ateatro 42.4 La leggerezza dell’orrore Le Metamorfosi di Giorgio Barberio Corsetti alla Biennale di Venezia di Oliviero Ponte di Pino
Per Giorgio Barberio Corsetti queste Metamorfosi rappresentano un vero e proprio spettacolo-manifesto. Intanto chiudono il suo triennio di direzione della Biennale Teatro, in uno spazio come l’Arsenale che la rassegna veneziana ha recuperato al teatro (dopo un altro spettacolo itinerante come Her Bijit di Pippo Delbono e il recupero del Teatro delle Tese). C’è inoltre l’assimilazione nello spettacolo di uno dei terreni d’indagine di questo triennio festivaliero, il nouveau cirque, con la compagnia Les Colporteurs che si fonde con quella del regista. Ma si tratta di uno spettacolo-manifesto anche e soprattutto per la scelta di un testo di ampio respiro come quello di Ovidio e per le tematiche che affronta.
Nell’intero percorso del regista romano risulta esemplare l’equilibrio tra la fedeltà ad alcune tematiche e modalità espressive e la loro continua evoluzione attraverso successive contaminazioni e innesti. In questa dialettica di fedeltà a un nucleo ispiratore e capacità di seguirne la dinamica si pesa la forza e la coerenza della poetica di un artista: queste Metamorfosi si trovano al punto di convergenza di diverse linee di lavoro portate in questi decenni, maturate fino a trovare sviluppi inediti.
Lo spettacolo trova i più diretti antecedenti in America, lo spettacolo-viaggio costruito a Cividale a partire dal romanzo di formazione kafkiano; e nel Graal, il megaspettacolo mitologico realizzato al Teatro di Roma con l’apporto drammaturgico di Sandro Veronesi - anche se in queste Metamorfosi - va subito precisato - il proliferare verboso di trame e sottotrame che caratterizzava il Graal viene drasticamente ridotto a una mezza dozzina di episodi esemplari, raccontati più con le immagini e i corpi che con le parole.
Risalendo ancora più all’indietro, è possibile tornare alla Gaia Scienza e alle sue esplorazioni dello spazio della metropoli, dove il paesaggio urbano nella sua complessità e mutevolezza era lo scenario sul quale costruire e misurare la forza dell’evento teatrale. E se negli anni Settanta e Ottanta era la scenografia mobile (anche con l’ausilio del video sia nella progettazione sia sulla scena) a restituire la sensazione cinematografica del movimento, in lavori come questo il medesimo effetto viene ottenuto attraverso l’invenzione di uno spazio (con l’allestimento di un montaggio di attrazioni) e la sua esplorazione e scoperta, in vari luoghi deputati, da parte degli artisti e del pubblico.
A questo spazio dinamico risponde da sempre il dinamismo del corpo degli attori: dalle origini (con Marco Solari e Alessandra Vanzi) corpi dall’energia inesauribile, coreografie infinite, sfida alle leggi fisiche e ai vincoli della gravità... Ma anche capacità del corpo di rispondere all’ambiente e alle sue sollecitazioni, di farsene contagiare fino ad assumerne la sostanza: così negli spettacoli di Giorgio Barberio Corsetti abbiamo visto corpi-pietra, corpi-fuoco, corpi-animale, corpi-oggetto, corpi-muro (e già da questo accenno si intuisce la fecondità dell’incontro tra Giorgio Barberio Corsetti e Kafka, testimoniato da diversi spettacoli).
Progressivamente allo spazio della metropoli si è andato intrecciando e sovrapponendo uno scenario naturale, ma utilizzando sempre lo stesso metodo per confrontarsi con lo spazio e gli oggetti: da una lato affrontandoli come oggetti culturali e poetici (e dunque in grado di evocare simbologie e mitologie), dall’altro considerandoli come oggetti fisici, come materia da far reagire con la materialità del corpo.
Questo mimetismo della carne non è mai piattamente descrittivo, fondato su un mimetismo esteriore. Piuttosto, spinge verso una fusione tra stati diversi della materia, verso una sorta di transustanziazione: ogni volta si tratta di inventare quella precisa quantità e qualità di energia, peso, elasticità, fluidità, che caratterizza le diverse sostanze di cui è fatto il mondo. (Per Giorgio Barberio Corsetti l’attore ideale dev’essere quello che sa attraversare tutti questi stati energetici per esprimerli in forma dinamica e creativa, nell’interazione con una drammaturgia, con lo spazio e con gli altri attori.)
La scelta di lavorare con un gruppo di acrobati-giocolieri è semplicemente l’inevitabile conseguenza drammaturgica di questa impostazione, lo sbocco naturale di un lungo percorso di lavoro. Non certo per arricchire la macchina spettacolare con qualche virtuosismo strappapplausi (sarebbe stato fin troppo facile, ma in queste Metamorfosi non accade mai), quanto per spingere il corpo oltre i vincoli dell’umano - verso l’animale o la cosa, oltre la gravità, e più in generale verso quella complicità con la natura che caratterizza tanto il testo di Ovidio.
