ateatro 35.4
L’arte del fallimento
Sul percorso artistico di Samuel Beckett
di Alessandra Giuntoni
 
“Per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma con cui può conservare un’ombra di solidarietà. Ogni collaborazione, ogni umanità di rapporti e di partecipazione non è che una maschera per la tacita accettazione dell’inumano. Non si deve simpatizzare con gli altri che nella sofferenza: il più piccolo passo verso le loro gioie è un passo verso l’indurimento della sofferenza”.
(Th.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben)

“Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. (...) Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione”.
(S. Beckett, Proust)


Nella rinuncia all’illusione della comunicazione e nella perdurante assenza di consolazione è possibile intravedere il motivo conduttore, il sottile fil rouge che collega l’intero percorso artistico di Samuel Beckett. La difficile e sofferta scelta di intraprendere la via della conoscenza nella più totale solitudine intellettuale, insieme al rigore estremo, quasi ascetico, magnificamente esemplato dalle sue opere, costituiscono da sempre la cifra distintiva dell’autore. E’ noto il rifiuto di Beckett di contribuire all’esegesi dei suoi testi, il suo procedere artistico che prende le mosse dal divieto di dilettarsi dell’ordine cosmico e della buona riuscita della scrittura. Il suo desiderio di un linguaggio inaudito e inaccessibile, che sappia rendere conto dell’inadeguatezza della parola, nasce proprio dalla constatazione dell’impotenza dell’arte, del venir meno della capacità linguistica di far presa sulla realtà. Ancora agli inizi della sua carriera letteraria, scrive: “Essere un artista significa fallire, come nessuno altro osa fallire. Occorre fare di questa sottomissione, di questa ammissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo” (Three Dialogues with George Duthuit, in “Transition”). E, di fatto, l’intero percorso della sua opera straordinariamente unitaria e progettuale, sembra alla fin fine voler testimoniare del tentativo incessante di esprimere, in modo artisticamente adeguato, il proprio disgusto per l’arte, in un cammino lento e inarrestabile che dalle vette di uno stile maniacale, virtuosistico, ossessivo sfocerà, infine, nel silenzio degli ultimi rarefatti lavori.
Si è detto che Beckett, più di altri autori, appartiene al Novecento. Certo, del suo secolo egli è stato uno dei più eccezionali osservatori, nel modo in cui ha registrato, come un instancabile sismografo, i prodromi e le oscillazioni dei processi regressivi che avrebbero condotto l’Europa di inizio secolo al terrore del fascismo, ma anche le impercettibili variazioni del totalitarismo democratico. Egli ha descritto la vertigine suicida della società occidentale, additandone l’istanza necrofila e l’ossessione della fine e lo ha fatto esemplarmente con il minimalismo d’immagine che gli è proprio. Ma, a ben vedere, il contatto con l’epoca di appartenenza si esprime, più che in un ricorso alla strumentazione della tradizione ufficiale, nel rifiuto di qualsiasi ragionevole ottimismo, nella mancanza assoluta di fede, nel portare alle estreme conseguenze la crisi delle leggi oggettive, immanente alla definizione dei dati e della comunicazione umana. La ricerca di addentellati dell’opera beckettiana con la cultura del ventesimo secolo trova, quindi, una maggior rispondenza, più che nel raffronto strettamente letterario, nel parallelo con gli sperimentalismi di altre discipline in cui è evidente la volontà di prescindere da qualsiasi continuità storica. L’accettazione della sterilità artistica e dell’impotenza autoriale, la pervicace adesione alla poetica dell’insipienza, sono da leggersi dunque come il sintomo della sussunzione poetica delle più recenti conquiste del pensiero scientifico, dell’aver accolto incondizionatamente la lezione negativa della moderna epistemologia sulla validità di teorie confutabili, del calcolo infinitesimale, dell’ottica simultanea e rifrangente, del relativismo post-einsteiniano. La scelta di un progressivo impoverimento stilistico, inoltre, assieme alla svolta linguistica postbellica (la decisione di abbandonare l’inglese per sperimentare l’uso di una lingua ‘altra’ sfocerà nella creazione di un idioma che a ragione è stato definito ‘non-francese e non-inglese’), tutto nel percorso di questo artista sembra confermare l’ipotesi di una precisa volontà politica di porsi dal punto di vista di un io poetico errante che parli dal luogo di fango e macerie che la seconda guerra mondiale ha imposto all’uomo contemporaneo. Se nel 1951 Georges Bataille dichiara di scorgere, nell’opera di Beckett, “l’autorité des ruines” e, nella struttura di Molloy, un “mouvement forcené de ruine” (Le silence de Molloy), ciò è riconducibile non soltanto al senso di lutto universale che si sprigiona da quest’opera, ma anche al ricordo di un accalorato intervento dell’autore, pronunciato a Radio Éireann del 1946, significativamente intitolato The capital of the ruins (in As No Other Dare Fail) che assunse i caratteri di una vera e propria dichiarazione di poetica. L’esperienza personale di partecipazione alla Resistenza francese, la permanenza a Roussillon per sfuggire alle persecuzioni naziste e, infine, la decisione di rientrare nella Francia distrutta al termine della guerra, offrendosi come ‘interprete-magazziniere’ nella Croce Rossa irlandese, lo avevano condotto ad una visione dell’umanità decaduta e ad un riconoscimento del processo