ateatro 41.5 Descrizioni d'interni Una nota sul teatro di Giorgio Barberio Corsetti di Chiara Ferrari C’è sempre un nuovo spettacolo da fare fortunatamente. Finire uno spettacolo, porre un termine è una contraddizione assoluta, come voler significare un movimento stando assolutamente fermi, o uno sognando con le palpebre chiuse. Eppure dolorosamente si taglia il flusso, si pone un blocco e si ammassa, si ordina e si sviluppa, si costruisce e si lavora, insomma. Si lavora attorno a qualcosa che è la negazione del lavoro, che è sofferenza o rapimento, mai fatica, eppure diventa fatica. E man mano che si stringe ci si sente dei ciarlatani, perché sembra che tutto sia perduto. Fortunatamente qualcosa resta.
Giorgio Barberio Corsetti
Il teatro di Giorgio Barberio Corsetti è un flusso di materia che, alternando lo stato liquido a quello gassoso, si modifica e dà luogo ad uno scorrere vitale ed inarrestabile e, con esso, al trapassare dei significati e delle forme, in nuovi significati ed altre forme. Ogni singolo aspetto ne è la conferma: l’elaborazione di uno spazio scenico sempre mutevole, per esempio, risultato di una profonda riflessione intellettuale, che tiene conto della scenografia, (casa o tana che sia) come dimensione da abitare, da indossare sul corpo e da vivere, rivelando, in questo, una forte carica metateatrale, perché il teatro è il luogo dell’esistere: è protezione, rifugio, schermo illusorio; e del luogo, come porzione di spazio, da adibire simbolicamente ad altro, ad una parte di mondo o di corpo attorno a cui costruire percorsi.
Al periodo della Post-Avanguardia (metà anni ’70) appartiene l’idea dello spazio come concezione esistenziale (“spazio utopico”, “spazio illusorio”), luogo privilegiato in cui inscenare lo scontro diretto con la realtà; la sua definizione diventa precisa scelta politica che sottintende la messa in discussione delle regole, implicita, per esempio, nello sconfinamento dal luogo scenico deputato e nell’utilizzo di prospettive sghembe, alteranti la visione dello spettatore e la tradizionale demarcazione tra scena e platea (Cronache marziane,1977).
Gli spettacoli realizzati in collaborazione con Studio Azzurro (Prologo, 1985, Correva come un lungo segno bianco, 1986, La camera astratta, 1987), nati sulla scia delle prime sperimentazioni video, prodotto della logica post-moderna, e risultato della profusione dei codici sottoposti all’estetica della ripetizione, sono giocati sul rapporto tra spazio reale e spazio illusorio creato dai monitor. Essi danno corpo ad uno “spazio organico” (Valentina Valentini), organismo pulsante all’interno del quale si ricompone l’unità di psichico (il pensiero) e fisico (il corpo, la materia), compressi all’interno di una stessa dimensione: sostanza viva (corpi-voci-suoni) e forma inerte (simulacri-oggetti-immagini tecnologiche). In queste sperimentazioni il monitor è il generatore di uno spazio illimitato, capace di alterare la normale percezione delle profondità e della prospettiva al punto da dare consistenza ad una realtà astratta (La camera astratta) come lo spazio mentale, lo spazio del pensiero, o come la dimensione interiore. L’opera-video è, infatti, la rappresentazione in termini concreti di uno spazio totalmente indefinito: quello del pensiero di un soggetto, che agisce in uno stato di sospensione temporale. E la scelta dell’inquadratura costituisce ancora una scelta politica, poiché mostra una porzione di mondo piuttosto che la sua totalità.
Con Descrizione di una battaglia (dai Racconti di Franz Kafka, 1988) un muro bianco viene a rappresentare la tana all’interno della quale ci si rifugia: è lo spazio dei conflitti, delle angosce e delle paure; apparentemente solido, si dimostra presto tarlato e pieno di cunicoli: i percorsi sotterranei di quella dimensione interiore in cui ci si addentra per nascondersi, ma dove alla fine “tutto invece rimane immutato”.
America (da Franza Kafka, 1992) circoscrive le tappe di un viaggio iniziatico che si realizza nelle forme di uno spettacolo itinerante, all’interno del quale viene attivata una dinamica comunicativa che, ancora una volta altera il normale rapporto dello spettatore con la scena, secondo percorsi non inediti al regista romano, ma ora arricchiti di un senso forte che tiene conto dei significati, e che immerge lo spettatore nel preciso gioco identificatorio di una laica via crucis.
Con Il processo (da Franz Kafka, 1998), gli spettatori sono di nuovo invitati a seguire le spire di un procedimento, che è un procedere per scene, tappe, luoghi e momenti dell’esistenza di un protagonista, collocato all’interno di un universo ricostruito secondo coordinate puramente mentali, in cui l’esterno è la proiezione di un mondo interiore, popolato di fantasmi e figure distorte, ed in cui lo spettatore ha facoltà di insinuarsi per sbirciare tra gli angoli di una città della mente, trasportato da gradinate mobili.
