ateatro 39.8
Verso Salomè
Una conversazione con Claudio Morganti
di Beatrice Benincasi
 
L’intervista a Claudio Morganti è stata fatta il 30 maggio 2002, fra le mura domestiche, in maniera informale e talvolta appare come una conversazione.
 
B.B.: Come e quando ti sei avvicinato al teatro per la prima volta ?
C.M.: Mi portarono a teatro quando facevo il liceo alle nove del mattino a vedere uno spettacolo che non guardai con attenzione e così non ricordai di aver visto per anni.
La prima volta che ho deciso di andare a vedere uno spettacolo, di andare a teatro, è stato perché secondo me non c’ero mai stato; invece c’ero stato e l’avevo completamente rimosso.
La prima volta che ho deciso di andare, autonomamente, comprandomi il biglietto, prendendo il mio trenino, andando a teatro insieme ad un pubblico di sconosciuti, vidi uno spettacolo del quale adesso non ricordo quasi nulla. Era bruttino, però respirai un’aria particolare, a cominciare dal fatto di trovarmi fuori dal teatro ad aspettare di entrare da solo in mezzo al pubblico, alla gente che sarebbe entrata con me.
B.B.: Era una rappresentazione di tipo classico, all’interno di un teatro o in un ambiente diverso dal teatro?
C.M.: Vidi un testo di Dacia Maraini, era uno spettacolo rivoluzionario, però messo in scena in maniera tradizionale. Era un allestimento povero all’interno di uno spazio teatrale decente, in un teatro piccolo, ma un teatro. Non fu tanto questo ad avvicinarmi al teatro, quanto il fatto di aver respirato un’aria anomala, diversa dai cinema, dalle feste, diversa da qualsiasi altra cosa. Aria che sono riuscito a respirare soltanto decidendo autonomamente di andare a teatro la sera e non la mattina con la scuola.
Perché il teatro bisogna farlo la sera, quando va giù il sole, quando si allungano le ombre: solo allora comincia la possibilità dell’apparizione del fantasma del teatro.
Finché c’è il sole nulla può succedere.
B.B.: La scuola di Carlo Cecchi ha avuto un ruolo importante per te, e anche il fatto di aver interpretato un paio di ruoli nei suoi spettacoli.
C.M.: Si, anche di più di un paio. Quando mi sono iscritto alla scuola, avevo diciotto anni ed ho fatto un anno su tre. Questo perché Cecchi insegnò il primo anno e poi non più; quindi gli chiesi di seguirlo nella compagnia, in qualsiasi mansione, piuttosto che rimanere in una scuola dove mi si cambiava l’insegnante. Andava via Cecchi, l’insegnante che io stimavo, che mi aveva aperto delle visuali che non sospettavo. C’era la possibilità di incontrare altri, di cambiare strada, ma io ho chiesto a Carlo se potevo seguirlo. La scuola vera è stata poi la compagnia.
Comunque, anche nella scuola, in quell’anno di frequenza, sono sorti i miei fondamenti teorici, che vengono da lì, tutti da Carlo.
B.B.: Mi hai detto che hai fatto altri spettacoli con Cecchi, oltre al Don Giovanni e al Borghese Gentiluomo, quali?
C.M.: Ho fatto anche una ripresa della Morte dint’o liett’e don Felice, dove però non recitavo ma suonavo la batteria nell’orchestra.
B.B.
: Hai mai pensato di fare una rappresentazione tipo quelle del Living Theatre?