artistico come lucida testimonianza di questo sfacelo. Davanti alle macerie della città distrutta di Saint Lô, dove “la vecchia disaminata mente \ sprofonderà dentro la sua rovina” (Vire will wind in other shadows \ unborn through the bright ways tremble \ and the old mind ghost-forsaken \ sink into its havoc”, in “Irish Times”), Samuel Beckett scrive i suoi ultimi versi in inglese; bisognerà aspettare fino agli anni Settanta per rivederne comparire. Ecco allora, che le successive affermazioni di Beckett “I’m working with impotence, ignorance”, l’amore dichiarato per la beethoveniana “punteggiatura della deiscenza”, acquistano il valore di un manifesto programmatico, di una vera e propria scelta di campo di un autore deciso a prendere le mosse dalla capitale delle rovine interiori, a trasportare questo fisico disfacimento entro la propria lingua, a farne per sempre l’orizzonte gnoseologico del suo soggetto poetico. Il rifiuto dell’autorità del testo tradizionalmente inteso, l’attacco sferrato alla norma scritta con il “coltello del no” (No’s Knife, è il titolo voluto da Beckett per la raccolta delle sue prose brevi), si configurano come tentativo estremo di sonorizzare la lingua, di farla risuonare tra pause infinite ed echi remoti, lontano dall’autorità e dal potere di un soggetto sovrano, capace ancora di generare coscienza. Il silenzio come valore-limite della sua scrittura, la volontà di disfarsi della tecnica e dello stile acquisiti al fine di ricreare un linguaggio secondo fatto di immagini visive e sonore, è tutt’uno con l’ambizioso progetto di mostrare la caduta dell’io. “Molti autori sono troppo bene beneducati - afferma Deleuze tratteggiando i caratteri dell’épuisé beckettiano - si accontentano di annunciare l’opera integrale e la morte dell’io. Ma siamo ancora nell’astratto finché non mostriamo “come è”, come si fa un “inventario”, compresi gli errori, e come l’io si scompone, compreso il fetore e l’agonia” (L’épuisé). Di questa agonia, di questo fetore, della cecità di un mondo giunto ai limiti della fine ultima, l’arte delle rovine beckettiana costituisce una delle più lucide testimonianze che la storia della letteratura possa ricordare.
Con la fine della guerra prende avvio il periodo più prolifico e misterioso della produzione letteraria di Beckett, il periodo che egli definisce di “assedio nella stanza”. Chiuso in un isolamento quasi monastico, abbandona l’idea che la scrittura si debba ispirare a fatti o persone della sua vita, che debba crescere in opposizione all’istinto creativo inconscio da cui si sente perennemente minacciato. Se fino ad allora aveva scritto con abnegazione e sofferenza, in qualche modo contro se stesso, arriva il momento, dichiara Beckett, di accettare incondizionatamente “questo lato oscuro come componente essenziale della mia personalità”. Le immagini che affiorano dai ricordi di guerra sono residui dolorosi e inquietanti. Le parole sconnesse e disarticolate sembrano emergere da un fondo oscuro della sua anima che lo tormenta e lo divora, non gli dà pace. Per descrivere il turbine caotico della vita non ha più bisogno della costrizione vincolante di elementi esteriori quali il tempo, il luogo, la trama. Gli basta la voce (“frammenti di una voce antica in me non la mia”), gli basta ridurre i personaggi ad un unico io narrante che parli per tutti, che annulli ogni pretesa di individualità, come già aveva fatto la guerra. Far risuonare la voce umana, liberarne il suono, il senso, la sua materialità dolorosa: è il tentativo estremo di uccidere la lingua e salvaguardare la sostanza informe che sta oltre la superficie piatta delle parole. Il demone che sente dentro di sé lo condurrà al punto zero di una ricerca linguistica di progressiva sottrazione, che tende ad asintoto verso il buio, il silenzio, il grido inarticolato.
Di ritorno a Dublino, dopo aver ritrovato la madre afflitta dal morbo di Parkinson (”il suo viso era una maschera, completamente irriconoscibile. Guardandola ho avuto la sensazione che tutto il lavoro fatto fino ad allora andava in una direzione sbagliata”) Beckett ha la visione chiara e premonitrice di quella che sarebbe stata la sua arte di lì a venire, di quella che, con una formula un po’ logora e stereotipa, potremmo definire la produzione più propriamente ‘beckettiana’. Durante uno dei suoi vagabondaggi notturni, “dopo aver bevuto a sufficienza per arrestare il flusso dei pensieri”, ha il sentore di quella che ai suoi occhi avrebbe sempre conservato le caratteristiche di una vera e propria “rivelazione”. Il ricordo di quella notte trascorsa sulle banchine del molo, con il vento gelido che gli sferza la faccia, è il ricordo di una visione impressa nella memoria a caratteri di fuoco; ne farà esplicita confessione alcuni anni più tardi, attraverso la voce metallica del magnetofono del vecchio Krapp:
“Spiritualmente un anno di profondo squallore e indigenza fino a quella memorabile notte di marzo, in fondo al molo, nel vento che urlava, non lo scorderò mai, quando all’improvviso tutto mi è stato chiaro. La visione, finalmente. Questo, direi, devo soprattutto registrare stasera, in previsione del giorno in cui la mia opera sarà... spenta e io non avrò forse più alcun ricordo, buono o cattivo, del miracolo che... del fuoco che l’ha accesa: mi è apparso finalmente chiaro che l’oscurità che ho sempre combattuto per tutto questo tempo è il mio più... indistruttibile legame, fino alla fine della storia e della notte, con la luce della comprensione...”.

