ateatro 35.3
La ri-scrittura drammaturgica di Luca Ronconi
Ripensando al Pasticciaccio e ai Fratelli Karamazov
di Andrea Balzola
 
Nella stagione 1995/96, Luca Ronconi, all’epoca direttore del Teatro di Roma, mette in scena al Teatro Argentina Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda e due anni dopo, nella stagione 1997/98, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. La scelta aveva un senso evidente e persino dichiarato: partire dalla grande letteratura per ripensare e ridefinire la drammaturgia contemporanea, incagliata in una crisi che da molti decenni ormai vive rarissimi sprazzi di luce. Un’altra motivazione, meno dichiarata ma trasparente nel lungo e densissimo percorso registico di Ronconi, era la sfida all’irrappresentabile. Fin dall’Orlando Furioso, attraverso Ignorabimus di Holz, per giungere agli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus e approdare ai più recenti “infiniti matematici”, il testo sembra valere per Ronconi in proporzione alla sua complessità, perciò alla sua difficoltà di messa in scena. Il fatto che l’operazione gli sia quasi sempre riuscita, in modo spesso straordinario e sorprendente, lo ha spinto naturalmente ad alzare ogni volta il tiro nel suo duello con la pagina scritta. Come se la vocazione inespressa di Ronconi iniziasse proprio dalla pagina, strappata quindi all’autore e riscritta sulla scena, in un minuzioso lavoro di estrazione del sottotesto e di immaginifica materializzazione del suo spazio simbolico. Già in passato avevo tentato una lettura della processualità ronconiana, dal testo alla scena: “Ronconi inizia dalla mancanza, da ciò che il testo contiene ma non esprime; fecondato dalla sfasatura tra voce (pienezza inarticolata del senso) e linguaggio (messinscena del senso) - la cosiddetta anomalia creatrice - Ronconi indaga ermeneuticamente l’inconscio testuale (soprattutto la spazialità nascosta) con gli strumenti analitici della lettura filologica e simbolica, e con quelli sintetici dell’intuizione registica. Lo spazio dell’interrogazione del testo diventa così lo spazio simbolico nel quale interagiscono la scrittura testuale dell’autore e la progettualità scenica del regista, finché sorge lo spazio creativo della messinscena vera e propria. Questo spazio ludico - sempre eccedente - istruisce il codice specifico (ogni volta diverso) della recitazione degli attori e della macchina scenica. (...) Ronconi trasforma il testo in congegno teatrale.”
Una lettura che mi pare confermata dalle due messinscene del Pasticciaccio e dei Fratelli Karamazov, emblematiche prove di come un testo letterario possa trasformarsi in un testo teatrale senza perdere la sua identità - soprattutto con Gadda pareva davvero improbabile - rivelando anche come una sorgente essenziale del teatro si trovi ancora nella ricchezza del linguaggio. Una ricchezza ormai surgelata nello stereotipo, consumata dalla replica o vietata dal dogma odierno - di natura commerciale - che professa la parola piana, naturalistica come la cronaca (come se la cronaca non fosse artificio e menzogna), indifferenziata e facile alla lettura distratta. Ronconi non ci sta, con coraggioso “anacronismo” pensa ancora alla parola, e crede in una parola capace di pensare e far pensare. Di qui la sfida: com’è possibile far rivivere sulla scena un’opera così densa come quella gaddiana, che dall’intreccio poliziesco trabocca in un flusso narrativo affollato, almeno in apparenza magmatico, linguisticamente esuberante e stratificato, ritmicamente modulato di toni, timbri e colori vividissimi? Ronconi rispondeva, nel programma di sala, partendo da lontano, parlando di quella che secondo lui è la primaria funzione del teatro: “strumento di conoscenza maturata attraverso l’esperienza.”