C.M.: No, da spettatore detesto di essere toccato, portato a partecipare. Ho pure pagato, se mi porti a fare qualcosa mi devi pagare. A parte gli scherzi, su ciò posso rispondere solo personalmente perché è una questione soggettiva, anche se poi non mi interessa molto di dare una spiegazione oggettiva- ideologica. Forse c’è, ma non mi ci sono soffermato più di tanto. Soggettivamente ti posso dire che a me dà un fastidio impressionante, meglio, imbarazzo. Quando vado a fare lo spettatore, voglio fare lo spettatore e voglio essere coinvolto, perché a teatro se non sei coinvolto è un segno che il teatro non l’hai visto, che non è accaduto. Se il teatro accade sei coinvolto, se un attore ti piglia e ti tira certo non si può dire che non ti ha coinvolti, ma così è facile. Per esempio: tu sei seduta in prima fila, io scendo e ti do uno schiaffo, perché in quanto attore posso permettermi tutto ( anche se non è vero) e tu sei coinvolta. Ma come stai? Diventi di mille colori, non sai che fare: piangere, ridere, magari ti alzi e te ne vai. Quella cosa lì non la capisco. Pensa che ho alcuni problemi anche quando passano gli attori in sala, l’ho fatto anch’io, è una cosa che si fa. Zolla dice : “Se l’officiante inciampa il rito non riesce”, l’attore che tocca il pubblico è come per me un voler inciampare, è come un inciampamento predeterminato. Il pubblico si chiama pubblico e l’attore si chiama attore, sono due cose che hanno necessità l’uno dell’altro ma si chiamano in modi diversi, sono vestiti in modi diversi, nella maggior parte dei casi, fanno due lavori in quel momento completamente diversi e devono essere diversi per la riuscita di un rito. Sto provando a dare una spiegazione, ma la realtà è che a me quel tipo di coinvolgimento dà fastidio e non so perché. Sicuramente uno spettatore non è preparato a questo, è lì a fare un’altra cosa, quindi coinvolgerlo è poco onesto, anche perché sfrutti l’impreparazione di qualcuno. Il Living aveva un senso in quegli anni, un senso storico, un senso teatrale, la rottura e l’abbattimento forzato di una barriera. L’hai rotta tu, ma poi basta, ora anche la televisione fa così. Ed allora se lo fa la televisione, in teatro non lo si deve fare.
B.B
.: Come mai con Alfonso Santagata, dopo tanti anni di lavoro insieme, siete giunti ad una scissione artistica?
C.M.: C’è stata ad un certo punto una separazione, così senza traumi. Sì, traumatica come tutte le separazioni però senza motivi scatenanti se non un certo logorio.
Il desiderio, comunque da parte mia, di fermarmi più che cambiare. Avevo proprio voglia di staccare, di smettere con la prove, le repliche, i borderò, il ministero non ne potevo più, volevo dormire la notte.
B.B.: Mi è capitato di trovare in alcuni documenti due titoli diversi, Un giorno qualsiasi ed Andata e ritorno, per indicare lo stesso lavoro fatto con Santagata ed i carcerati della casa circondariale di Lodi. Come mai?
C.M.: Il primo titolo indica l’opera video mentre il secondo lo spettacolo fatto con i carcerati messo in scena all’interno del carcere, ma solo un paio di volte.
B.B.: Che tipo di rappresentazione è Edipo Re di Mario Martone? E che ruolo hai avuto in questa messa in scena?
C.M.: Quello è uno spettacolo di Mario, per quanto mi riguarda ci son poche cose. Il mio ruolo? Facevo Edipo, però facevo fatica. Ne avevo parlato all’inizio con Mario, gli avevo detto che per me era una questione anomala rispetto a quello che ho ed avevo in testa per quanto riguarda i testi, gli autori, il teatro scritto.
Io non sono in quell’onda dei classici greci, speravo che fosse una mia sensazione, speravo di scoprire qualcosa di diverso rispetto a me ed ai greci antichi.
Ho colto l’occasione per stare con Mario, è un amico di vecchia data, e nello stesso tempo vedere se questo lavoro su un’opera greca, su Edipo in questo caso, mi potesse aprire altre riflessioni mentali. Invece no, era come sospettavo.
Quello era un lavoro di Martone ed io interpretavo il ruolo di Edipo, non ho alcun patrocinio sulla realizzazione.
