bisogna inoltre tener conto del paradosso del "politically correct", con il suo paternalismo apparentemente bonario. In teoria, il "politically correct" avrebbe dovuto sancire il trionfo delle preoccupazioni "politiche" in qualsiasi discorso pubblico. Tuttavia, nascondendo i conflitti dietro la griglia degli eufemismi, degli interdetti e dei divieti linguistici, innesca un meccanismo di autocensura che rischia di cancellare la realtà dello scontro politico. Di conseguenza, fermo restando che di qualsiasi testo e spettacolo si può dare una lettura politica, un teatro esplicitamente "politico" pareva confinato ad un’età adolescenziale dell’evoluzione estetica, quando ancora era possibile confondere l’arte con la propaganda, subordinare l’estetica all’ideologia.

Eppure, malgrado tutto questo, e contro ogni logica e previsione, di recente in Italia sono state numerose le iniziative che focalizzano esplicitamente l’attenzione e le emozioni dello spettatore su tematiche politiche e civili. Ancora più significativo, il fatto che questa tendenza sia avvertibile soprattutto tra i più giovani, sia nelle scelte di molti gruppi di recente formazione, sia nei tentativi di scrittura drammaturgica presentati ai vari premi.

Questo ritorno all’impegno ha assunto forme diverse, esplicite ed impensabili solo qualche anno fa: passando dal recupero del dimenticato Brecht agli spettacoli pro-Sarajevo, dal monologo sulla pena di morte al lavoro con carcerati o portatori di handicap o malati di Aids, dalla riflessione critica in forma di spettacolo su alcune pagine di storia recente (dalle guerre mondiali alla Resistenza, dall’Olocausto al Vajont, fino alla cupa stagione del terrorismo, rivisitata magari con la collaborazione dei protagonisti) ai laboratori nei centri sociali, dalle compagnie multietniche alle ballate per le vittime della mafia, senza dimenticare la satira dei "comici di sinistra".

In ogni caso se oggi si pratica un teatro politico, non ha un unico modello, non segue un solo schema. Risponde presumibilmente a necessità variegate, tanto da parte di chi lo fa quanto da parte del suo pubblico. L’unico elemento comune è probabilmente l’esigenza di usare il teatro per trasmettere un messaggio che è (anche) politico. Ovvero di compiere un gesto politico che assume una forma teatrale.

Questo revival tradisce forse la nostalgia per un’efficacia che il teatro (e la politica) sembra aver perduto, e che solo alcuni "profeti", considerati con sufficienza dai più, come se fossero solo sopravvivenze del passato, come Dario Fo, o Judith Malina e il suo Living Theatre, hanno disperatamente cercato di tenere viva. O forse è l’indizio di un’esigenza più profonda, e segna ancora una volta la necessità del teatro di misurarsi con la propria storia, e ritrovare continuamente le proprie origini. Andando però alla ricerca di un impegno politico e civile che rifiuta l’ideologia, per muoversi in una zona che è insieme "prima" e "oltre" la politica, così come viene tradizionalmente intesa.

Brecht

Parlare di teatro politico significa inevitabilmente rievocare l’autore-simbolo del genere, il vecchio e tanto bistrattato B.B. A utilizzarlo direttamente come arma para-elettorale ci aveva provato un paio di stagioni fa il Teatro di Genova, con una messinscena della Resistibile ascesa di Arturo Ui: il protagonista Eros Pagni alludeva, senza ombra di dubbio, al nemico numero uno del momento, il Cavalier Silvio Berlusconi. Nelle parole del regista Marco Sciaccaluga, la prima delle "emozioni" che l’ha spinto a mettere in scena il testo è stato proprio "l’enorme, quasi imbarazzante, rimbalzare di situazioni, battute, temi e trame che rimandano, non solo metaforicamente, all’attuale grande travaglio della società italiana: la consonanza tra i poteri finanziario, mafioso e politico nel loro perverso potere di dominio sul mondo". Perché "in Arturo Ui sono sommati il grande capomafia, il politico che ha fatto del cinismo finanziario la sua arma più importante, quello che ha accettato di scendere a patti con la malavita e da questa poi è stato ricattato. C’è anche il grande comunicatore moderno, che sa bene cosa sia la propaganda. Arturo Ui è la maschera che li contiene tutti. Guai però a indicarne con precisione una sola faccia" (dal programma di sala dello spettacolo).

E’ fuor di dubbio che nel testo brechtiano non manchino possibili agganci all’Italia della Seconda Repubblica. Ma, aldilà della buona volontà degli artefici dello spettacolo (e aldilà delle forzature nel parallelismo Weimar 1933-Italia 1993), nell’era delle comunicazioni di massa il teatro appare un veicolo di propaganda poco efficace: troppo elitario, troppo "colto" e intellettualistico per poter competere con la forza d’urto della televisione o con la facile presa di un buon numero di cabaret.

Quello di Genova non è stato però l’unico, né il più ambizioso, tentativo italiano di recupero di Brecht. All’autore è tornato anche Giorgio Strehler, che gli ha dedicato con un apposito Festival l'intera stagione del suo teatro. Una scelta consapevolmente polemica nell’era di Formentini sindaco di Milano e Berlusconi presidente del consiglio, con un programma che voleva forse ritrovare - all’interno del ciclo di riprese dei suoi gloriosi spettacoli che conduce da anni - l’originaria forza dirompente, l’ormai mitica epoca dell’Opera da tre soldi e del Galileo, con le relative polemiche. E magari recuperare la centralità del teatro all’interno del dibattito culturale.

Ma nelle intenzioni programmatiche a interessare non è tanto il Brecht "ideologico", percepito forse come datato e usurato. Nel presentare il remake della sua Anima buona di Sezuan, clou della stagione brechtiana del Piccolo, Strehler ne mette infatti in secondo piano la portata direttamente politica, privilegiando in primo luogo la poesia: "L’attualità di Brecht sta nella ricchezza dei suoi contenuti e nella grandezza poetica. In questo testo si discute di cose eterne, della lotta fra il bene e il male: la nostra condanna è di dover essere cattivi per poter fare il bene" (dal programma di sala dell'Anima buona di Sezuan).In secondo luogo, Strehler sottolinea la dimensione etica: "La risposta di Brecht, che ci arriva in modo poetico, più che politica è etica. Non c’è solo il bianco o solo il nero, essere buoni o essere cattivi. Brecht ci dice che per difenderci è inutile chiedere consiglio agli dei, a chi ci governa, che dobbiamo alzarci noi, abitanti di questo piccolo universo che non fa che girare su se stesso. Quel grido di aiuto che Shen Te rivolgerà nel finale agli spettatori, stavolta, sarà più vero e meno teatrale. Sarà una chiamata di responsabilità a noi tutti" (Giorgio Strehler, da un’intervista di Anna Bandettini, "la Repubblica", 25 marzo 1996).

Malgrado le intenzioni, il ritorno a Brecht del Piccolo Teatro non è riuscito ad andare oltre il successo di stima. Anche perché l’evento che avrebbe dovuto chiudere questo percorso e misurare l’attualità del drammaturgo in un cortocircuito con la realtà degli anni Novanta, l’annunciatissima Madre Coraggio di Sarajevo (un’opera con cui "esorcizzare la tragica capacità dell’uomo di distruggersi") non è andato in scena nei tempi previsti. Lo spettacolo - che avrebbe dovuto finalmente inaugurare l’Incompiuta Nuova Sede - resta anch’esso un’Incompiuta: infatti nel nuovo teatro mancano le poltroncine, e Madre Coraggio può essere vista solo in forma di lettura, in una sera d’estate, in via d’Amelio a Palermo e - a Milano - al Teatro Lirico.

Per quanto ambizioso, l’isolato (per l’Italia) esperimento strehleriano non può ovviamente dirimere l’annoso dibattito su Brecht. E’ davvero superato perché i suoi schemi ideologici, il suo marxismo più o meno ortodosso (un tema su cui si è discusso per decenni con ferocia), sono stati smentiti dalla storia? Oppure ha già raggiunto la "sublime inefficacia dei classici"? O forse è ancora "efficace", ma le grandi istituzioni teatrali non possono più, per la loro stessa natura, farsi veicolo di un’autentica provocazione? Magari aveva ragione Eric Bentley quando, parlando dell’influenza di Brecht sul pubblico, spiegava: "Dante, è presumibile, ha cambiato molte meno persone di Tommaso d’Aquino: se qualcuno può convertirti al cristianesimo, è più probabile che sia un sacerdote o un filosofo piuttosto che un poeta. Se pensi che a convertirti sia stato un poeta, forse ti stai ingannando: probabilmente il poeta è arrivato dopo che la reale persuasione - se ce ne fosse stato bisogno - era già stata fatta. Dunque, se qualcuno può diventare marxista, è più probabile che venga convinto da Marx stesso, e non dai poeti marxisti. Se mi chiedete se Brecht abbia avuto una qualche influenza sul mondo, dal punto di vista politico, risponderei: molto poca, e non sempre nella direzione che auspicava. L’influenza delle parole, dopo tutto, è spesso, in qualsiasi contesto, abbastanza diversa dalle intenzioni" (Re-interpreting Brecht, p. 193).