Ma il ricordo è offuscato, impreciso, avvolto nelle nebbie dell’oblio: mal vu mal dit, appunto. Fino al suo ultimo testo narrativo, scritto in una prosa limpida e quasi serena, Beckett tornerà sul mistero della parola, sul suo tradimento, sul suo dire male ciò che è già visto male: “La mente tradisce gli occhi traditori e la parola tradisce i loro tradimenti”. L’espressione deve combattere contro ciò che la minaccia da vicino, contro il rischio del silenzio definitivo e lo scrittore è il veggente che capta il ‘di fuori’ del linguaggio, ciò che non appartiene più a nessuna lingua. Le visioni e le sonorità che vede e ode negli interstizi del linguaggio sono semplicemente il brusio indistinto della vita, il suo sciabordio senza sosta, cosmico e spirituale. Di qui la disperata ricerca della parola-soffio, quella ricerca che già aveva tormentato Artaud: “comment dire? comment mal dire?”. La scoperta della zona d’ombra dentro di sé, l’accettazione dell’informe, del brutto, del sordido che fuoriescono dalle pieghe dell’inconscio costituiscono da ora la sua vera forza, il moto propulsore verso un nuovo canone artistico che segnerà in maniera indelebile i moduli del teatro e del romanzo novecentesco.
Alla Liberazione, dopo aver presentato il manoscritto di Watt a diversi editori di Londra, Beckett si è finalmente ristabilito a Parigi. I biografi sono concordi nell’affermare che, da questo momento in poi, i dati della sua vita si riducono quasi esclusivamente all’elenco delle sue opere e alle date di pubblicazione e di stesura dei testi. Ha inizio, come si è detto, il suo periodo di maggior attività creativa contrassegnato dall’adozione della lingua francese. I cinque anni che vanno dal ‘45 al ‘50 sono anni straordinariamente fecondi: già sul finire del ‘45 aveva terminato la scrittura di un racconto intitolato Suite, divenuto poi La Fin nella raccolta Textes Pour Rien. Nel ‘46 scrive Mercier et Camier e i racconti L’expulsé, Le calmant e Premier Amour. Nel ‘47 scrive Molloy, il primo romanzo della Trilogia, e la commedia Eleuthéria. Tra il ‘48 e il ‘50 porta a termine la stesura di Malone meurt, L’innomable, En attendant Godot e dei tredici Textes pour rien; di lì a poco (1957) farà la sua comparsa anche Fin de partie.
Con il passaggio alla lingua francese assistiamo ad una vera e propria discesa mistica verso le fonti più remote del dolore creativo, una progressiva spoliazione in cui l’artista, lo scrittore, si libera di tutto, interrompe i contatti col mondo, ma soprattutto, opera una decomposizione della lingua materna. Gilles Deleuze parla di questa capacità dell’apolide Beckett di far “balbettare” la lingua ufficiale o maggioritaria, ne approva il progetto di amputazione, di sottrazione indefinita, per ritrovarne un uso minoritario ed eversivo. Beckett, irlandese che scrive in francese e si traduce in inglese, opera una duplice conversione: dapprima rinunciando alla madre lingua, poi facendosi straniero nella stessa lingua che adotta, costringendola a infinite variazioni e linee di fuga, tali da renderla innaturale, astratta, inaudita. Già Proust aveva detto che un buon libro è sempre scritto in una lingua straniera. Beckett si serve della sua origine inglese per portare la balbuzie, l’inceppamento nella langue, e non solo nella parola: “balbettare è, in genere, un disturbo della parola. Ma far balbettare un linguaggio è un’altra cosa. Significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici, sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua”. (Sovrapposizioni).
Il bilinguismo diventa interno, immanente alla stessa lingua, la costringe a bisbigliare, sussurrare, a disseminarsi in stato di variazione continua, liberata dal sistema coattivo della predominanza di senso. Lo spiazzamento che deriva dalla dissoluzione della superficie sonora della parola, franta da pause musicali, apre ad una conoscenza di tipo organico capace di misurarsi matericamente con il testo: “c’è qualche motivo - si domanda Beckett - per cui la terribile materialità della superficie verbale non sia in grado di dissolversi cosicché per intere pagine non possiamo percepire se non un sentiero di suoni sospesi ad altezze vertiginose, colleganti insondabili abissi di silenzio?” (Lettera Tedesca, in Disiecta).