Il termine che caratterizza con maggior immediatezza il percorso di Giorgio Barberio Corsetti (e questo spettacolo) è proprio la leggerezza: non tanto come evanescenza e fragilità di contenuti e passioni, che invece vibrano e producono nuove energie, quanto la necessità di non farsi vincolare a una forma statica, a una materia prefissata e pietrificata, a un linguaggio irreversibilmente codificato, per abbandonarsi invece alla dinamica delle pulsioni e del desiderio, al flusso dell’energia, alla logica di un linguaggio che produce combinazioni sempre nuove. La metamorfosi dunque non è solo un’opera letteraria da trasporre in forma spettacolare: la capacità cantata dal poema di farsi altro diventa l’emblema di un intero percorso artistico e di un metodo di lavoro.
Al di là di questo grande mito - la continua trasformazione della materia del mondo - misurarsi con il testo di Ovidio significa anche mettere in discussione tutto il nostro rapporto con la mitologia, e Barberio Corsetti ne è pienamente consapevole. Da un lato quello del mito è un mondo perduto per sempre: non siamo più in contatto con le piccole e grandi potenze della natura dalle quali le figure del mito traggono la loro forza. Tuttavia il mito continua a essere presente come elemento culturale, ma anche e soprattutto come necessità e nostalgia: perché dà ordine e senso al mondo, alla nostra esperienza del mondo.
Tra la distanza che ci separa irrimediabilmente dal mito e un’adesione ingenua e incondizionata alla sua potenza, Giorgio Barberio Corsetti non sceglie la strada del rito, ma adotta con grande decisione il filtro dell’ironia, che permette di far convivere diversi livelli di lettura, e dunque diversi livelli di distanza - di straniamento - rispetto all’esperienza mitica. Con una inventiva scelta drammaturgica, utilizza uno schema culturale - o forse un mito contemporaneo - dalle evidenti risonanze: ad aprire e chiudere lo spettacolo è la figura di Orfeo, il poeta, ovvero chi è ancora in grado di entrare in contatto con l’universo del mito e delle ombre; di più, nella scena finale si allude a un’equivalenza tra Orfeo e Pasolini. Nella prima scena, sullo specchio d’acqua delle Gaggiandre, Euridice viene aggredita da un teppista in motocicletta, nell’ultima vediamo Orfeo entrare in scena a bordo di un’automobile, caricare un ragazzo di vita per essere ucciso su un mucchio di terra e smembrato come nel mito antico, lasciando agli spettatori, alla loro memoria, il compito di far rivivere i suoi brandelli.
In mezzo, altre storie, altre metamorfosi: nel Giardino delle Vergini il cacciatore Atteone che vede la nudità di Diana e viene sbranato dai suoi cani, Callisto stuprata da Giove che ha assunto le sembianze di Diana e suscita la gelosia di Giunone, il cannibalismo di Licaone. E infine, nel capannone delle Tese, il tentato stupro di Bacco ai danni di Minerva, e la nascita - dallo sperma del dio schizzato sulla coscia di lei - del serpente Erittonio, e le trasformazioni del Corvo e della Cornacchia, e Tiresia che è stato sia uomo che donna e ora deve dire agli dei se sia il maschio o la femmina a godere di più nell’amplesso. E ancora, in un flusso inesauribile, in uno spazio usato magistralmente nelle sue tre dimensioni, con corde sospese a mezz’aria, reti che invisibili che permettono di camminare nel cielo, funi e tiranti che disegnano percorsi aerei, l’amore di Narciso per la propria immagine, e l’atroce destino di Penteo smembrato dalle Baccanti per aver disprezzato il dio dell’ebbrezza...
E’ un flusso continuo, inarrestabile, che affascina e ipnotizza. Da un lato, come si è detto, la caratteristica distintiva del lavoro è la leggerezza, una gradevolezza quasi musicale (con le musiche live del violino di Tiziana Bertonicini e il contrabbasso di Gianfranco Tedeschi, che firma la colonna sonora). E’ uno sguardo, un atteggiamento di distacco e lontananza, che riflette la natura extra-morale (o meglio pre-morale) dei miti e delle fiabe. Da un lato noi (come probabilmente Ovidio) ci abbandoniamo alla potenza vitale e alla forza fantastica del mito, alla sua bellezza ormai astratta, dall’altro non temiamo più la terribile e misteriosa potenza che lo abita.
Sappiamo che questa trasformazioni non possono più avvenire, che non incontreremo Diana e le ninfe nude sotto la cascata, che il bellissimo fanciullo non diventerà mai più un fiore (e probabilmente non lo era mai diventato). Gli episodi prescelti non hanno - almeno in apparenza - alcun insegnamento da lasciarci. Si presentano come semplici fatti, che rientrano nel grande flusso degli eventi, del divenire del mondo.
E tuttavia sono tutti eventi di grande durezza e violenza, uccisioni, stupri e smembramenti. E tuttavia uccisioni, stupri, smembramenti troppo simili a questi li viviamo ogni giorno, nella quotidianità in apparenza banale della cronaca nera e nei grandi eventi che paiono segnare la storia.
L’ironia di Giorgio Barberio Corsetti ci dice che un tempo era possibile avere un dialogo con le potenze che governano il mondo, per dare forse un senso alla nostra e alla loro esistenza. Così oggi può provare ad attraversarle con la massima leggerezza possibile, quasi accarezzandole, e restando al riparo dall’orrore. |
© copyright ateatro 2001, 2010
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