B.B.: A quale tipo di traduzione ti sei affidato per il Riccardo III versus Amleto?
C.M.: Adesso sto lavorando su Salomé, ho un paio di traduzioni italiane, l’originale francese, la traduzione inglese. Per quanto riguarda Shakespeare ho sempre lavorato così, un paio di traduzioni italiane, due anche tre o quattro o cinque.
Poi dopo le prime battute ti rendi conto quale di queste traduzioni si può evitare di consultare perché non vale.
Allora ne elimini una o due, e rimani con due, il testo originale, il vocabolario; ma più che un lavoro di traduzione è un meccanismo di “traslazione”. Cioè questa battuta, questo concetto, questa cosa che lui dice, mi interessa dirla? Se dovessi dirla come la direi?
B.B.: Analizzando il tuo copione mi sono appoggiata un paio di traduzioni per poi scegliere quella che mi sembrava più conforme al testo inglese.
Ho notato che certi versi con un determinato significato venivano espressi in modo diverso o con parole differenti pur esprimendo lo stesso concetto del testo originale.
Da qui mi sono posta il problema se fosse la scelta di una traduzione già fatta, una traduzione tua o una forma di “traslazione”.
C.M.: Sì, più che altro è questo. Le traduzioni servono come appoggio, come guida; la traduzione in prosa del Riccardo III dell’Einaudi, in quanto è scritta in versi, è fondamentale perché qualcuno ha fatto in anticipo per te, e per tutti, il lavoro di “de-poeticizzazione” anglo-cinquecentesca.
Il testo Shakespeare l’ha scritto in versi, è stato anche tradotto in versi, però già tradurre la poesia è un guaio, ancor di più tradurre quel tipo di poesia. Però comunque tu lo legga, tu leggi poesia, leggi bei versi e non capisci nulla di quel che succede; invece una traduzione in prosa ti dice la storia e la capisci bene, capisci cosa dicono. Quello è un lavoro che trovi già fatto, poi ci lavori sopra.
Ci lavoro ad occhi chiusi, quando poi scrivo comunque ci sono tracce che provo a dire e se non mi piacciono le cambio.
B.B.
: Infatti una volta con il copione alla mano visionando la videocassetta dello spettacolo, Riccardo III versus Amleto ho notato che erano state aggiunte delle battute.
C.M.: Shakespeare per dire una cosa doveva farla dire in un certo modo; da allora ad oggi è passato tanto tempo, siamo in tutt’altra epoca ma i fondamenti di quello che lui diceva e ciò che a me preme dire valgono anche oggi.
Quindi quello che bisogna conservare, quello che a Shakespeare premeva dire lo diceva come serviva a lui per riempire i tempi, per divertirsi con la sua compagnia. Io volevo dirlo in un altro modo, anche perché nessuno sapeva come lo dicevano a quel tempo.
Un po’ come la musica; come eseguivano Bach non ha importanza, tanto non lo saprai mai. Io sono nemico della filologia, fondare un lavoro, uno studio, un’attività mentale sul concetto di filologia a me sembra un’occasione mancata poi fare altro.
Un aver necessità a tutti i costi di arrampicarsi con delle belle maniglie, però poi non vai da nessuna parte. Poi mi fai sentire Bach coi violini scordati perché l’accordatura nel ‘700 era così, ma io preferisco l’orchestra di Budapest che fa un Bach romantico, che mi piace di più. Un dipinto, una musica, una scultura, una fotografia deve smuovermi qualcosa dentro.
Altrimenti faccio da me, ci sono i libri, non importa vedere le risposte degli altri.
B.B.: Che tipo di maschere sono quelle che usi in Riccardo III versus Amleto?
C.M.: Le ho fatte io, sono in alluminio piegato, è un foglio di alluminio molto fine, è molto lucido e dà un effetto specchiante.
B.B.:
Per farle hai consultato qualche immagine di maschere di popolazioni tribali?