Sarà dunque proprio la sua inefficacia di propagandista a salvarlo dall’oblio? "Brecht riteneva che fossero gli errori a conferire immortalità alle opere d’arte. Finché contengono errori, finché non sono perfette - diceva - sono utilizzabili, sfruttabili" (Heiner Müller, Tutti gli errori, p. 30).

Certo, in Germania, dove solo in questa stagione si sono visti decine di allestimenti brechtiani (a cominciare dall’attualissimo Arturo Ui, ultima regia di Heiner Müller, protagonista lo straordinario Martin Wuttke), la situazione si pone in termini diversi. E se in Italia il ritorno a Brecht non ha ancora trovato la sua chiave, è probabilmente solo questione di tempo.

Proprio Müller, del resto, ha affrontato nella maniera più diretta l’eredità brechtiana sia dal punto di vista ideologico che da quello estetico. O meglio, ha affrontato l’ideologia brechtiana (così come quella della Ddr) inserendola in una dimensione tanto esistenziale quanto fisica, addirittura corporea. Fino a portare l’idea stessa di teatro politico a conclusioni paradossali. Il suo obiettivo non è certo quello di delineare una società diversa, più equa e più giusta, o di suggerire linee di condotta, quanto quello di destabilizzare la realtà, di renderla insopportabile.

"Mi trovo sempre leggermente in imbarazzo quando devo parlare della mia posizione ideologica. Conosco solo un modo per rapportarmi alla realtà: da artista. Per il resto vivo una condizione piuttosto infelice. Per me la funzione dell’arte è di rendere impossibile la realtà: la realtà in cui vivo, quella che conosco. (...) La prima esigenza è il bisogno molto elementare di distruggere illusioni; sì, ci provo gusto a distruggere illusioni: forse perché le mie sono andate in frantumi molto presto e ora voglio provare l’effetto che fa sugli altri. Mi stupisco sempre quando sento il pubblico, la gente che ha letto o visto qualcosa di mio, dire che li deprimo. Rimango sempre a bocca aperta. Mi capita spessissimo di sentir dire: ‘A scrivere cose del genere, dovresti impiccarti’... Non li capirò mai. Come fa a deprimermi l’oggetto di una mia descrizione? Niente che io sia riuscito a descrivere è in grado di deprimermi. Mi sembra che a conversazioni del genere manchi sempre il riconoscimento di quanto sia politico il lavoro dell’artista, anche a prescindere dalle prese di posizione ideologiche. Descrivendo qualcosa produco o distruggo ideologia, e così facendo produco forse consapevolezza. La descrizione di un avvenimento è attività politica di per sé" ("Oltre il fascismo: riscoprire la biografia", 1977, in Tutti gli errori, p. 43).


Sarajevo

Allestire come progettava Strehler una Madre Coraggio a Sarajevo significa mettere il teatro a confronto con una delle più terribili tragedie di questi anni. Ma ambientare un classico nella città bosniaca non è l’unica possibilità di misurarsi con la tragedia iugoslava, e in generale con la guerra e i massacri del mondo contemporaneo. Ci sono naturalmente quelli che a Sarajevo, durante l’assedio, hanno continuato a far vivere i palcoscenici, in condizioni proibitive, perché avvertivano la necessità del teatro; per lo stesso motivo, c’è chi (come Susan Sontag) è arrivato laggiù dal "mondo senza guerra" proprio per lavorare su quei palcoscenici disastrati(cfr. il Patalogo 17, "La resistenza intellettuale a Sarajevo"). E sono i numerosi testi (anche di autori italiani) ispirati a quelle vicende. Ma in reazione alla catastrofe balcanica si sono sviluppate anche altre esperienze, forse meno prevedibili e convenzionali.

Ai confini estremi del teatro si muove per esempio Salvino Raco, che nei mille e più giorni dell’assedio ha organizzato in varie città europee, con gruppi di attori e amici, una serie di performance di elementare spettacolarità (semplici oratori, supportati da una colonna sonora di esplosioni, spari e crolli) dedicate alla città bosniaca e ai suoi abitanti. Ispirati alla necessità di "rompere il silenzio", sono eventi al confine tra lo spettacolo e il rito, la manifestazione politica e la pedagogia, l’agit prop e la performance, che lasciano lo spettatore sospeso tra la commozione e il disagio. Spiega lo stesso Raco:

"I miei collaboratori sono attori, vecchi amici, che sentivano il bisogno di lavorare sul tema della guerra. Ci interessa la figura dell’attore sociale, quello che dice, che fa, che interviene sui temi sociali, politici. I testi - che sono più che altro delle didascalie - nascono da testimonianze reali, da lettere che ho raccolto dai profughi presso il comitato milanese per la Bosnia a Milano".
Il lavoro nasce in qualche modo da una richiesta dei profughi bosniaci?
"Non proprio, anche se chiaramente volevano che qualcosa si dicesse. Probabilmente non nei termini in cui l’abbiamo fatto noi. Per esempio, alcuni profughi non se la sentivano di provare ancora una volta le sensazioni dell’assedio e sono scappati via".
Non senti il rischio di spettacolarizzare un tema tragico come quello della guerra?
"Non so se ho risolto il problema, spero di sì, a partire dalla scelta di un luogo come la casa diroccata di via Maggi, a Milano, e dal fatto di usare gli attori come semplici portavoce. Non credo si possa parlare di spettacolarizzazione. Infatti non lo chiamo ‘spettacolo’, ma ‘evento con drammaturgia animica’, che cerca di toccare gli aspetti più intimi dell’esistenza".
Non sarebbe più utile l’azione politica diretta - che so, una manifestazione di piazza?
"Ce ne sono già abbastanza. Molti spettatori mi hanno detto che non vogliono più manifestazioni o chiacchiere, ma una sensibilizzazione attraverso forme artistiche. Poi, secondo me, le posizioni politiche sono sempre troppo rigide. Su questo tema a Parigi ho avuto uno scontro con una personalità influente, che mi ha detto che non mi avrebbe sostenuto, perché il problema iugoslavo è solo politico e tutto il resto non gli interessa".
Il processo di sensibilizzazione non può passare attraverso i mass media?
"Non credo che servano a risvegliare le coscienze sopite".
In questi eventi, per gli spettatori ma credo anche per gli attori, è molto forte una dimensione rituale, e quasi religiosa, come se si trattasse di una cerimonia laica, della celebrazione di una memoria e di una sofferenza che nasce, anche se in maniera frammentaria, dalle rovine: le rovine di una città bombardata, di un palazzo diroccato, ma anche le rovine della storia.
"C’è una dimensione religiosa. Non era nelle mie intenzioni, ma è accaduto. Forse perché le 55 vittime che vengono commemorate hanno voluto questo. Ma questo è un modo per eludere la domanda. Probabilmente la comunione tra attori e spettatori ha fatto sì che così accadesse. In teatro, la comunione delle cose che accadono a attori e pubblico può portare a questo. E contribuisce anche la scansione dell’evento in quattro momenti: attesa-riflessione, denuncia, evocazione e commemorazione".
All’estremo opposto, nell’immediatezza assoluta del comico, si pone invece la curiosa esperienza di Clown senza frontiere, l’organizzazione non governativa fondata da Tortell Poltrona nel 1993. Nel febbraio di quell’anno il clown catalano si era esibito nel campo profughi di Veli Joze, in Istria: da quell’esperienza è nata Pallassos Sense Fronteres (Clowns Without Borders), di cui fanno parte clown, giocolieri, acrobati, burattinai e musicisti di tutto il mondo, accomunati dall’obiettivo di alleviare il disagio di chi vive nei campi, soprattutto bambini e ragazzi. Con i loro spettacoli, vogliono "migliorare la situazione psichica e, ove possibile, sanitaria, alimentare e pedagogica, dei rifugiati". Obiettivo principale di Pallassos Sense Fronteres è dunque l’invio di clown e artisti nei campi, "per contribuire a migliorare le condizioni di vita soprattutto facendo ridere la gente". Il presupposto è che le tragiche esperienze e le disastrose condizioni dei profughi finiscano per cancellare anche una fondamentale capacità umana: quella di ridere. Gli adulti devono ritrovare il coraggio di ridere. I bambini devono a volte addirittura "imparare a ridere". Per loro, Poltrona e i suoi amici organizzano spettacoli, incontri e corsi, oltre alla distribuzione di materiale didattico.