Il “giallo” di Gadda, scritto a più riprese dal 1946 al 1957, ha un nucleo drammatico forte: nella Roma fascista del 1927 si consuma un efferato delitto di difficile soluzione. La vittima è una donna benestante e generosa, ossessionata da una mancata maternità che la porta a ripetuti e infelici tentativi di adozione di ragazzine povere e problematiche. Il commissario, dibattuto in intricate situazioni e psicologie, giunge quasi accidentalmente alla rivelazione dell’assassina, ma il finale nella versione definitiva del romanzo (come nella trasposizione di Ronconi) resta sospeso alla sua intuizione. Come diceva lo stesso Gadda, “la narrazione è condotta in modo che i lettori vengano frastornati, non più e non meno degli indagatori”, e “il nodo si scioglie ad un tratto, chiudendo bruscamente il racconto.” Se inizialmente Ronconi pensava di appoggiarsi al trattamento cinematografico (Il palazzo degli orrori) che Gadda realizzò per una committenza poi abortita, abbandonò subito quella mediazione, perché della scrittura gaddiana non era tanto la struttura drammatica a interessarlo, quanto l’esuberanza affabulatoria, l’originale eppure radicatissima visionarietà, intrisa di ironia analitica, l’universo molteplice e aleatorio delle vicende individuali mescolate negli eventi collettivi, la ricchezza del sottotesto. La chiave registica era principalmente una, dalle conseguenze rilevantissime: usare la forza stessa del testo per superare l’opposizione tradizionale tra racconto in terza persona, specifico della scrittura letteraria, e battuta dialogica, specifica della scrittura drammaturgica. Gli attori recitavano la battuta anticipandola e/o commentandola con la descrizione narrativa dei gesti e degli stati d’animo, senza soluzione di continuità tra la prima persona e la terza. L’effetto produceva nello spettatore una dilatazione temporale e psicologica dell’azione e del dialogo. Senza ricorrere allo straniamento brechtiano, Ronconi introduceva nella parola teatrale lo spazio intermittente della riflessione. Questo doppio registro potenziava tanto l’attenzione dell’attore al suo eloquio e al suo gesto, quanto quella dello spettatore al divenire del personaggio. La recitazione era così pilotata in un difficile equilibrio tra la tensione drammatica e l’accentuazione ironica, in uno sfumato chiaroscuro tra interiorità ed espressione (da ricordare in particolare Franco Graziosi nei panni del commissario). La musicalità e i colori - inflessioni e idiomi - la modulazione barocca della lingua gaddiana, asciugate dalla puntuale ironia che l’autore stesso porta nella parola e Ronconi nel tono e nel gesto, emergevano dal testo in una visione e in un ascolto avvolgenti, labirintici e trasfiguranti. Questo flusso narrativo s’inseriva in una scandita geometria scenica, dipinta con luci e colori evocativi della stagione pittorica romana degli anni venti-trenta (con un finale un po’ casoratiano), e abitata dai movimenti quasi coreografici degli attori. Una rigorosa unità ritmica dava una pulsazione costante, in levare, all’evento scenico, con una modalità “cinematografica” (ricorrente in Ronconi) di passaggio dal totale delle scene collettive al primo piano ritagliato dalla luce, ai mutamenti di prospettiva, al montaggio delle sequenze narrative con apparizioni e sparizioni di oggetti e personaggi da botole e trampolini. Di questo maestoso affresco della modernità rimangono nella memoria alcune eclatanti invenzioni teatrali: dalla keatoniana caduta della facciata della “Casa degli o(rro)ri” sui suoi inquilini, alla zombiesca permanenza e vitalità della vittima sulla scena dopo la sua uccisione; dalla splendida invettiva lirica dello Sbandato sul regime, illustrata dalla “danza” delle giovani (e giovini in gonnella) italiane sotto la protezione pater-fallica del busto del Duce, alla trasformazione del commissariato in un bordello.