C.M.: Sì, ci sono queste decorazioni, ma senza dover andare a consultare i libri. Una maschera ha due catenelle all’altezza delle orecchie, sicuramente le ho viste in qualche maschera africana o maori. Queste decorazioni sul volto sono una specie di tatuaggi ma sono cose che uno ha in testa.E’ un divertimento, uno svago, perché a me piace lavorare con le mani.
Sono i momenti della meditazione. E’ il momento in cui non si pensa allo spettacolo, si pensa alla costruzione di un oggetto ed è il momento in cui le cose dello spettacolo arrivano a tua insaputa, che sono poi quelle buone per lo spettacolo, quelle alle quali non pensi a tavolino. Prendi la penna e dici “Qui cosa posso fare?”.
Costruisci un attaccapanni che poi forse ti servirà per lo spettacolo o forse no, ma sicuramente ti viene in mente cosa fare in quei momenti.
B.B.: So che, dal 9 al 14 aprile 2002, hai rappresentato ultimamente, a Milano, il Riccardo III con i 18 attori di La vera storia del Riccardo III. Studio per videocamera. Vorrei sapere qual’è il tuo rapporto con il Riccardo III, visto che, pur essendo lavori affrontati in maniera diversa, il primo è stato lo studio del III Riccardo III con Elena Bucci&Tamburino Ensemble (nel 1993) poi il Riccardo III con Loredana Putignani (nel 1994).
C.M.: Diciamo che cos’è adesso, dopo tre riprese è come se fosse finito. Mi è stato chiesto se lo volevo riprendere ancora ed ho detto di no. Poi cosa succederà? Sicuramente è possibile che fra un anno , fra un po’ di tempo, torni il pensiero, il desiderio, la voglia. Però il mio lavoro sul Riccardo III è finito con il debutto alla Biennale di Venezia, proprio materialmente compresa quest’ultima rappresentazione con le sostituzioni. Si è trattato di fare un lavoro di natura più che altro tecnica, di intervento su una cosa costruita. In ogni lavoro che si fa c’è un momento in cui lo spettacolo, lo studio, il lavoro termina, ha un termine naturale. Nessuno te lo dice, e a volte non te lo dici, però non si sente al di là del fatto che uno spettacolo possa durare settantacinque anni; c’è un momento in cui lo spettacolo è finito ,dentro di te è terminato, perché ti manca quel margine di curiosità, ci sono dei sintomi o comunque cominci a dire: -“Basta stasera non ho voglia”. Si dice sempre:-“ Stasera non ho voglia”. Ogni sera si dice :-“ Stasera non ho voglia”, però, lo si dice anche per ridere. Ma arriva un momento in cui lo dici sul serio e quello è un segnale chiaro. Lo studio sul Riccardo III ha avuto in tanti anni patologie diverse. Ci sono stati momenti in cui era una specie di ossessione, momenti in cui è stato necessario, come dire, lavorarci da lontano, momenti in cui era fuori dai miei pensieri, poi è tornato. Insomma, é un rapporto complesso. E comunque non sono stati sei anni continuativi, ho passato lunghissimi periodi occupandomi di altro. Però comunque finché lo spettacolo non è finito, il fatto che la curiosità mi sia durata così tanto, dipende dalla varietà di forme che ho provato ad utilizzare. Una volta fatto lo spettacolo con tutti gli attori come io desideravo, al debutto di quello spettacolo, basta lavoro concluso.
B.B.: La mia curiosità è nata dal vedere affrontato un argomento come il Riccardo III, con attori differenti (il primo con Loredana Putignani, il successivo con il Tamburino Ensamble & Elena Bucci ed infine lo studio per videocamera con 18 attori), modalità diverse di uno stesso testo. Anche se in tutti e tre i casi gli è stato dato un taglio e una rappresentazione diversi, fino a giungere ad un lavoro più complesso con 18 attori sul palcoscenico o in video. Notavo poi come nel 1993/1994 vi sia stato un ritorno a quella messa in scena e mi chiedevo il perché.