In tre anni di attività Pallassos Sense Fronteres  ha organizzato una cinquantina di spedizioni non solo nei campi dell’ex-Iugoslavia ma anche nell’ex-Sahara Spagnolo, tra i palestinesi di Gaza, tra i meniñ os de rua brasiliani, in Guatemala e a Cuba (purtroppo nel "secolo dei profughi" c’è solo l’imbarazzo della scelta).

Gli attori viaggiano a loro spese verso queste destinazioni pericolose, e cercano di portare un attimo di gioia spensierata (e corroborante) alle vittime dei bombardamenti, dei cecchini, delle violenze, degli stupri... Quando arrivano all’improvviso, in qualche desolato campo profughi, vengono accolti con un attimo di esitazione e diffidenza. Ma ben presto si raccoglie una folla che ride e sorride, con tanti bambini in prima fila. Per loro il teatro è un’esperienza forte, forse necessaria. Dunque Poltrona e i suoi amici organizzano spettacoli, incontri e corsi, per insegnare a ridere e sognare di nuovo a chi ha dimenticato il segreto. E gli attori? Anche per loro, l’incontro ha qualcosa di straordinario. Come spiega un "Clown senza frontiere", l’americano Moshe Cohen, "recitare per spettatori che non hanno riso da così tanto tempo, è una sensazione indescrivibile".

Il Gran Teatro del Mondo

Di fronte all’enormità delle tragedie della storia contemporanea, di fronte all’infinito dolore che provocano e alla loro altrettanto grande insensatezza, Raco e Tortona rappresentano due tappe di un percorso dove lo spettacolo pare solo una tappa. Su un versante, corre una riflessione personale che tende ad assumere venature religiose o metafisiche. Dall’altro, lo sbocco è l’azione pratica del singolo a favore del singolo, nell’immediatezza del bisogno, volta al ristabilimento della normalità (dove la normalità sono anche il teatro e la risata). Entrambe le strade finiscono alla lunga per eludere il problema dell’impegno politico, in uno scenario dove l’azione da parte dei "cittadini del mondo" appare velleitaria. Come se i nostri strumenti di interpretazione della realtà fossero diventati inutili, lasciando al singolo un senso di sconsolata, infinita impotenza, al quale è possibile reagire solo con l’attivismo volontaristico o con la contemplazione introspettiva.
 

"L’uomo moderno poco sa delle leggi che governano la sua vita. Come individuo sociale reagisce per lo più sentimentalmente; ma questa reazione sentimentale è confusa, indeterminata, apparente. Le fonti dei suoi sentimenti e delle sue passioni, così come quelle delle sue cognizioni, sono ostruite e come intorbidate. L’uomo odierno, vivendo in un mondo in rapida trasformazione e trasformandosi rapidamente egli stesso, non ha di questo mondo la benché minima idea in base alla quale gli sia possibile agire con prospettive di successo; le sue concezioni della convivenza umana sono distorte, inesatte, contraddittorie, potremmo dire impraticabili; cioè, con una simile visione del mondo - del mondo umano - davanti agli occhi, l’uomo questo mondo non può dominarlo" (Bertolt Brecht, Scritti teatrali, vol. I, Einaudi, Torino, 1975).


Proprio intorno a questa sensazione è costruito La febbre, il monologo (presentato in Italia un paio d’anni fa da Giuseppe Cederna) in cui l’americano Wallace Shawn affronta di petto uno dei due problemi fondamentali del nostro tempo, il rapporto Nord-Sud (l’altro, strettamente collegato, è quello ambientale). Shawn non lo fa in termini generali, o generici, o attraverso un qualche filtro ideologico, ma mettendo a confronto la coscienza e la "falsa coscienza" di un individuo del "Primo Mondo". Un privilegiato, dunque, ma in ogni caso non un paternalista, né un neo-colonialista, né tantomeno un razzista; al contrario: chi parla nella Febbre è un progressista ben intenzionato, tendenzialmente liberal e politicamente corretto, tanto "assetato di giustizia" da confondere le memorie di un’infanzia felice con la possibilità di realizzare l’utopia. In termini più banali, è chiunque si interroghi sulle ingiustizie di questo mondo e avverta la necessità di cancellarle.

A prima vista, un testo di questo genere può apparire "fuori tempo", dopo che i grandi schemi ideologici di redenzione, quelli che promettevano il riscatto ai poveri attraverso il mercato, il progresso tecnologico o il comunismo, si sono rivelati inefficaci: non sono riusciti a diminuire il divario tra gli eletti e i dannati, tra i ricchi e i poveri, tra i pochi e i molti. E le azioni individuali, più o meno eroiche, più o meno coscienti, se aiutano ad acquietare il disagio, appaiono sproporzionate alla dimensione dell’ingiustizia. Ma è proprio qui, nel vuoto e nell’inefficacia di queste due posizioni, nella semplicità (o nell’ingenuità) di chi rifiuta la rimozione e decide di misurarsi con queste banalità fondamentali del vivere contemporaneo, che esplode la forza del testo di Shawn, la sua provocazione morale.

Come tutti noi, il sensibile e colto protagonista della Febbre è massimamente colpevole e massimamente innocente. Malgrado le sue buone intenzioni, per colpa delle sue buone intenzioni, anche la violenza di cui non è diretto responsabile o testimone finisce per inquinarlo.

In questa ambigua condizione, Shawn (o meglio il suo alter ego) inizia una confessione visionaria e politica. La sua voce, ora tragica ora patetica, si muove su un fronte che è insieme pubblico e privato, individuale e collettivo, intimo e planetario. Perduto tra incubo e realtà in una città del Sud del Mondo, circondato da violenze esplicite e implicite, assalito dai suoi ricordi di privilegiato, sempre tentato di tracciare il bilancio di una comoda esistenza, orgoglioso e vergognoso della propria cultura, del proprio buon gusto, cerca di sollevare il velo dell’indifferenza morale e del cinismo, degli alibi offerti dai grandi schemi ideologici (l’illusione che sarà il motore della storia ad appianare le differenze, a renderci finalmente uguali). Oltrepassa quello stadio dell’anestesia che è la buona volontà progressista, ne smaschera le ambiguità e le illusioni. La svuota, anche se non può superarla. Cerca di assumersi le proprie responsabilità e lascia affiorare l’angoscia per una realtà insostenibile, eticamente, psichicamente e fisicamente. Cerca di capire: cita Marx ("il feticismo della merce"), rilegge magari Fanon e Camillo Torres, riflette, senza nominarli, su Cuba e Nicaragua. Non trova soluzione, ma suggerisce una diversa consapevolezza.

Provare a costruire una diversa consapevolezza: forse il teatro non può andare molto aldilà di questo (e dunque, alla lunga, ridursi dalla dimensione politica a quella psicologica). Forse il teatro e la politica (almeno così come l’abbiamo intesa fino a oggi) non sono più in grado di affrontare problemi che hanno scala planetaria, che superano di molti ordini di grandezza le possibilità d’intervento individuale. E allora quelle affrontate da Shawn sono tematiche troppo generiche perché possano dar vita a un autentico conflitto drammatico: naturalmente siamo tutti contro gli stupri di massa e la pulizia etnica, tutti noi - a cominciare dalle star del cinema e della televisione, con i loro sensi di colpa e l’attenzione all’immagine - siamo contro l’Aids, la sclerosi multipla e le altre malattie alla moda, tutti noi detestiamo le violenze contro i bambini e lo sterminio di foche, balene e rinoceronti, nessuno di noi desidera che le moltitudini del Terzo Mondo muoiano di fame nelle bidonvilles, nessuna organizzazione lotta perché il pianeta si trasformi in una pattumiera.

Ma allora, se lo scenario globale è troppo grande, può essere possibile ritrovare l’efficacia politica del teatro restringendo l’obiettivo e focalizzando problematiche più specifiche e controverse? Forse tornare all’orizzonte della polis, dove il teatro occidentale ha le sue origini, e dove è nata e si è definita anche la politica, può offrire una soluzione.

