Da qualche tempo il Teatrino Clandestino fondato da Pietro Babina e Fiorenza Menni costruisce la propria poetica sul rapporto tra l’evento teatrale e la proiezione cinematografica, tra la vera presenza dell’attore e la sua ombra sullo schermo. Nel contempo, lavora alla messa a punto di una narratività complessa, costruita proprio sullo scarto e la contrapposizione tra questi diversi piani, per restituire attualità ai classici. Come se attraverso questo scarto - e una formalizzazione via via più puntigliosa per quanto riguarda gli aspetti visivi e sonori dello spettacolo - fosse possibile restituire forza e attualità al segno teatrale. Dopo Otello e Hedda Gabler, tocca ora all’Iliade (che forse non a caso era stato a suo tempo oggetto di un espediente analogo da parte di Krypton).
La prima mezz’ora dello spettacolo (frutto di una serie di coproduzioni di vari festiva europei) è di strabiliante virtuosismo e ritmo incalzante, in un corto circuito tra l’arcaicità del poema e le moderne tecnologie usate per dargli forma: gli squarci di luce accompagnati da un lampo sonoro che danno sostanza alla folgore divina, come tagli di Lucio Fontana sullo sfondo buio; poi un gioco di schermi, dove nella metà inferiore del boccascena gli eroi omerici sono ombre filtrate dal tulle, figure che sembrano animarsi sulla superficie di un vaso, mentre nel terzo superiore, su una striscia di schermo vengono proiettate le loro icone in bianco e nero, quasi rubate da film muto, con la didascalia del nome come scolpita nel marmo, alternate con immagini di nubi o di fiamme.
La carne e il sangue del massacro di Achei e Troiani restano fuori dalla scena, solo evocati dal racconto o dal pugnale di pesante metallo che gli attori brandiscono a turno. Così come, in una lettura certo più apollinea che dionisiaca, uno dei tratti fondamentali del poema omerico, la pietà per l’eroe ucciso, resta escluso.
Quella di questa Iliade è una macchina spettacolare complessa e calligraficamente raffinata, che rifiuta ogni illusionismo realistico per proporsi graficamente come reticolo di segni. E’ efficace e sofisticata anche nel tappeto sonoro stereofonico, intessuto di rumori ambientali (un ulteriore sviluppo su un altro dei terreni di ricerca del gruppo, quello musicale e sonoro, ma anche un costante richiamo a una natura indifferente alle vicende degli uomini e alle bizzarie della tecnica). Ancora una volta, Babina lavora sulla compresenza di diversi piani e superfici, che scandiscono la profondità del palcoscenico. Ma in questa struttura anche i personaggi (e i sei giovani attori) finiscono per restare appiattiti come silhouette, senza mai conquistare la terza dimensione, un corpo. Così i virtuosismi tecnici alla lunga, accompagnati da una recitazione declamata che però non si spinge mai al canto, rischiano di apparire ripetitivi. Anche perché la contrapposizione tra i diversi piani teatrali e cinematografici (che in Hedda Gabler coloravano a volte di toni ironici la narrazione) qui hanno un ruolo sostanzialmente illustrativo, quasi didascalico (e gli unici godibili sprazzi d’ironia arrivano dalle attualizzazioni giovanilistiche di alcuni dialoghi).
Iliade
da Omero
Regia, scenografie luci: Pietro Babina
Direzione degli attori: Fiorenza Menni
Teatrino Clandestino
Milano, Teatro dell'Arte