Come lo spazio, anche il corpo è sottoposto ad alterazioni che investono la dimensione fisica e mentale dell’attore; in accordo ai principi della danza, e soprattutto alla considerazione di esso come il più eloquente strumento di comunicazione, il corpo è vessato, spezzato, scomposto, gettato a sfidare le leggi di gravità. E’ un corpo fatto di carne e che parla un linguaggio denso, di una carica selvaggia e sensuale, quasi animalesca, un corpo che si trasforma, presente anche in veste di ombra asettica e di simulacro silenzioso (nelle proiezioni o all’interno dei monitor); un corpo che si esprime attraverso un codice di gesti, rivestito di un tessuto analogico e poetico (Il legno dei violini, 1990 è un saggio di teatro-danza); un corpo che dà consistenza a personaggi, figure-funzioni-metafore dal carattere sfaccettato e poliprospettico, forme fluttuanti che giocano a confondersi nell’ambiguità di un’identità variabile e multipla, perennemente in bilico tra la perdita di sé e la perdita di gravità (la Signorina, il Vicino de Il legno dei violini, le figure femminili de Il processo, il Karl di America, il doppio de Il corpo è una folla spaventata, 1996...). Ma, soprattutto, ci sono l’ironia e il disincanto, (proprie soprattutto degli anni de La Gaia Scienza), che altro non sono che le prospettive distorte e alterate della realtà, giocose e divertite, ma spesso celanti una dimensione più angosciante e claustrofobica (il senso di smarrimento e la perdita di equilibrio dei corpi a testa in giù, la claustrofobia prodotta dallo sforzo degli stessi corpi incastrati nelle scatole dei monitor, da cui cercano di evadere in La camera astratta, il senso di soffocamento espresso dai corpi che strisciano lungo i cunicoli interni di una tana di gesso in Descrizione di una battaglia, l’oppressione e la costrizione fisica e psicologica che si percepisce all’interno della casa-armadio de Il legno dei violini...). E poi: l’uso degli oggetti come metafore essenziali su cui scorrono significati mutevoli e incostanti; le macchine sceniche, giostre che spesso ingabbiano il corpo divenendone una tragica estensione; il canto e la musica come testi primari; il video come sconfinamento e contaminazione; il senso e il non-senso; la dimensione interiore, della mente o dell’anima; la leggerezza impalpabile della poesia e la solida concretezza degli elementi primari: la terra, il fuoco, l’acqua, l’aria, il maschile e il femminile.
Sono gli assi portanti di un universo poetico che, nel tempo, si è sviluppato nella direzione di una ricostruzione del senso, dopo la fase dell’azzeramento, e che ha portato il regista-attore-autore romano, ad abbandonare le riflessioni più analitiche sul linguaggio e sui mezzi teatrali (in poche parole sui significanti), per aprirsi a considerazioni più ampie sui significati, sul valore e sulla funzione del teatro, sulla ricerca dell’identità (America), sulla profondità della dimensione interiore e dell’anima, o sul sacro (Graal). Questo è avvenuto anche grazie ad un particolare rapporto con la letteratura, segnato soprattutto dall’incontro-immedesimezione con Kafka, una delle “porte regali” attraverso cui entrare (o uscire) per accedere alla dimensione del “fuori del teatro”, ed utilizzare il linguaggio come veicolo di un messaggio o di un contenuto extralinguistico e, quindi, come strumento di riflessione sul mondo, o sull’individuo, di cui mettere a fuoco, ferocemente, le angosce e le paure.
Brevi cenni storici inquadrano l’itinerario artistico del regista romano attorno alle esperienze maturate nel contesto del fenomeno della Post-Avanguardia (nata intorno alla metà degli anni ’70 sulle ceneri dell’ormai istituzionalizzato Teatro-Immagine, si prolunga fino alle soglie degli anni ’80, quando essa diviene il prodotto del post-moderno, l’espressione polimorfa di quella che Maurizio Grande definisce “Nuova Babele”), insieme al gruppo storico La Gaia Scienza da esso fondato nel 1975 e successivamente sciolto nel 1984; un percorso che ha come punto di partenza il rigetto delle forme del teatro tradizionale, in accordo ad un’ipotesi di rifondazione totale dei codici, sulla base degli elementi primari, il corpo e lo spazio, elevati a medium di un discorso non-rappresentativo. Il percorso del regista si snoda lungo un processo di crescita compositiva segnata, dopo la lunga fase di afasia, dall’acquisizione della parola che, inizialmente si pone come voce narrante di un universo interiore, poi, sempre più, si rivela come veicolo e oggetto di scambio primario attraverso cui costruire un racconto, all’interno del quale viene messo in scena lo scontro con il reale, dando così, forma alla ridefinizione di un senso (America rappresenta il momento del passaggio, il confronto con una drammaturgia complessa come un romanzo di formazione, il desiderio di affrontare tematiche impegnative: l’ingresso nel mondo del lavoro, le responsabilità, l’età adulta, la ricerca di un posto in cui stare, e, con