Teatro civile

Vajont di Marco Paolini e Mi uccideranno in maggio di Luciano Nattino sono due esempi di teatro "militante" che affrontano temi di indiscutibile impegno civile. Paolini attraverso la tragedia di Longarone racconta la distruzione di una civiltà contadina, lo scempio ambientale e l’arroganza dei potentati economico-politici nazionali. Nattino si cala nei panni di Paul Rougeau, condannato alla pena capitale in Texas, che ha raccontato attraverso le sue lettere la vita e l’insopportabile attesa dell’esecuzione nel braccio della morte. Questi monologhi necessitano di un supporto tecnico minimo (una lavagna per Paolini, lo scheletro di una cella e un sistema video a circuito chiuso per Nattino) e quindi si prestano ad essere presentati nelle situazioni più varie ed a costi contenuti; inoltre "il dramma didascalico assume un suo rilievo di caso particolare sostanzialmente perché, attraverso la peculiare povertà della messa in scena, semplifica e raccomanda lo scambio tra il pubblico e gli attori e tra gli attori e il pubblico" (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, p. 132).

Realizzati da attori professionisti (che quindi non si limitano ad utilizzare tecniche acquisite altrove, ma le usano per ampliare ed approfondire la loro gamma espressiva), questi lavori vengono presentati in genere fuori dai teatri e dai normali circuiti distributivi, in collegamento con realtà in vario modo "militanti": le repliche vengono richieste da organizzazioni che operano nella società civile (ambientaliste ed ecologiste per Paolini, in particolare là dove sono in corso battaglie in difesa del territorio e del paesaggio; vicine invece ad Amnesty International per il lavoro contro la pena di morte di Nattino). Nascono da un’esigenza "forte" dei loro autori-interpreti, per certi aspetti più etica che direttamente politica, e si riallacciano forse all’epoca della loro formazione artistica e civile, le lotte degli anni Settanta.

"Questo lavoro teatrale nasce dal bisogno di fare qualcosa per fermare la barbarie della pena di morte nel mondo. Perché è così difficile essere contro. Perché ci sono mani pronte, anche da noi. E’ vero che c’è Amnesty e c’è un comitato ‘Paul Rougeau’ per la tutela a distanza dei diritti dei detenuti nei bracci della morte. Ma non basta. Cosa possiamo fare di più, tutti?" (Luciano Nattino, dal programma di sala).

"Il racconto si è arricchito di testimonianze raccolte nel lungo elenco di luoghi che mi hanno ospitato: aule, municipi, biblioteche, centri sociali, chiese, case, piazze ed alla fine anche teatri. Ma era lungo perché non è mai stato pensato come uno spettacolo teatrale. E’ lungo per forza! ...perché alla fine ci sono quelli che si fermano perché vogliono sapere il seguito... spesso restano tutti e si parla del processo, di oggi, di cose che ci toccano da vicino, e si fa presto a tirar tardi. In quei momenti mi sento spesso ‘esposto’, investito dal ruolo dell’intellettuale, e non mi sento per niente a mio agio. Nessun artista di mia conoscenza vorrebbe oggi essere investito di un tale onore, nessun artista studia da intellettuale oggi, c’è penuria. Io in questi momenti resto lì perché mi vergogno di non aver saputo e poi di aver saputo e di aver dimenticato questa Strage di Stato che come uomo non posso ancora tollerare in silenzio. (...) Un paese che dimentica se stesso è un paese triste; spero con tutta l’anima che ascoltare questa storia serva a non dimenticare che è anche la nostra; che questo popolo ci appartiene e non vuole essere dimenticato. Che il teatro serva anche a questo, normalmente, non una tantum. Che questo mestiere antico e bellissimo che faccio non sia del tutto inutile agli umani" (Marco Paolini, dal programma di sala).

E’ probabile che spettacoli di questo genere finiscano spesso per coinvolgere e "commuovere" un pubblico già sensibilizzato e conquistato alla causa (e potrebbero rischiare alla lunga di assumere una valenza consolatoria). Ma non vogliono essere occasioni di semplice denuncia. Ambiscono ad essere prima di tutto momenti di conoscenza e comunicazione, una funzione che evidentemente gli altri media non riescono a svolgere in maniera altrettanto efficace: o perché evitano certi temi, oppure perché si limitano a fornire un’informazione superficiale, raffreddata da giornalisti ed esperti, filtrata dal supporto tecnico, senza poter restituire la sostanza della reale esperienza umana. Nel contempo, confrontandosi con una realtà forse troppo grande per poter essere ridotta in uno spettacolo, esperienze di questo tipo tendono a sfuggire alla gabbia dello specifico teatrale.

Tendono a slittare da un lato verso una forma saggistica, riconducendo l’attore a un ruolo di didatta: "Spesso ci siamo detti che questo era un lavoro da giornalisti, da giudici, non da attori, ma perché su queste cose non fanno un’altra bella inchiesta?", si sfoga Marco Paolini nel programma di sala. Oppure aspirano ad un iperrealismo documentaristico, nel quale a parlare dovrebbero essere unicamente "i fatti" - mentre lo spettacolo non può essere che un pallido (e in definitiva falso) surrogato dell’esperienza e della sofferenza reali.

La storia

A raccontare come Vajont un frammento degli ultimi decenni di storia (ma alla stessa pagina di storia è dedicato anche il testo di Maurizio Donadoni Memoria di classe) sono molti altri spettacoli ed esperienze di queste stagioni. (Anzi, spesso è l’intera esperienza del secolo che vorrebbe essere condensata in uno spettacolo, in forma più o meno metaforica: dal Novecento e Mille realizzato una decina d’anni fa da Leo De Berardinis si è approdati, nelle ultime stagioni, al Novecento di Alessandro Baricco, al Signor Novecento di Vincenzo Cerami e Nicola Piovani per Lello Arena, al Millenovecentonovantadieci secondo Corrado Guzzanti alla Ballata di fine millennio che Moni Ovadia ha presentato all’interno del Brecht Festival del Piccolo...)

E’ come se ci fosse un vuoto di memoria, un salto nella trasmissione di esperienze tra le successive generazioni, un vuoto che la scuola e i mezzi d’informazione non possono (o non vogliono) colmare. Per chi è cresciuto nella dimensione (vera o fittizia) della "fine della storia", per chi non li ha vissuti in prima persona o ne è stato testimone, le due guerre mondiali, i campi di concentramento e l’Olocausto, la Resistenza, ma anche gli anni del terrorismo, sono stati oggetto per lo più di retorica e di rimozione, al massimo di strumentale polemica ideologica.

Il teatro allora può offrire l’occasione per una riflessione storica, che al tempo stesso permetta di accostarsi - indipendentemente da ogni filtro ideologico - all’esperienza dei padri e dei nonni. In questa chiave è forse da interpretare (aldilà del fascino da maledetto attribuito al personaggio e alle più facili mitologizzazioni) l’interesse per l’opera di Pier Paolo Pasolini, il cui nome viene evocato con costante frequenza: come se venisse ritenuto l’ultimo Maestro in grado di confrontarsi con i movimenti più profondi, a livello antropologico, della società italiana.

Entr’acte: Dalla politica-spettacolo allo spettacolo della politica

Alcuni di quei movimenti "viscerali" li hanno invece colti alcuni dei nostri comici, che hanno fatto della battuta politica (e della battuta sul politico) un’arma di sicuro successo. E in questi tempi convulsi, chi prima e chi poi, hanno praticamente tutti deciso di darsi alla politica: se Berlusconi, che aveva iniziato la carriera suonando il pianoforte sulle navi da crociera, era riuscito in poche settimane a creare un partito che vale il 20% dei voti degli italiani e diventare primo ministro, un vero professionista dello spettacolo avrebbe dovuto fare di meglio, con facilità. Ecco dunque scendere in campo, tra gli altri, Beppe Grillo (30 giugno 1994: "Domani fondo un nuovo partito, il partito del ‘Come va? Bene, grazie’. E alle prossime elezioni mi candido. Scommettiamo che batto tutti?"), Claudio Bisio (8 gennaio 1995: "Quando eravamo a Viterbo, sui muri della città c’erano manifesti del mio spettacolo Tersa Repubblica, dove mi si vede in una immagine bella patinata, vestito di tutto punto, sorriso a trentadue denti, lo sguardo rassicurante. Un po’ in stile seconda Repubblica, insomma. Quando il sindaco, credo democristiano, li ha visti si è allarmato: ‘Bisio? Chi è ’sto Bisio? Sarà mica il candidato di Forza Italia?’, pare abbia chiesto ai suoi collaboratori. ‘Che fa? Comincia già ora la campagna elettorale? E’ sleale!’ "), Roberto Benigni (21 febbraio 1995: "Io vorrei tanto metter su un partito con lei, Biagi. Ora va di moda gli alberi, si prende per simbolo un bel pero. Slogan: fate una pera, e come va a finire va a finire"), eccetera.