C.M.: Io credo che poi alla fine sia difficile catalogare. Però in tutti i lavori che ho fatto sul Riccardo ci sono piccoli ma sostanziali elementi che sono rimasti. L’unico studio, mentre i primi non lo erano, che in qualche modo è rimasto quasi totalmente dentro allo spettacolo finale è La Scena del Consiglio per il resto, anche Le Regine, per quanto riguarda alcuni personaggi, mentre La Scena del Consiglio riguardava una sola scena. Degli altri studi sono rimasti solo alcuni elementi apparentemente piccoli però fondamentali e poi la costruzione con i 18 attori. La Scena del Consiglio in qualche modo era già stata vista , si è trattato però di ripensare tutto dall’inizio alla fine, perché se muta l’impianto cambia tutto.
B.B.: A che punto sei con il lavoro sulla Salomè?
C.M.: Ho la possibilità di prendere la Salomè con quelle stesse pinze che ho usato per l’elaborazione del Riccardo III, anche se quando iniziai non pensavo di fare un Riccardo III mentre adesso ho in mente di fare il lavoro sulla Salomé. Così me ne sto occupando, facendo laboratori, pensandoci, però senza ansia e senza fretta, ci vuole un po’ di tempo.
B.B.: Hai fatto molte messe in scena di Shakespeare, poi prima del Giulio Cesare hai rappresentato Tre atti per un contrabbasso. Quanto questo è stato influente ed anche importante per lavorare su altri spettacoli?
C.M.: Nei miei spettacoli, nei miei lavori, mi piace suonare, mi piace fare ciò che non so fare. Per me il palcoscenico è un’occasione di mostrare la possibilità di poter suonare anche se non si sa suonare; questa è una cosa che vado ripetendo a chi fa i laboratori con me.
E gli attori italiani non sanno suonare, già è difficile trovare quelli che sanno recitare.
Sto rappresentando il Linguaggio della Montagna e Il Bicchiere della Staffa di Pinter. Il Linguaggio della Montagna è una forma di lettura, siamo in quattro che leggiamo e suoniamo. Nessuno dei quattro è musicista.
B.B.: Ma suonate strumenti diversi o quattro uguali?
C.M.: Usiamo venticinquemila strumenti, come i grandi musicisti ma li usiamo in maniera anomala. Usiamo questi strumenti in modo diverso come percuotendo un tamburo ma dalla parte opposta, oppure suonando una chitarra turca però con l’archetto e senza modulare. Ho lavorato con Giovanni Tamborrino sul Riccardo III e con Ferdinando Grillo, un grande contrabbassista, su Tre atti per un contrabbasso.
E’ forte il rapporto tra la musica ed il teatro, è forte sul serio al di là dell’ovvietà del concetto perché per il teatro, prendi una musica e la inserisci. Però di solito si trascura che cosa lega queste due forme d’arte, si prende la musica e la si mette a teatro. Invece in Tre atti per un contrabbasso l’inserimento della musica, è stato un modo per indagare i legami originari fra le due arti; il gesto è un atto comune, ma poi, esplorando, si dà vita alle diverse forme.
Prima del musicista, dell’attore, del danzatore c’è il divertimento.
B.B.: Come sono impostati il Linguaggio della Montagna ed Il Bicchiere della Staffa ?