esse, l’adozione consapevole del racconto e della parola). Già con Prologo si esplorava il mondo della soggettività e del pensiero, attraverso la scrittura, luogo di contemplazione e finestra privilegiata attraverso cui guardare l’esterno, e per mezzo della voce del narratore che scopriva il paesaggio evocandolo con le parole di un viaggio interiore, quasi come se esso potesse esistere solo se nominato. Ma è solo con la scoperta dell’universo letterario che Barberio Corsetti dà voce e forma concreta ad un ‘Teatro totale’, un organismo strutturato e costruito attorno alla trascrizione scenica di una scrittura letteraria, contenente tutti gli elementi di un gioco complesso, stretti in una ideale fusione: il corpo, il personaggio, la scenografia, lo spazio, la letteratura, la parola che racconta, il video, i significati. E Kafka diventa il luogo perfetto di un incontro che scatena l’inevitabile immersione nelle profondità delle grandi angosce dell’io, per la fisicità di una scrittura che riesce a svelare quell’oltre celato e non immediatamente evidente; come un “codice di gesti” (W. Benjamin, Angelus Novus), un linguaggio geroglifico tracciato sul corpo o con il corpo, essa è perfettamente compatibile con il teatro di Barberio Corsetti, in cui il gesto agisce nella direzione di uno sfasamento rispetto al linguaggio, creando un’apertura, una piega, uno scarto, all’interno del quale si inserisce la possibilità poetica, quella che sa svelare significati sotterranei resi straordinariamente visibili spesso dall’ingrandimento di dettagli insignificanti, dalla serialità, dalle immagini distorte o spezzate riprodotte dalle video-installazioni.
Lo spettacolo Graal (adattamento da Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach, 2000), realizzato in occasione dell’anno giubilare, si pone come nuova tappa di un percorso di ricerca, che affonda le sue radici nella materia densa e perturbante del mito; pur con il consueto distacco ironico, da essa viene carpito il più profondo significato simbolico, secondo una personale visione del regista, che affronta la vicenda del Graal, delineando una prospettiva che mette in gioco la dimensione molto intima e personale della ricerca del sacro, inteso come contatto, profondo e silenzioso, con l’anima. “Il Graal è il cuore verso cui si viaggia per trovare il centro di sé stessi. Vorrei che attraverso l’emozione si cogliesse la tragedia del non essere in contatto profondo con il proprio spirito, della perdita del sacro che è in ognuno di noi”. (Giorgio Barberio Corsetti)
Il significato che lo spazio scenico assume nelle intenzioni di Barberio Corsetti, e cioè di luogo attraverso cui riflettere sul mondo, attraverso gli elementi costitutivi del Teatro, ha inserito lo spettatore nella condizione di affrontare un percorso a stazioni, attraverso cui ricostruire l’itinerario fisico e mentale che, sulla scia delle peripezie che capitano ai personaggi, lo invita ad interrogarsi sulle reali questioni poste in gioco: che cos’è il Graal, se non ciò che sfugge, ciò che non si può raggiungere perché non si è in grado di ascoltare la voce dell’anima? E che cos’è l’amore: un vincolo? Una schiavitù? Una prigione? Un’ossessione? Una forza annientatrice?
Con Woyzeck (di Georg Büchner, 2001) Barberio Corsetti si interroga sul rapporto tra l’umano e il bestiale, mettendo in discussione il concetto stesso di umano: il Woyzeck soldato-bestia, cavallo-asino e Maria-donna-lupa inscenano uno scontro di elementi primari giocato sullo sfondo di un teatrino da alchimista fatto di personaggi-metafora, a volte entità metafisiche, di scambi rapidi, di ossessioni: i frammenti ideali di una tragedia, contaminata dei segni di un disastro inevitabile. Uno spettacolo che parla del “dualismo tra natura ordinaria e altra natura, quella che si anima, che esprime i propri segni, decifrabili come una lingua nascosta, una natura in rapida degenerazione, una natura che diventa vuoto, silenzio e morte”. (Giorgio Barberio Corsetti).
Dopo l’esperienza francese de Le Festin de Pierre (da Don Giovanni di Moliere), in scena al Théâtre National de Strasbourg, e realizzato con gli attori del TNS, con il prossimo spettacolo atteso alla Biennale di Venezia (Metamorfosi di Ovidio, 12>14 settembre), Barberio Corsetti intende appropriarsi del linguaggio del circo, utilizzando corpi di attori-acrobati, per tornare a parlare di mito, inteso come momento di trasformazione, di passaggio tra mondi diversi, quello vegetale, animale, umano e divino, ed in cui il sacro rappresenta il segno tangibile di una inevitabile metamorfosi: “si raccontano metamorfosi, costellazioni splendenti che rimangono per sempre piantate nel cielo, salti, balzi animaleschi, inseguimenti acrobatici, uomini e donne trasformati in lupi, cervi, orsi, alberi. Un mondo fluttuante non ancora definito che si lascia pervadere da un sacro oscuro, lancinante, violento.” (Giorgio Barberio Corsetti). |
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