E’ difficile dire quanti voti abbia portato all’Ulivo (o portato via al Polo delle Libertà) la forza d’urto della satira di sinistra. Però è certo che nei mesi della campagna elettorale il satirico si è trovato impigliato in una forbice: chiaramente, quanto più il suo avversario è potente e individuabile (e dunque "caricaturabile"), tanto più la sua satira avrà successo presso il pubblico. Dunque la condizione del suo successo artistico e di pubblico è il successo politico dei suoi avversari. Viceversa, il risultato del suo successo politico è la sua estinzione.

Così, dopo la vittoria delle sinistre nelle ultime elezioni, alla precisa domanda degli intervistatori preoccupati del declino del genere, i comici davano come Benigni la risposta di prammatica: "Certo la destra viene meglio perché è naturalmente più dotata per suscitare le risate. E’ come i carabinieri. Perché si fanno tante barzellette sui carabinieri e nessuna sui poliziotti? Mistero. Comunque mi sforzerò anche di sfottere la sinistra. Veltroni-D’Alema: Kennedy contro Molotov. Magari regge" (E l’alluce fu). Il tono è il rimpianto di chi sa benissimo che i tempi eroici ma spassosi di Bettino e i Quaranta Ladroni, di Andreotti gobbo e diabolico, del Miliardario Ridens e della sua gang, sono tramontati per sempre.

Già prima della vittoria delle sinistre alle ultime elezioni, del resto, i più avvertiti avevano già annunciato l’abbandono della satira politica (anche perché avvertivano, probabilmente, la stanchezza del pubblico di fronte all’argomento). Tuttavia la possibilità che il comico, al di là degli stretti confini della satira, possa ancora trasmettere un messaggio politico, non è affatto esclusa. Almeno nella prospettiva di Beppe Grillo, che ha portato in tournée il suo scatenato show teatrale tra gli applausi di folle calcistiche nelle piazze di tutta Italia, prima di un finale di grande effetto pubblicitario: il suo show è stato censurato dalla Rai nel gennaio del ’96 (la logica dice che se esiste la censura, esiste anche un messaggio politico da censurare).

"Posso farmi un complimento? Il problema non sono certo le battute, ma gli argomenti che tratto. Il mio spettacolo fa paura perché è un pezzettino di televisione diversa. E’ di questo che hanno paura: in una televisione fatta tutta di lotterie, quiz e intrattenimento, di giochi e di medium non possono accettare il precedente di un uso intelligente dei media. I guizzi creano più danno che benefici. Di fronte a uno spettacolo come il mio, io agirei esattamente come loro. Perché poi la gente dice: ‘Ma come? C’è una cosa così e non me l’ha detto nessuno?’. Mi immagino la gente che dice: ‘Ma come? C’è un paese dove la gente vive facendosi l'energia da sola? Se la comprano, se la vendono, uno va in vacanza, torna e dal suo apparecchio un computer gli prende l'energia e gliela pagano? E io sono qui a battagliare con l’Enel?’ ".
E’ meglio che il tuo show non vada in onda perché turberebbe il pubblico della televisione?
"La paura di queste persone è che un pezzettino di televisione diversa creerebbe un po’ di turbe nell’ascoltatore medio, perché sono concetti serissimi, però mediati da un comico. E quindi hanno un effetto dirompente".
Quindi secondo te questi contenuti hanno più effetto se vengono veicolati da un comico che da un esperto.
"Le cose che dico le prendo dagli esperti, sono cose che tanta gente ha detto prima di me, su di essere non ho nessun diritto. Ma il loro potere dirompente è la mediazione mia: perché attraverso di me arrivano alle persone normali. Mentre l’esperto rimane lì, si compiace, ha sempre paura di essere giudicato da un altro esperto".
Il ruolo della satira è dunque quello di dare voce a istanze che altrimenti non raggiungono il grande pubblico?
"Non so che cosa significhi satira. Io faccio della politica, attraverso la mia personalità, che è paradossale. Mi esprimo in toni grotteschi, sudo, mi trasformo anche fisicamente. Quando ho finito di lavorare, sembro più un cantante rock".
Nei tuoi ultimi lavori, il rapporto che hai con il pubblico è più vicino al concerto rock che allo spettacolo teatrale o di cabaret...
"Oggi vedo che la vera politica la fanno Brian Eno, Bono degli U2, Sting, un pittore. La fanno tutti tranne i politici, che non hanno capito che non stanno facendo più politica. Stanno facendo delle piccole rubriche della settimana enigmistica, ‘Strano ma vero’, ‘Forse non tutti sanno che...’, ‘Il tenero Giacomo vi rimanda all'ultima pagina’. I politici sono tutti soggetti enigmistici, da cruciverba. La politica si è spostata. Chi fa politica con qualche risultato, ci riesce perché è insospettabile. Chi viene a vedere il mio spettacolo non pensa di venire a vedere un comizio".
Pensa di assistere allo spettacolo...
"...ma sente un comizio. E’ questa la mia macchiavellica".
La perdita della storia

Lo svuotamento della storia non riflette però soltanto il difficile rapporto degli italiani con il loro passato prossimo, ma più in generale la perdita del senso della storia nella società postmoderna. La ricostruzione della storia attraverso il teatro (spesso basata su diari, racconti e testimonianze della "gente comune") promette un’alternativa, per quanto debole e fragile, a questa polverizzazione, spersonalizzazione e de-umanizzazione della storia operata dai mass media. Offre la possibilità di costruire un linguaggio e di raccontare delle storie. Del resto la rivisitazione della storia (tanto in chiave di critica quanto in chiave di ricerca d’identità) è da sempre una delle funzioni del teatro come luogo d’incontro e di autorappresentazione di una collettività. Ma è sintomatico (ed è probabilmente inevitabile, in uno "Stato senza nazione" come il nostro) che la scena ufficiale, e in particolare il teatro pubblico, abbiano preferito evitare di misurarsi su questo terreno, trascurando una delle proprie vocazioni (implicita nel termine "nazional-popolare" che ha segnato l’epoca della nascita degli stabili italiani), e dimostrandosi incapaci di offrirsi come luogo di riflessione sulla situazione e la storia nazionale (salvo eccezioni, come quest’anno il Pasticciaccio di Gadda-Ronconi). E’ altrettanto sintomatico che l’interesse per la materia sia stato appannaggio di esperienze in qualche misura marginali, episodiche, e sia avvertita in particolare dai più giovani.

Leonka

Quella di definire e rappresentare un’identità collettiva non è certo l’unica funzione di quel "teatro civile" di cui "l’Unità", presentando la stagione teatrale, avvertiva il bisogno (Teatro civile ...in paese incivile, 9 ottobre 1995). Una "scena civile" non deve solo costruire e riflettere l’identità della polis e la sua storia: deve anche essere in grado di riflettere e rappresentare i conflitti che la attraversano e la dividono. Uno dei rari segni di ostentato dissenso antropologico, culturale e politico nell’Italia di questi anni è venuto dai Centri Sociali, dove - in una fase di relativa "permeabilità" con la realtà esterna - sono state realizzate diverse esperienze teatrali (e più in generale culturali e artistiche), sia di ospitalità sia laboratoriali, fino ad approdare alla realizzazione di veri e propri spettacoli. Emblematico è il lavoro condotto all’interno di uno dei centri più noti, il milanese Leoncavallo, attraverso due spettacoli "corali": Randagi, realizzato alla fine del ’94, e Viaggiatori, andato in scena nella primavera del ’96 (cui va aggiunta la messinscena della Visita della vecchia signora di Dü rrenmatt realizzata sempre nel ’96 da Roberto Corona).

A volte il flusso dell’esperienza - che in un centro sociale come il Leoncavallo scorre più tumultuosa e turbolenta che altrove - si blocca per un istante. L’esistenza nella sua immediatezza, come manifestazione di energia vitale e reazione agli stimoli esterni, si trova sovrapposta alla propria immagine. E questa sovrapposizione apre l’abisso, che può essere terribile, che esiste tra sé e la propria immagine. In questo movimento di presa di coscienza, energie e pulsioni vengono incanalate e formalizzate per dare una struttura alla propria percezione di sé, e alla percezione che ne hanno gli altri. Seguendo il percorso che va dall’esercizio, con i suoi meccanismi consapevolmente ripetitivi, ad una auto-rappresentazione via via più articolata e complessa, la pratica teatrale è uno dei metodi - forse uno dei principali - di questa ricerca: perché il teatro impone di passare da una messinscena dell’io (attraverso abbigliamento, atteggiamento, linguaggio eccetera) a una rappresentazione del sé e dei conflitti che lo coinvolgono. Proprio nella freschezza quasi laboratoriale, prima che per valutazioni puramente estetiche, sta l’interesse del lavoro condotto al Leoncavallo da Gigi Gherzi (per Randagi in collaborazione registica con Roberto Corona, e nei due casi con il supporto per la drammaturgia con Claudio Tomati).

