ateatro 46.6 Un talk show progressista? Un teatro politico? Gli Eraclidi con la regia di Peter Sellars a Romaeuropafestival di Oliviero Ponte di Pino Non c’è dubbio che The Children of Herakles nella messinscena di Peter Sellars (uno dei futuri direttori della Biennale Teatro) abbia costituito uno degli eventi più discussi di questo inizio di stagione. Gli elementi di curiosità e attesa per lo spettacolo in scena al Teatro Valle per Romaeuropafestival erano molteplici. In primo luogo, il regista, enfant prodige del teatro americano, apprezzato e discusso per le sue attualizzazioni di classici della lirica e della prosa in chiave di esplicito teatro politico. Poi la scelta de Gli Eraclidi, un testo di Euripide tra i meno frequentati e apprezzati - ma rilanciato proprio per le sue lampanti risonanze contemporanee: al centro del testo è il problema dei profughi, in questo caso i figli di Eracle che, dopo la morte del padre, vengono perseguitati dal tiranno di Argo e cercano rifugio presso la superpotenza dell’epoca, Atene.
Partendo da questo partito preso, Sellars opera una serie di scelte registiche insieme coerenti ma meccaniche, provocatoriamente elementari. Il coro dei figli di Eracle diventa un gruppo multirazziale di rifugiati ("vedere quei ragazzini neri, bianchi, gialli con le magliette variopinte fa scattare un irresistibile effetto united colors", commenta Renato Palazzi sul "Sole-24 Ore"), che occupa la scena senza in realtà mai partecipare all’azione - salvo quando i ragazzi scendono in platea a stringere le mani degli spettatori. Gli altri protagonisti assumono il tono e l’abbigliamento dei moderni uomini politici. Una traduzione semplificatrice trasforma il re di Atene Demofonte in un presidente - o meglio in una presidentessa con impeccabile tailleur. La madre di Eracle, Alcmena, indossa il chador. Il servitore è un soldato di colore in mimetica con fucile mitragliatore. E nel finale il sovrano di Argo sconfitto avrà la tuta, gli occhi bendati e le catene dei prigionieri deportati dall’Afghanistan a Guantanamo.
In apparenza questa equazione sembra funzionare, perché le coincidenze sono davvero numerose e clamorose. Quello dei profughi e dei perseguitati è un dramma ricorrente, che sembra riproporre in eterno gli stessi dilemmi tra gli imperativi etici, le spinte alla solidarietà e alla fratellanza, e le necessità e le opportunità della Realpolitik. Ma a ben guardare non tutti i conti tornano con questa facilità. Per esempio, lo snodo centrale della trama è l’atroce richiesta dell’oracolo: gli Eraclidi potranno trovare rifugio a Atene solo dopo un sacrificio umano. Questa irruzione di una dimensione trascendente in una trama interamente ridotta a politica segna la distanza che ci separa dall’antica Grecia. Chissà, forse la giovane Macaria oggi si imbottirebbe di tritolo e chiodo per farsi saltare a una fermata d’autobus tra civili innocenti... Ma probabilmente una scelta di questo tipo avrebbe reso meno edificante e politicamente scorretta la rivisitazione di Sellars.
Al di la della provocazione, il problema è il valore politico del teatro - e in particolare della tragedia greca. Di recente le riflessioni sull’effettivo valore politico della tragedia greca si sono riaccese: in due brevi volumi, sia Nicole Loraux (con decisione, in La voce addolorata, Einaudi, Torino, 2001), sia Pierre Vidal-Naquet (ne Lo specchio infranto, Donzelli, Roma, 2002) hanno sottolineato che non è corretto ridurla a una dimensione esclusivamente politica - a una succursale del luogo deputato alla politica, ovvero l’Assemblea. Per Nicole Loraux il teatro, a differenza della politica - che ha l’obiettivo di comporre i conflitti che attraversano la città -, ha il compito di ricordare proprio quel conflitto insolubile e rimosso che corre sotto le divisioni che la politica in qualche modo rimuove. Secondo Vidal-Naquet il teatro per la città può essere solo "uno specchio infranto", dove "ogni riflesso rinvia a una realtà sociale e, ad un tempo, a tutte le altre, mescolando strettamente i diversi codici:
spaziali, temporali, sessuali, sociali ed economici".
Accanto a scelte dettate da una meticolosa attualizzazione, Sellars ne opera altre due - meno scontate. In primo luogo fa precedere lo spettacolo da una sorta di talk show progressista, dove alcuni profughi - i genitori dei ragazzini coinvolti nel coro - raccontano la loro storia. In secondo luogo affida il ruolo di conduttore - e poi di coro - a Luca Barbareschi: un personaggio televisivo (probabilmente uno dei pochi a sapere dell’esistenza del regista americano, viste le sue frequentazioni newyorkesi), ma anche politicamente legato a quel centro destra che non ha certo fatto dell’ospitalità ai profughi e ai rifugiati una delle sue priorità, anzi.
L’intenzione è ovviamente di contaminare il teatro, portandolo a confrontarsi con la realtà - compresa quella forma di super-realtà che sono i mass media e le loro "teste parlanti". Uno dei problemi è che la drammaticità del problema e l’eccesso di buone intenzioni rendono difficile ogni discussione: lo spettacolo diventa una dichiarazione di principio, e anche le contraddizioni interne - un personaggio televisivo che fa paradossalmente una dichiarazione contro i mass media, il rappresentante di un partito che nella sua pratica politica spinge a chiudere le frontiere e che sulla scena finisce per sostenere i diritti dei vagabondi figli di Eracle.
Da un lato lo spettacolo rischia di essere poco più di una lettura (a parte gli intermezzi musicali della straordinaria Ulzhan Baibussynova), di una mise-en-espace che risulta inevitabilmente piatta. Dall’altro si nutre di gesti esemplari, secondo una logica più vicina alle arti visive che al teatro. E forse non è un caso che a gesti analoghi - tornare alla tragedia greca per darne una lettura politica, centrare la lettura sul problema dei profughi e dei rifugiati - abbia fatto ricorso anche Mario Martone debuttando alla direzione del Teatro di Roma con l’Edipo Re.
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