Far buchi nella lingua (“to bore one hole after another in it”), sottoporre l’idioma materno al supplizio dello smembramento, piazzarsi nello spazio neutro del vuoto linguistico. Questo il penso del narratore alle prese con la costruzione del suo personaggio più estremo: L’Innominabile, straordinaria sintesi nella dialettica tra luce e tenebra, suono e silenzio, moto e stasi. L’impresa di Beckett si colloca nello spazio esiguo, liminale, tra indicibilità del narrato e impossibilità di tacere, tra muta esistenza e il tentativo dell’arte di dirla, di renderne testimonianza.

”Questa voce che parla, pur sapendosi menzognera, indifferente a quel che dice, e che si sa inutile, senza valore, che non si ascolta, attenta al silenzio che essa rompe è proprio una voce? Io non farò più delle domande, non ci sono più domande, non ne conosco più. Essa fuoriesce da me, mi assorda, urla contro i miei muri, non è la mia, non posso fermarla, non posso impedirle, di straziarmi, di scuotermi, di assediarmi. Non è la mia, io non ne ho, non ho voce e devo parlare, è tutto quello che so, è intorno a questo tema che ci si deve aggirare, è a proposito di questo che si deve parlare, con questa voce che non è la mia, ma che non può essere che la mia, poiché non ci sono che io e, se ci sono altri, all’infuori di me, ai quali tale voce potrebbe appartenere, non giungono sino a me, non ne dirò di più, non sarò più chiaro”.
(L’Innomable)


Nell’ultima parte del testo, il dilagare della voce narrante e l’uso di un linguaggio rotto, liberato dai vincoli dell’interpunzione prosastica, raggiungono il parossismo di un delirio verbigerante. Ma, al di là dell’elemento d’innovazione formale, ciò che nei romanzi della Trilogia beckettiana permane, è tutto il pathos di una moderna tragedia, in un largo respiro corale. Il silenzio invocato da Beckett ha a che fare con la sola speranza mistica alla portata dell’uomo nuovo, nato nella guerra. Di sicuro la meta intravista è incerta, illuminata soltanto da un fioco lucore. Forse si tratta ancora della “...folie que de vouloir croire entrevoir quoi \ quoi \ comment dire...”. Ma se esiste essa è proprio là, nel luogo che lui ci ha indicato, “là dove si soffre, là dove si esulta di essere senza parola, di essere senza pensiero, là dove non si sente nulla, non si ode nulla, non si è nulla, è là che sarebbe bello essere, là dove si è”. E, una volta giunti al silenzio, all’esaurimento delle parole, bisogna raccontarne la storia, che è la nostra storia, che è la storia di Beckett-Innomable. E’ questa la stupefacente persuasione raggiunta dal narratore nelle ultime righe del romanzo:

“E allora continuerò, bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo”.

E Beckett ha di fatto continuato.
Come scrive Franco Rella:

“Egli ha dato voce e fatto accadere e reso visibile l’ammutolimento del mondo dopo Auschwitz, come ha detto Adorno. Dopo e prima di Auschwitz. L’ammutolimento che ci assale ogni volta che il nostro sguardo si affaccia attonito sul mistero del mondo, delle cose, della sofferenza e le fragili parole che abbiamo si inaridiscono nella nostra bocca, finché non cominciamo a parlare di nuovo, finché non troviamo il coraggio di continuare”.

A partire dagli anni Sessanta, Beckett imprime un’ulteriore torsione sottrattiva alla propria scrittura. Compone diversi testi teatrali brevi (Play, Come and Go, Breath), i radiodrammi Words and Music e Cascando, il teledramma Eh Joe e alcune prose in cui abbandona la forma narrativa dei romanzi “adulti” (la Trilogia e Come è), basata sul racconto in prima persona della voce monologante, ricorrendo ad un narratore che parla in terza persona partendo da un’unica immagine archetipa. Il primo di questi testi è All Strange Away del ‘63, cui fanno seguito Imagination morte imaginez, Assez, Bing, pubblicati nel ‘67 nel volume Têtes-mortes e poi, ancora, Sans e Le dépeupleur apparsi entrambi nel ‘70. La morte dell’immaginazione poetica, la paralisi di ogni fantasia creativa, costituiscono il contesto storico di caduta da cui si dipartono questi durissimi testi beckettiani. Bloccato il fluire delle immagini poetiche, lo sguardo si affigge su singole immagini pietrificate, tra cui domina quella dell’occhio-baratro, l’occhio spalancato, tragico testimone di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio. Lo sguardo bruciante è immobile nello spasimo dilatato dell’attimo. Il corpo umano accecato dalla luce abbagliante cade a terra riverso e cerca un ristoro nel buio inesplorato, un momento di requie per gli occhi folgorati. Ma la luce bianca torna di nuovo a infierire, annulla i contorni delle cose, disintegra qualsiasi facies antropomorfa dal muto deserto siderale materializzato da Beckett. Ciò che resta, ancora una volta, sono le nude, scabre parole che descrivono la fenomenologia dell’evento:

”Da ogni parte non una traccia di vita, voi dite, bah, e con questo, immaginazione mai morta, ma sì, appunto, immaginazione morta immaginate. Isole, acque, azzurro, verzura, attenzione, pff, via tutto, un’eternità, zitti ora. ... Alla luce che fa tanto bianco nessuna sorgente visibile, tutto splende di un bagliore bianco, eguale, suolo, muro, volta, corpi, non un’ombra”.