C.M.: In rapporto a Pinter ho dovuto cercare una strada diversa. In qualche modo tutto il lavoro fatto attoriale fatto sul Riccardo III per tanti anni me lo sono portato addosso. Il lavoro in rapporto a Pinter è stato quello di riuscire a mettere da parte tutto quel lavoro, formalmente parlando, mantenere l’ esperienza e buttar via il resto sembrerebbe un lavoro enorme, se ci sono voluti sei anni per fare il Riccardo III ce ne vogliono altri sei per toglierlo, invece no. Una prova di memoria ci ha indicato la via per fare Il Bicchiere della Staffa in maniera anonima e non shakespeariana. Tecnicamente Il Bicchiere della Staffa è il tentativo di una messa in scena così com’è, non sono stati fatti interventi di riscrittura, se non piccolissime cose di traduzione che era necessario rivedere un po’. Sul Linguaggio della Montagna c’è invece un tentativo “sperimentale”: il testo è stato scritto per essere messo in scena, noi ne abbiamo fatto una lettura dove tutti leggiamo e suoniamo. Il primo dura 30/40 minuti e l’altro 10, un’ora in tutto con la pausa. Sono stati fatti insieme, il primo tempo e il secondo tempo nella stessa serata, prima Il Bicchiere della Staffa. Mi rendo conto che non avrebbe senso fare Il Linguaggio della Montagna se non ci fosse Il Bicchiere della Staffa , ed Il Bicchiere della Staffa, secondo me, senza Il Linguaggio della Montagna perderebbe un elemento che per il teatro è fondamentale: la leggerezza. Il Linguaggio della Montagna è il tentativo di trattare nella maniera più leggera e meno impegnativa possibile una questione molto grave e molto pesante.
B.B.: Per i temi trattati, il periodo con Santagata, viene definito da alcuni come teatro “dell’emarginazione” per altri “neo-grottesco”. Come definiresti il tuo lavoro attuale?
C.M.: Non so. Pur sforzandomi non potrei risponderti. Certo con Alfonso si lavorava sempre su figure ai margini di tutto.
Se si lavorava su Shakespeare, ci piaceva lavorare sui due sicari che si trovano per così dire ai margini della locandina perché messi in fondo. Ma alla mia età non riesco a capire quanto sia utile o dannoso definire in maniera chiusa le cose dell’arte.
Non mi sembra che sia utile, io capisco che l’intento sia quello di chiarire,di cercare di dare con una parola un’immagine a un lavoro. Di dare ordine. Ma cosa c’entra l’ordine con l’arte? Niente.
B.B.: Cosa è cambiato nel rapporto con il mezzo audiovisivo o con la pellicola? Anni fa mi avevi detto che non li sentivi affini a te. In una ripresa amatoriale di Franco Jonda per lo spettacolo il Riccardo III versus Amleto prima di entrare in scena, e che arrivasse il pubblico, mentre la videocamera riprendeva dicevi :- “Riprendi pure, basta che non si senta.”
C.M.: Non è il mio mestiere. Se faccio il tombolo posso anche dire “provo con i pennelli”, però poi non riesce. Con gli strumenti di ripresa non ci so fare. Gli strumenti di ripresa in teatro sono un’aberrazione. Sono due cose che dovrebbero stare ognuna per conto proprio, ad ognuno il proprio lavoro. Ma la documentazione?, chiederai.
B.B.: So che sono due cose diverse, ma io mi sono trovata a guardare lo spettacolo, a distanza di anni, e mi sono resa conto che non mi ricordavo nitidamente alcuni passaggi o particolari o caratteristiche più o meno fondamentali.
Certo il video non mi ha dato le stesse emozioni che ho provato nel vedere quello spettacolo in teatro, o comunque in un ambiente in cui sei con altre persone hai l’attore lì che in qualche modo cerca di comunicarti e suscitarti qualcosa.
C.M.: Allora, mi dici cosa sono servite le migliaia e migliaia di fotografie di guerra, di morti, di cadaveri. Dovevano servire a fare in modo che non si ripetesse. Evidentemente il mezzo non è efficace a raggiungere lo scopo. Stessa cosa per il teatro, il teatro: a maggior ragione è una forma d’arte che ha come caratteristica di accadere in quel momento per poi svenire.
Non so a che cosa serva recitare davanti ad una macchina da presa. Il cinema è una cosa affascinante, purché non sia io a preoccuparmi di stare dietro la macchina da presa. Non è il mio mestiere. Neanche starci davanti è il mio mestiere.

 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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