Randagi ha la forma di una favola corale tipo La collina dei conigli, in cui si fronteggiano due realtà: quella degli abitanti di una città che si vuole felice a tutti i costi, popolata da una borghesia efficientista e consumista; e quella dei randagi del titolo, beffardamente refrattari a questa utopia senz’anima. In questo apologo politico non ci sono veri e propri personaggi (a parte la maschera del Borgomastro): piuttosto due cori che utilizzano forme della danza, della commedia dell’arte, del fumetto, per rappresentare il conflitto che divide la città in un agit-prop ironico e pieno di passione. Alla fine i "cattivi" bruceranno e distruggeranno il branco dei randagi - che però rinasceranno come dalle loro stesse ceneri, a ricordare che è impossibile cancellare il conflitto, che la parte oscura (nell’uomo, nella società) non potrà essere eliminata. Con voluta ingenuità, Randagi radicalizza il conflitto tra "normali" e "dropouts", ed esibisce una contrapposizione frontale che non può (e non vuole) trovare una sintesi. Non mette in scena solo la dialettica tra un centro e una periferia, ma (se è consentita la metafora psicanalitica) lo scontro tra un super-io distruttivo e un inconscio tendenzialmente autodistruttivo.

Viaggiatori è la fase successiva di questo laboratorio-incontro che utilizza le tecniche del teatro per ricercare, esprimere e poi comunicare in forma di spettacolo un’idea di sé e della propria esperienza di una "tribù" di frequentatori dei centri. Questa volta il tema è quello della festa: cioè il tempo e lo spazio "liberati" da vincoli sociali troppo stretti ("L’unica libertà è nel tempo dato! L’unica libertà è nello spazio dato! Fuori c’è solo SPAZIO per il TEMPO della malattia, della follia, del suicidio!"). E’ uno spazio in cui ciascuno arriva con una propria identità di emozioni ed esperienze: ciascuno dei trenta attori accoglie un gruppetto di spettatori mostrandogli "le cinque cose a cui tengo di più". Ma questa identità non è solo una ricchezza: limita le possibilità di fondersi nel caos originario, e spesso porta con sé immaturità e infantilismi. E però la liberazione nel caos non arriva spontaneamente: è necessario addirittura un truce maestro di cerimonie, assistito da tre "streghe" in stile cubiste da discoteca, in grado di innescare il processo, di guidarlo e di mantenerlo in moto.

Tra lo psicodramma e Mad Max, tra l’happening e l’animazione, Viaggiatori (sottotitolo Esercizi di vertigine) è un percorso di scoperta, un viaggio iniziatico in cui le guide - i veri personaggi - hanno connotazioni sinistre e mostruose. Il gruppo degli attori, incitati dal regista-domatore ed eccitati dalle sue streghe, si trasforma ed evolve sotto gli occhi dei testimoni-spettatori. La danza guida il corpo verso la liberazione: verso la fusione comunitaria, l’emancipazione dai tabù, il piacere della trasgressione. Ma insieme, ambiguamente, questa liberazione può coincidere, almeno in apparenza, con il divertimento coatto e industriale della discoteca; l’emancipazione dalle pastoie regressive dell’individualità ricorda il processo di disumanizzazione dei lager; la perdita d’identità può scatenare processi di esclusione e di aggressività... Insomma, dai felici e ingenui anni Sessanta dei figli dei Fiori a questi anni Novanta, anche se le tecniche e il linguaggio restano gli stessi, anche se si spera di catturare le stesse vibrazioni, la creazione di uno spazio e di un tempo "liberati" si è fatta molto più difficile e a tratti angosciosa. Le tecniche "scoperte" (o riscoperte) allora sono un indispensabile strumento di conoscenza, di allargamento della coscienza e di scoperta di sé. E tuttavia possono diventare anch’esse mistificazione e inganno, e si rivelano tali non appena la zona liberata in cui vengono praticate queste tecniche si illude di aver tagliato i ponti con il resto del mondo. Proprio nel tenere costantemente presente l’ambiguità dell’esperienza della "liberazione", aldilà di facili utopie consolatorie, Viaggiatori trova il suo senso: nel tentativo di dare l’ordine di un racconto a un’esperienza in cui le estasi e le angosce, il caos della comunità e la cristallizzazione della solitudine, si ritrovano inestricabilmente allacciate.

Quello compiuto al Leoncavallo - aldilà dei risultati artistici - può rappresentare un uso paradigmatico del teatro, sia per quanto riguarda la definizione di sé sia per quanto riguarda la definizione di uno spazio "altro". Ma pone anche un’altra questione fondamentale, che riguarda il rapporto tra il teatro e la città. Che cosa accadrebbe se la città non fosse altro che un amalgama di individui indifferenziati e intercambiabili? Se la collettività non avesse uno spazio pubblico in cui rappresentarsi (e da questo punto di vista "teatro" come luogo di autorappresentazione collettiva può essere ed è anche un’assemblea, una piazza, o la televisione)? Chiaramente smetterebbe di essere una polis, nel senso in cui l’abbiamo definita finora.

Ma che cosa accadrebbe se, in questa collettività, un gruppo più o meno marginale decidesse di dare una rappresentazione di sé in forma teatrale? Il semplice fatto che un gruppo si illuda che esista una polis a cui parlare, di fatto la fa esistere. Nel momento stesso in cui ne postula l’esistenza, la realizza.

Nel caso degli spettacoli del Leoncavallo, per esempio, non è la polis, l’insieme della città, che si rispecchia e si rimette in discussione. Anzi: è solo una parte della città, un suo segmento in qualche misura marginalizzato (o autoemarginato) che cerca attraverso il teatro una rappresentazione di sé, una identità, per poi proporla all’insieme della polis. Quel "noi", contrapposto al "voi" di chi non condivide la stessa esperienza, nel momento stesso in cui si offre in quel luogo di comunicazione e di scambio di esperienze che è lo spazio teatrale, rimanda immediatamente a un altro "noi" che li comprende entrambi.

E’ questo meccanismo a fare la forza politica ed estetica di ogni gruppo teatrale in grado di costruire una propria autonoma cultura teatrale. E’ questo meccanismo che rende reciprocamente necessari il teatro e la città: l’uno senza l’altra non esistono. Ed è questo meccanismo che rende necessari, per il teatro le esperienze di quei gruppi che possiamo raccogliere - malgrado le caratteristiche specifiche e irriducibili di ciascuno - sotto l’etichetta di "diversi" o di "marginali" (o magari di "stranieri", di "barbari"), per scelta oppure per sesso, origine o caratteristiche psicofisiche: carcerati, handicappati, immigrati, anziani, malati, eccetera. Senza dimenticare negli anni scorsi le esperienze del teatro omosessuale e di quello femminista, costruite proprio sulla diversità e che hanno avuto, fin dall’inizio, espliciti obiettivi politici.

I diversi

E’ una sensazione che gli spettatori di Ravenna Teatro, della Compagnia della Fortezza o dello Oiseau-Mouche conoscono bene: quegli attori (rispettivamente immigrati africani, detenuti del supercarcere di Volterra, handicappati) hanno una presenza particolare, emanano un’energia che è difficile ritrovare in una "normale" compagnia teatrale. La loro "diversità" è talmente evidente nei loro gesti e nell’intensità della loro presenza da caricare la scena di una fascinazione irresistibile, insieme inquietante e poetica.