(Immagination morte imaginez)


Un lavoro minuto di scomposizione di ogni membro del corpo percorre l’intero testo di questi racconti. Nella geometria assurdamente calcolata dello spazio e delle posture si definisce una meticolosa grammatica gestuale, determinata dall’analisi degli assi di spostamento dei corpi, dalle minime varianti apportatrici di senso. “L’anatomia è un tutto”, afferma Beckett in Imagination morte imaginez. Una crudele anatomia di dissezione del vivente che va verso l’eliminazione di ogni residua psicologia: il corpo-macchina, il corpo-involontario dell’ultimo Beckett non è troppo lontano dal ‘corpo senza organi’ invocato in precedenza da Antonin Artaud. Le indicazioni posturali e gestuali, descritte con freddezza chirurgica, concorrono all’eliminazione del ‘volto’ umano: “Tutto noto tutto bianco un metro aderenti gambe come cucite... Corpo nudo bianco fisso solo gli occhi appena. Mani pendenti aperte palmo avanti piedi bianchi talloni uniti angolo retto... Testa globo in alto occhi azzurro pallido quasi bianco fisso avanti silenzio dentro...”. Liberare il corpo dal pensiero perché partecipi della durezza intangibile delle cose, della loro grevità effettuale. La dissoluzione degli oggetti mentali, la caduta di ogni pretesa gnoseologica, anche di quella più azzerante, è la via che conduce alla cessazione del dolore del divenire, del movimento. Sembra che Beckett insegua, a questo punto, una sorta di paradossale progetto soteriologico nella ricerca di un passaggio verso l’inorganico. Vi è la speranza di un’intravista salvezza nel farsi cosa, nell’amore per “le cose immobili” che non si lamentano, è l’unico modo per sfuggire alla corrosione del tempo, per dilatare il presente, arrestare il trapasso. Se può esserci una liberazione essa è qua, nella felicità dell’informe che si oppone e protesta contro il principio formale del vivente. Nell’esplorazione di quest’immobilità minerale risiede forse “l’aspetto anorganico” che Th.W. Adorno (Ästhetisce Theorie) tenta di rintracciare nella sua poesia. L’ipercontrollo, mimesi del controllo pulsionale esercitato dalla società odierna è forza salvifica e insieme imbalsamazione di fronte alle dispersioni psichiche della vita, alla sua forza spossessante.
Al tema dell’occhio che si spalanca e vede dentro di sé, sospeso sull’inferno ineluttabile dell’autopercezione - “Immagina gli occhi bruciati azzurro cenere e le ciglia scomparse, tutta una vita di splendore senza vista, spalancati immobili, un solo trasalimento lampeggiante per minuto sulla terra, cerca quello” (All strange away) - è dedicato Film, unico cortometraggio cinematografico, realizzato da Beckett nel ‘64. Interpretato da un attempato e dimenticato Buster Keaton che si dimostrò alquanto perplesso circa il senso e la realizzabilità del tutto, Film ha come argomento la stessa essenza del cinema: la percezione visiva. Proponendosi di dimostrare l’assunto filosofico di un altro celebre irlandese, ovvero l’esse est percipi di Berkley, Beckett costruisce una sceneggiatura semplicissima in cui è mimata, a mo’ di comica del cinema muto, la fuga di Og (il protagonista oggetto di percezione) dall’inseguimento di Oc (l’occhio implacabile della cinepresa, il percipiente). Morale del film: la cinepresa-percezione coincide in fine col personaggio percepito, rivelando la percezione come atto di pura affezione, come percezione di sé. E’ possibile sfuggire al tormento della percezione con l’estinzione del soggetto, approdando al sollievo dell’impercettibilità.
Con la fine degli anni Sessanta la produzione letteraria di Beckett si riduce drasticamente. Operato a entrambi gli occhi (ma la vista continua a peggiorare) è costretto, come il Maestro Joyce, a scrivere con una grossa matita colorata su fogli più grande del normale. Non è possibile stabilire se quelli che lui definiva “i soliti dolori e sofferenze” abbiano interferito sulla sua capacità lavorativa di quegli anni. E’ molto più probabile che la progressiva rarefazione dell’opera sia parte integrante di quel processo di spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente. Le opere susseguenti le grandi prove degli anni Cinquanta e Sessanta sono infatti brevi prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, preziosissime pietre di un mosaico di compatto spessore concettuale e di fulgida, esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante brevità, Beckett crea il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia, la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale. E’ del 1972 la stesura di Not I, un difficile monologo per sola attrice, della durata di 15’, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del battente monologo, nella litania rovesciata e senza speranza cantilenata da un’angelica e purissima creatura, affiorano come lampi sinistri i grumi densi di una dolorosa memoria. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio, di una pietà e una misericordia da sempre invocate e per sempre negate all’umanità. “E’ uno spettacolo di grande intensità, fatto di sudore, di muscoli contratti, di laringe schiumante, che trova le sue variazioni nei toni alti: un convulso gracidio all’idea che possa esistere un Dio misericordioso; un grido di sofferenza diretto a placare questa incerta divinità” (B.Nightingale, “New Statesman”).
Nel 1975, terminata, la stesura di altre due pièce teatrali intitolate That time e Footfalls si avvia alla scrittura dei drammi televisivi Ghost Trio e ...but the clouds... Oltre a tradurre personalmente le proprie opere dall’inglese al francese e viceversa, comincia la stesura delle cosiddette rimailles, la raccolta di versi che vorrà intitolare Mirlitonnades, in divertito omaggio alla poetica dell’insipienza cui volle sempre mantenersi fedele. Originariamente scritte su fogliacci, sottobicchieri, se non addirittura sull’etichetta di bottiglie di whisky, le mirlitonnade vengono successivamente ricopiate dall’autore in un quadernetto ribattezzato “sottisier” ovvero sciocchezzaio, contenuto nel taschino della sua giacca. Inutile dire che queste filastroccate (felice titolo italiano con cui G.Frasca ha tradotto mirlitonnades, seguendo un’implicita indicazione di Beckett che ama definirle anche “gloomy French doggerel” ovvero “tristi filastrocche francesi”) scritte febbrilmente tra il ‘76 e il ‘78, vengono definite dalla critica più recente “tutt’altro che versi occasionali, o cantabili latenze del pensiero, risultando anzi fra i testi poetici più intensi, innovativi ed emotivamente coinvolgenti dell’ultimo quarto di Novecento”.
Degli anni Ottanta sono la pièce Ohio Improptu, il teledramma Quad che, definito dall’autore “una folle invenzione per la TV”, consta di un testo scritto per la scuola di danza di Stoccarda in cui non sono previste parole, ma solo il movimento di quattro mimi, il suono dei loro passi e di percussioni “dodecafoniche”. E poi, a seguire: Rockaby, Catastrophe, Nacht und Träume e infine Quoi où, la sua ultima pièce tradotta immediatamente in inglese con il titolo What where. Intessuto su una fitta trama di citazioni letterarie (una poesia di Goethe e una di Thomas Moore) e musicali (i Lieder di Schubert del ciclo Winterreise che risuonano in filigrana nel testo) spazializzate secondo la tecnica dell’attore separato dalla sua voce con l’uso di un piccolo megafono (già esplorata in Dondolo e in Quella volta), attraverso una ripartizione geometrica dello spazio che ricorda quella di Quad, si assiste nell’ultimissimo lavoro teatrale di Beckett a un’impensabile radicalizzazione della tendenza alla de-umanizzazione linguistica. Il lavoro di scomposizione del testo provocato dall’andamento martellante dei recitativi, la tensione interna montante per via dei riferimenti a episodi di crudele tortura, trovano un correlato oggettivo nella geometrizzazione desertificante dello spazio scenico. Ancora un tentativo insomma, da parte del settantasettenne scrittore, di dar compimento all’ambizioso progetto di smaterializzare la realtà per accedere a dimensioni altre, forzando il varco di accesso minimale che dalla sapienza di pose geometriche astratte e stilizzate lo possa finalmente condurre a concedere diafano corpo all’ineffabile immanente, a ciò che per sua intima essenza rimane indicibile. La struttura ritornellante a “progressiva eliminazione”, il luttuoso clima circense evocato dai nomi clowneschi dei personaggi (Bem, Bim, Bom, a cui va aggiunta la voce di Bam) in richiamo-omaggio ai personaggi di Comment c’est, sembrano una voluta, profetica smentita al “chiaro significato politico” attribuito dai critici che vollero a tutti i costi leggere in Cosa Dove “un testo teatrale sul totalitarismo”. A riconferma dell’assoluta estraneità dell’autore al giochetto insistito di tanta critica (che consiste essenzialmente nell’ammannire facili metafore politiche o speciosi significati reconditi, laddove è solo l’opera in quanto nitida partitura musicale di minime azioni sonore a parlare) gioverà ricordare le parole dello stesso Beckett pronunciate in difesa della “semplicità” di Fin de partie: “Quando si tratta di giornalisti credo che l’unica linea di condotta sia rifiutare di essere coinvolto in qualsiasi genere di esegesi. E insistere sull’estrema semplicità della situazione e del risultato drammatici. Se questo a loro non basta, e ovviamente non basterà, per noi è molto e non abbiamo delucidazioni da offrire per misteri che solo loro creano” (Lettera a Schneider, 1957). Ebbene, a ulteriore riprova delle distanze prese da Beckett, si legga la revisione apportata dallo stesso all’adattamento del testo per la prima francese di Quoi où, andata in scena a Parigi nell’aprile del 1986 insieme a Catastrophe e Ohio Improptu. In questa circostanza il megafono viene sostituito da un cerchio di luce arancione, i personaggi angosciosi della prima versione ridotti a tre volti quasi sospesi. Ma, la divergenza maggiore sta nel ritmo delle battute, nell’abbandono del tono minaccioso da parte di Voce, nella scomparsa del clima intimidatorio in favore dell’assoluta “ironia” chiamata a caratterizzare l’atmosfera. Appare, allora, più convincente e conforme all’intento di Beckett la