In questo senso, Antonio Viganò, regista di Excusez-le ou Il vestito più bello, parlando degli attori della Compagnie de L’Oiseau-Mouche dice: "Ho rubato momenti di verità assoluta a degli attori, non a delle persone". Come precisa una breve auto-presentazione del gruppo: "Si tratta di una compagnia teatrale unica in Europa; i suoi componenti, attori professionisti, sono ragazzi e ragazze con handicap mentale. La compagnia è nata nel 1981 e si è stabilita a Roubaix, in Francia, lavora con differenti registi e coreografi e fino ad oggi ha prodotto più di tredici spettacoli che sono stati portati in tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti. Gli attori ricevono una formazione seria e completa (danza, arti plastiche, voce, musica e video) che poi utilizzano negli spettacoli. Al teatro portano la profondità del loro mistero, il loro silenzio a volte, una presenza teatrale intensa, dei gesti insoliti e una stranezza propriamente poetica. Per gli Oiseau Mouche il teatro non è questione di terapia, ma una scelta radicale di teatro professionale in cui la qualità dell’agire, dell’essere in scena, viene al primo posto senza scuse o concessioni. Gli attori della compagnia, nel loro handicap e nella loro volontà di superarlo, sono una testimonianza di lotta contro tutte le sofferenze e soprattutto contro le esclusioni. Sono diversi, ma solo loro sono in grado di modificare il nostro sguardo. Liberano la nostra visione perché più di altri ci invitano a viaggiare oltre le apparenze".

E’ proprio l’aspetto specificamente teatrale (più dell’interesse sociologico o terapeutico, più del progetto d’integrazione di questi "diversi") ad affascinare registi e pubblico. Ancora Antonio Viganò:

"Intorno all’handicap, oggi, ruota un grande business, alimentato da un intervento pubblico enorme. Disabili e malati mentali fanno anche sci, ma sempre in regime di separazione: li caricano su un pulmino e via, verso un’attività che può essere anche la più costosa, ma non deve turbare lo sguardo sul mondo - e i valori che lo innervano, anzitutto la produttività - di chi si dice normale. Una cosa simile accade in ambito teatrale, dove si parla di malattia e disagio, ma quasi sempre l’io-narrante (e dunque lo sguardo che regge la rappresentazione) è una persona normo-dotata. Noi abbiamo cercato di ribaltare questa impostazione. L’io-narrante de Il vestito più bello sono i ragazzi che vanno in scena; con le loro esperienze e il loro approccio alla vita. La diversità è rivendicata e valorizzata. Aiutata a raccontarsi. Noi evitiamo di impostare il rapporto con loro come se si trattasse di una terapia: ciò che facciamo è arte e lavoro. Più la si nasconde, d’altronde, più la diversità si rende visibile: sulla scena, un disabile o un malato mentale non può che essere e raccontare se stesso".
Un atteggiamento analogo caratterizza il lavoro di Armando Punzo con i detenuti del carcere di Volterra: "E’ come se fossi diventato un archeologo: scrostando dallo strato più vecchio quelli più recenti, facevo emergere quello che mi sembrava più autentico. Mi sono lasciato catturare dalla loro emotività compressa. Ho voluto valorizzare tutto il potenziale espressivo di questi uomini. Ho usato quel materiale, quella gestualità ribelle - conosciuta quando ero bambino - per creare e ricreare una realtà fittizia, l’immagine di un popolo che era nella mia fantasia, frutto di un mio bisogno. Un popolo semplice, vitale e combattivo, non ammansito, non ammaestrato, lontano dall’ipocrisia e dalla falsità" (La scena rinchiusa, p. 28).

Ma il processo, che si svolge per la maggior parte in realtà chiuse e segregate, interessa in primo luogo la percezione di sé di chi ne è il protagonista: "Viene in mente che, probabilmente, l’asprezza di un’esistenza passata in cella, ma poi sconvolta dall’opportunità che sa offrire il teatro quando riesce a farti scoprire diverso da quello che ti sei sempre creduto, ha finito per far nascere persone nuove. C’è il dubbio che possano esser nati nuovi talenti. Ma la certezza che il lavoro del teatro, fatto così, abbia insinuato tra quei ‘peccatori’ un’immagine di se stessi inedita, quella sì che c’è" (Armando Punzo, da un’intervista di Carlo Ciavoni, "la Repubblica", 24 luglio 1996).

I "diversi", per riprendere la prospettiva di Hans Mayer, sono coloro per i quali "non brilla la luce dell’imperativo categorico, poiché il loro agire non può diventare la massima di una legislazione universale. Ma proprio per questo l’illuminismo deve provare la sua verità davanti a loro" (I diversi, p. 7). Non è inutile precisare che alla categoria dei "diversi" appartengono secondo Mayer tanto i grandi eroi tragici, "prototipi della diversità esistenziale in quanto perlopiù soggiacciono alla maledizione divina", quanto i "personaggi drammatici che hanno potuto sopravvivere come unica alternativa ai nomi mitici della tragedia greca: Faust e Amleto, Shylock e Eulenspiegel, don Giovanni e don Chisciotte, Giovanna d’Arco e le femmine distruttive".

Il diverso vive in una maniera particolare e personale questa "maledizione divina". E vive anche un rapporto con il proprio corpo e con il mondo, un’energia e un senso del tempo irrimediabilmente diverso da quelli degli "uguali". Questa diversità è in qualche modo riconducibile alla diversità dell’attore sulla scena, alla sua radicale alterità: la prima maschera, la maschera originaria, è probabilmente quella della morte. Perché Dioniso, il dio del teatro, è anche il dio dell’alterità, dell’uscire dal sé.

L’Altro

Con i "diversi" (gli immigrati, i carcerati, gli handicappati, ma anche i giovani del Leoncavallo, eccetera) quello che entra in scena con tutta la sua forza è l’altro. O, per usare le maiuscole care a Lévinas, "Autrui", "Altri": "La manifestazione di Altri all’inizio si fa avanti allo stesso modo in cui si fa avanti qualsiasi significato. Altri è presente in un sistema culturale e ne viene illuminato come un testo dal suo contesto. La manifestazione del sistema garantisce questa presenza e questo presente, che si rischiarano reciprocamente alla luce del mondo. La comprensione di Altri è in tal modo un’ermeneutica e un’esegesi" (Emmanuel Lévinas, La traccia dell’altro, pp. 33-34).

Il gesto registico e lo sguardo dello spettatore si inscrivono dunque in una "esegesi dell’Altro", che ha una lunga storia: "La filosofia occidentale coincide con quel disoccultamento dell’Altro, in cui, manifestandosi come essere, l’Altro perde la sua alterità. Dalla sua infanzia, la filosofia è colpita da orrore per l’Altro che rimane Altro, è colpita da un’insuperabile allergia" (op. cit., p. 27). Non solo la storia della filosofia occidentale, ma anche più in generale quella della sua cultura e del suo teatro sembrano aver ottemperato a questo imperativo: evitare che l’Altro rimanga tale, assimilarlo alla propria razionalità, al proprio discorso.

Questa "assimilazione" genera tuttavia un altro dei paradossi di cui è intessuta questa riflessione sul teatro politico. Affermare la propria soggettività in quanto "diversi", renderla riconoscibile e comunicabile, significa sottoporsi a questo processo. Nella speranza naturalmente di essere accettati, come eguali tra eguali. Ma con il rischio di perdere la propria identità, la propria "anima", per annullarle in un intreccio di tolleranze reciproche, in un implacabile processo di omologazione. Si apre così una incessante dialettica tra la richiesta di accettazione (per annullare le discriminazioni e le ingiustizie) e l’autoemarginazione (per salvaguardare la propria identità, magari postulando una diversità assoluta, irriducibile, in grado di resistere a tutte le assimilazioni).

Del resto, una cosa è la "diversità", l’alterità in astratto, e un’altra sono le diversità concrete che si incontrano nella vita e nella pratica quotidiane. In astratto, la "diversità" e il suo "orrore" rischiano di produrre solo mostri: uno spettacolo da baraccone che dà un brivido, ma riduce l’Altro a cosa, a "monstrum" da esibire allo stupore e al sollazzo della gggente. Fermo restando che il mostruoso può avere un suo valore estetico.

Concretamente, invece, le diversità esprimono una loro visione del mondo, una loro storia, una loro cultura, un loro rapporto con la realtà. Dunque la prospettiva si può ribaltare. L’Io può diventare Altro e viceversa, come sa bene Marco Martinelli: "E’ un paradosso: se la Romagna è Africa, incontrare la cultura africana ha significato per noi approfondire la nostra tradizione. Abbiamo trovato il fulèr perché abbiamo incontrato i griot: e viceversa, lavorare in scena con attori italiani è stato un modo per Mor, Mandiaye e Has di andare a scoprire le loro tradizioni più antiche, come la cultura animista che sta sotto l’Islam, e che l’Islam tende a cancellare. Mi diceva Mandiaye che tante cose importanti della ‘sua’ Africa, le ha scoperte perché un giorno ha messo piede a Ravenna, perché ha incontrato noi, perché ha cominciato a fare quella strana cosa che è il teatro, un po’ arte un po’ scienza, un po’ gioco un po’ messa in causa di ciò che si è" (intervento al convegno "Theatre in a multicultural context", Stoccolma, 9-11 febbraio 1996).

Il Piccolo Teatro del Mondo

Il passo successivo consiste dunque nel costruire un rapporto paritario, non paternalistico, tra un Io e un Altro: un rapporto di reciprocità, di scambio tra un Io e un Tu. "Ricordo il momento preciso in cui tutti l’abbiamo ‘vista’, quest’idea: in treno, tornando da Mulheim, primavera 1992, avevamo recitato Siamo asini o pedanti? al Theater an der Rhur. Rocco Militano ci stava raccontando del progetto suo e di alcuni suoi amici di costruirsi una casa in Sudamerica. Chiacchierando con lui è venuta l’illuminazione: perché non costruire una casa, ma non solo una casa, una casa del teatro in Africa, dove Mor, Mandiaye, El Hadiy, possano ritornare e praticare lì quell’arte scenica che hanno cominciato a praticare in Italia, con le Albe? (...) L’idea di costruire un teatro in Senegal, dove gli Arlecchini neri possano improvvisare con la loro lingua, davanti al loro pubblico, ci lavora giorno dopo giorno, ponendoci tante domande. Sarà un teatro al chiuso o all’aperto? C’è bisogno davvero di quattro muri o è meglio una struttura itinerante? E le Albe nere, che lo dirigeranno, in che relazione dovranno restare con Ravenna Teatro? Continueremo a fare spettacoli e progetti insieme, ma quanti mesi qua, quanti in Senegal? E certo, dovrà essere una casa del teatro aperta alle case del teatro in Italia e in Europa, un luogo di fertile scambio tra il teatro occidentale e la teatralità africana, ma come dovrà relazionarsi con la realtà senegalese? E in che relazione con le Istituzioni di là? Con i gruppi di musica e danza che già esistono, con gli intellettuali, con le scuole? Il luogo dove operare è già stato individuato: Guedawaye, leggi Ghegiavai, un piccolo comune alla periferia di Dakar, sull’oceano. Le Albe nere lo hanno scelto perché è un mondo particolare: formato dagli immigrati che hanno abbandonato i villaggi d’origine per trovare lavoro e sopravvivenza a Dakar, a Guedawaye convivono le quattordici etnie senegalesi, e rispettive lingue e tradizioni, dai musulmano wolof agli animisti diola. Un laboratorio vivente per la società multiculturale: se dobbiamo imparare a convivere, bianchi e neri, mi dice Mandiaye, è bene che impariamo a farlo prima tra noi senegalesi, per questo il teatro può essere utile" (Marco Martinelli, "Hystrio", aprile-giugno 1995).

Senza dimenticare che in molti paesi del Terzo Mondo, dall’Asia all’America Latina, e naturalmente nel mondo arabo, il teatro resta un potente mezzo di liberazione e di emancipazione: "Per circa venticinque anni - e con maggior sistematicità a partire dall’inizio degli anni Ottanta - nei paesi in via di sviluppo è nato un nuovo tipo di teatro politico, di orientamento pragmatico. Alcuni osservatori lo definiscono ‘teatro del popolo’, altri preferiscono ‘teatro popolare per il cambiamento sociale’. Sfortunatamente entrambi i termini evocano precedenti e sfortunati tentativi occidentali di fare un teatro politico per i diseredati. Dunque preferisco chiamare questo nuovo tipo di teatro per il mondo in via di sviluppo ‘teatro della liberazione’. Le associazioni con la teologia della liberazione e il teatro degli oppressi sono intenzionali, poiché l’attività e i metodi del teatro della liberazione sono ispirati da attività che hanno un orientamento analogo nel campo della religione e della pedagogia nei paesi in via di sviluppo. Dunque c’è una differenza fondamentale con gran parte delle esperienze di teatro politico occidentali: il teatro della liberazione è centrato sul processo e non si focalizza sulla rappresentazione come unico scopo del teatro" (Eugéne van Erven, The Playful Revolution, p. 1).

Ma senza neppure dimenticare, in quest’utopia di scambio interculturale, che "la comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco - lacerati, sospesi, chini entrambi sul loro nulla" (Georges Bataille, Su Nietzsche, p. 51).

Nota

Nel corso di questa riflessione ho utilizzato innanzitutto gli Scritti teatrali di Brecht e gli scritti di Heiner Müller (in particolare Tutti gli errori, Ubulibri, Milano, 1994); poi, sulla storia e la crisi del teatro politico, Walter Benjamin ("Che cos’è il teatro epico?", in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1974), Erwin Piscator (Il teatro politico, Einaudi, Torino, 1976), Massimo Castri (Per un teatro politico, Einaudi, Torino, 1973), Re-interpreting Brecht: his influence on contemporary drama and film (a cura di Pia Kleber e Colin Visser, Cambridge University Press, Cambridge, 1990).

Per quanto riguarda il pensiero "impolitico" (inteso non come spoliticizzazione, né ispirato da un atteggiamento apolitico, ma vissuto come "un eccesso, un’intensificazione, una radicalizzazione del politico"), mi è stato prezioso il volume Oltre la politica, a cura di Roberto Esposito (con scritti di Adorno, Arendt, Barth, Bataille, Blanchot, Broch, Canetti, Patocka, Weil), Bruno Mondadori, Milano, 1996. Sul tema "oltre il politico", non è inutile citare le Albe di una decina d’anni fa: "Le Albe producono teatro politttttttico. Perché politttttttico? Perché con sette t? Vediamo sette possibili risposte. (...) 5. E’ sapere che non possiamo cambiare il mondo (leggi Rivoluzione) ma qualcosa, in qualche angolo, qualcosa di noi, di qualcunaltro, dispersi su un piccolo pianeta che ruota attorno a un sole di periferia in una galassia tra le tante, arrestare una lacrima, curare qualche ferita, sopravvivere, essere odiosi a qualcuno, saper dire di no, piantare il melo anche se domani scoppiano le bombe, perdersi in un quadro di Schiele, aver cura agli amici, scrivere certe lettere anziché altre (leggi Rivoluzione)" (intervento a Narni, 1987, poi in Ravenna africana, a cura di Marco Martinelli, Edizioni Essegi, Ravenna, 1988).

Nella mia ricerca delle possibilità di un teatro "impolitico", ho utilizzato tra l’altro Hannah Arendt (Vita Activa, Bompiani, Milano, 1964; "Bertolt Brecht: il poeta e il politico", in Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna, 1981; Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991), Simone Weil (Quaderni I-III, Adelphi, Milano, 1982-1986), Emmanuel Lévinas (La traccia dell’altro, Pironti, Napoli, 1979; Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova, 1985; e, sul numero 273-274 della rivista "aut aut" la sezione L’"Altro" di Lévinas con interventi di Vattimo, Rovatti, Polidori, Berto, Boella, Greblo). Ma anche Hans Mayer (I diversi, Milano, Garzanti, Milano, 1992), Leslie Fiedler (Freaks, Garzanti, Milano, 1981), Karl Rosenkranz (Estetica del Brutto, Olivares, Milano, 1994).

Per quanto riguarda la "anti-polis" postmoderna e la crisi della rappresentazione e della rappresentanza, un possibile punto di riferimento è Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano, 1994, e Cybermonde, la politique du pire, entretien avec Philippe Petit, Les éditions Textuel, 1996).

Le citazioni della parte finale le ho rubate a La scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di Volterra (a cura di Maria Teresa Giannoni, TraccEdizioni, Piombino, 1994), Eugène van Erven (The Playful Revolution. Theatre and Liberation in Asia, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1992) e Georges Bataille (Su Nietzsche, Rizzoli, Milano, 1970).

E mi sono risultate illuminanti alcune conversazioni, a volte brevissime, con registi e attori (non solo quelli citati): colgo l’occasione per ringraziarli tutti.

Le interviste con Salvino Raco e Beppe Grillo, qui parzialmente riportate, sono state pubblicate sul "manifesto". Il testo di Wallace Shawn La febbre è edito in Italia da e/o, Roma, 1992; il nuovo testo di Shawn, The Designated Mourner, ha debuttato a Londra, al Royal National Theatre, lo scorso aprile (sul testo e sull’autore, vedi anche The Dangling Man di John Lair, "The New Yorker", 15 aprile 1996). La battuta di Benigni è ripresa da E l’alluce fu, a cura di Marco Giusti, Einaudi, Torino, 1996. Le lettere di Paul Rougeau che hanno ispirato lo spettacolo di Luciano Nattino sono raccolte in Mi uccideranno in maggio, Sensibili alle foglie, Roma 1994.


 
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