lettura suggerita da Frasca che vede nel tono di autentica e poeticissima chiusa teatrale il senso più proprio di un gioco giunto veramente alla fine (una sorta di personale e toccante Fin de partie, inscenata da un Beckett accomiatantesi ma niente affatto intristito), suggerito dalla presenza in scena di una struggente aire de jeu che aleggia sul tutto e dona alla pièce una “levità malinconica da ultimo spettacolo, se non da disallestimento della scena”. Aiutano in tal senso i versi posti dall’autore a congedo dalla sua quarantennale attività drammaturgica che, accompagnando il declinare delle luci sul set, recitano: “Il tempo passa. \ E’ tutto. \ Comprenda chi potrà. \ Io spengo”. (Le temps passe. \ C’est tout. \ Comprenne qui pourra. \ J’éteins”). A seguire l’ultima indicazione di regia che, brevemente, annota: “Lo spazio si spegne. Pausa. V si spegne”.
Spenta la voce esplicitamente teatrale, Beckett si appresta a prender congedo anche dalla produzione narrativa che ha subito nel frattempo la stessa condensazione dell’opera drammaturgica a partire dai brevissimi testi di Still e Pour finir Encore, fino a sfociare nella prosa limpida e trasparente di Company, Worstward Ho e Mal vu mal dit. Nelle tre brevi prose appena citate, che con tutta probabilità avrebbero dovuto costituire una nuova Trilogia, si compie l’estrema purificazione della parola entro l’accettazione assoluta della pietà e del silenzio. In Company la voce sopravvive staccata dal personaggio: “Una voce arriva a qualcuno nel buio. Immagina”. E’ questo l’inequivocabile incipit con cui Beckett ci cala nel lento ma inarrestabile naufragio della parola che prende corpo sotto i nostri occhi di lettore. L’uomo è solo, immobile; riverso sul pavimento ode soltanto il proprio respiro. Una flebile luce si alza e decresce con il volume della voce, la quale non dice “Tu sei riverso nel buio e sei privo di ogni attività mentale”, forse per la sola ragione di “accendere nella sua mente questa fioca incertezza, e questa pallida perplessità”. Dunque più niente a turbare l’inattività del corpo-mente. Una sorta di spontaneo, laicissimo Nirvana ad-viene all’uomo nell’allentamento della coscienza, nella cessazione delle agitazioni e della sofferenza. Nel testo di insegnamenti buddhisti del Maestro Buddhadasa, si legge: “Il samsara (ovvero lo stato di sofferenza originantesi dal ciclo delle rinascite), si produce ogni volta che la mente reagisce senza attenzione e con ignoranza agli stimoli sensoriali. Sorge, ad esempio, uno stimolo visivo e la mente costruisce sensazioni, desideri, convinzioni e, in ultimo, il senso dell’io-mio. Ogni volta che si sperimenta uno stato di immobilità, indipendentemente dalla qualità e dalle cause, si può dire che è un momento di nirvana. Nirvana significa letteralmente ‘acquietarsi’. Ogni acquietamento è una forma di nirvana. Un carbone consumato, un uomo o un animale in cui il desiderio è estinto, sperimentano un certo grado di nirvana.” (Me and Mine, Selected essays of Bhikkhu Buddhadasa).
L’esistenza di una consonanza tutt’altro che casuale con le tematiche del pensiero orientale, che propone la via della liberazione dalla sofferenza nell’abbandono dell’io desiderante, è rinvenibile in molti testi beckettiani e, specialmente, in quelli di questa ultima fase, in cui il senso di perdita estrema si accompagna alla pacificazione che discende dall’abbandono della volontà, all’imperturbabilità che deriva dal non trattenere alcunché. Per quali misteriose congiunture filosofiche il pensiero dell’ultimo Beckett sembri ricollegarsi così chiaramente ai testi dell’antico canone buddista, non è dato probabilmente sapere. In Company una sorta di beatitudine contemplativa è data dal riaffiorare della ‘memoria involontaria’ che cede al fluire luminoso di scene di quiete e di serena accettazione. Vicende dell’infanzia, della maturità, della vecchiaia si susseguono secondo un lento fluire di montante marea. Nel dipanarsi essenziale di nitidissime immagini, in cui brevi lampi di memoria di un chiarore quasi abbagliante si affacciano “sugli indecifrabili grovigli della mente” come una finestra che guardi sul buio esterno, si può apprezzare in questo ultimo poema in prosa, scritto in inglese, accolto con grande favore dalla critica (“un’esplorazione di ciò che è in ultima analisi inesplorabile... da parte di un irraggiungibile maestro della lingua inglese, il più grande maestro della lingua inglese” commentò il “Times”) si può apprezzare dicevamo, il conseguimento di una narrazione di tipo oggettivo, epico è stato detto. La voce sconosciuta e remota non appartiene più in alcun modo al soggetto; lo sfiora, lo trapassa e attraverso di essa l’uomo rivive le proprie storie che non sono più sue. Sembrano piuttosto appartenere a un io corale, al soggetto di una vicenda impersonale, primordiale, che lo sovrasta.
Come annota R. Mussapi nella postfazione alla traduzione italiana di Company: “la perdita definitiva della voce ha lasciato la voce all’epica a cui apparteneva prima che al soggetto e questo cancella ogni velleità di dramma e di commedia: la quiete è uno stato fisico assoluto, compie e realizza l’affermazione di Giordano Bruno che la velocità massima è uno stato di quiete”. Ecco allora che la voce inaudita può espandersi indisturbata e risuonare sui ricordi dell’uomo che, da un punto distante nel tempo, lentamente s’irradiano entro il buio della stanza, fino a prendere forma, a materializzarsi dolorosamente per poi nuovamente tornare a sfaldarsi. I ricordi del bambino che cammina per mano alla madre - ancora un pensiero alla “collera ingiusta” di lei - la distesa di luce della sua prima neve, le immagini del crepuscolo e dell’erica, del porcospino custodito con affetto nella vecchia cappelliera e incluso poi nella dettagliata preghiera a Dio, da tutto si sprigiona un senso di impalpabile grazia, di rasserenata pietà verso i piccoli eventi che hanno costellato la vita. Adesso l’uomo, che conserva una parvenza di movimento nel solo alzarsi e riabbassarsi delle palpebre, può porsi nudo di fronte alle forze cosmiche che regolano l’universo, per restare semplicemente in ascolto: della gravità, della luce, del respiro che, come “il lento su e giù della risacca” lo restituisce alla pace immota di solitudini infinite fatte di iperuranici, siderali silenzii. Nell’azzeramento del corpo-mente non ci sono più gesti che richiamino in qualche modo la volontà: tutto si compie, si epifanizza, secondo un ritmo di oceanica involontarietà. E’ il destino di un compimento che prende la forma, via via, di immagini tremule, di sussulti, balbettii che riemergono da un passato lontano.
In questo nietzschiano acconsentire non si avverte opposizione, niente che ricordi le rivendicazioni da parte dell’io, più nessuna psicologia. Ma a chi parla dunque la voce? E chi pone le domande? La risposta, com’è giusto che sia, recita: “Un altro ancora che mai si troverà, in nessun luogo. Che mai si cercherà, in nessun luogo. L’impensabile ultimo di tutti. Innominabile. L’ultima persona. Io. Lascialo subito”. Nell’imperativo categorico della risposta, distruttore di ogni preteso soggetto, sembra essersi avverata la profezia annunciata in Non Io. Finalmente la possibilità della cessazione, la messa a tacere di quella che Krapp apostrofava come “questa puttana di prima persona”.
Se la voce di Bocca tornava come un trapano perforante a lacerare il disincarnato soggetto, sottoponendolo alla tortura del dire, del proferire parole (si ricordi: “bocca infuocata... fiume di parole... nelle orecchie... nessuna idea di quello che dice!... e non si può fermare... non può fermare il fiume... e tutto il cervello implora... qualcosa che implora dentro il cervello... implora la bocca di fermarsi... di fermarsi un attimo... anche solo per un attimo... ma nessuna risposta... come se non avesse sentito... o non potesse... o non potesse interrompere per un attimo... come impazzita...”), adesso il miracolo dell’implorata afasia sembra essersi compiuto. La maledizione della prima persona - le moi haïssable aborrito da Pascal - che costituiva la condanna de l’Innomable (si pensi ai disperati tentativi della voce-coscienza di abdicare alla soggettività: “non dirò più io, non lo dirò mai più, è troppo stupido”) declina verso la resa estrema, verso il lutto di una definitiva separazione. Giunto al termine della sua parabola esistenziale (“non sei più vecchio ora di quanto non lo sia mai stato”) dopo aver scandagliato gli abissi del silenzio e sfiorato le vette adamantine della parola, il narratore di Company (ma forse sarebbe più giusto dire Samuel Beckett) si appresta a rivelarci la vanità della favola e dell’agire, a mimare una fatidica chiusura del cerchio in bruniano ricongiungimento con l’essenzialità del suo estremo inizio (se di una vita, dell’opera, dell’umana vicenda non ha, davvero, molta importanza stabilire):

“Finché alla fine sentirai come le parole stiano al punto estremo. Con ogni parola inane un po' più vicina all’ultima. E come anche la favola. La favola di qualcuno con te nel buio. La favola di qualcuno che racconta di qualcuno con te nel buio. E come è meglio alla fine la fatica perduta, e il silenzio. E tu come sempre sei stato. Solo”.

 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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