Sul piano tematico, Ronconi resta fedele a Gadda e rilancia: appare evidente che non c’è soluzione di continuità tra il disperato arrangiarsi del “popolino”, l’avida ipocrisia della borghesia romana e il trionfalismo di cartapesta del regime, che fa da sfondo scenografico ed insieme ne incarna l’essenza culturale. Così lontano dalle domestiche trame eppure così radicato in quei cassetti e armadi dove si nascondono piccoli tesori e grandi meschinità. La stessa colpa della vittima sacrificale, madre idealmente perfetta eppure mancata, si innesta come caustica metafora in un regime dove l’apologia patriottica della fertilità e della proliferazione demografica si giustificava nella vocazione guerrafondaia, nel populismo autoritario e un sogno abortito quanto impotente d’imperiale statura. Fantasmi di ieri, oggi non riproducibili, ma di cui si tenta il revisionismo, e che permangono perciò come inquietanti radici di tentazioni plebiscitarie, di programmatiche ipocrisie, di pruderie totalizzanti ed egemoniche. Di qui il possibile rigurgito d’attualità di certa spietata quanto minuziosa radiografia gaddiana, che Ronconi con il suo allestimento aveva segnalato, con un anticipo che da tempo è una delle sorprendenti caratteristiche delle sue scelte testuali.
Dopo lo straordinario allestimento del Pasticciaccio, Ronconi ritorna alla grande letteratura montando a tempo di record, in poche settimane, sempre sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, una fedelissima edizione teatrale de I fratelli Karamazov di Dostoevskij (nella traduzione per l’Einaudi di Agostino Villa). Impresa che, di nuovo, registra pochi precedenti, il più illustre è quello di Jacques Copeau nel 1911, ripreso più volte da lui stesso e dai suoi collaboratori, fino al grande successo dell’edizione italiana del 1953 con la Compagnia Stabile Teatro di Via Manzoni di Ivo Chiesa e la regia di André Barsacq, protagonisti d’eccezione Memo Benassi (Fedor), Enrico Maria Salerno (Ivan), Gianno Santuccio (Dmitrj), Glauco Mauri (Smerdjakov), Davide Montemurri (Alesa) e Lilla Brignone (Grusen’ka). Meno fortunate furono le due precedenti versioni italiane, del 1934, a cura di Carlo Grabner ed Enrico Raggio, con la Compagnia di Kiki Palmer diretta dal russo Peter Sharoff, e del 1940, voluta da Anton Giulio Bragaglia nel suo Teatro delle Arti, con un testo realizzato da Corrado Alvaro e pur grandi interpreti come Salvo Randone (Dmitrij) e Lina Volonghi (Grusen’ka).
Nella versione di Ronconi, il testamento letterario e l’opera del genio russo si trasformano in un progetto di spettacolo a puntate, sviluppato in tre parti autonome ma consecutive di circa quattro ore ciascuna: I lussuriosi, Il Grande Inquisitore, Un errore giudiziario. In realtà, mentre le prime due parti sono andate in scena nel febbraio del 1998, la terza parte, che doveva seguire la stagione successiva, non è mai stata allestita. La monumentalità dell’impresa questa volta spinge Ronconi a rinunciare alla consueta magnificenza delle scene per concentrarsi sull’arazzo drammaturgico e sulla prova degli attori. Un gioco semplice a vedersi ma molto complesso a farsi (con decine di tecnici che lavoravano febbrilmente nel “sottosuolo” del palcoscenico e dietro le quinte), di dilatazioni e contrazioni spaziali, ottenute con sottili, talvolta trasparenti quinte dipinte, aperture e chiusure di botole, scorrimenti meccanici degli oggetti e degli arredi di scena. Poi improvvise e raffinate citazioni pittoriche, come il cadavere disteso dello Starec Padre Zosima (Antonio Piovanelli) che evoca il Cristo nel sepolcro di Holbein il Giovane o come la raffaellesca madonna contadina (Manuela Mandracchia) della povera famiglia di Nikolai Il’ic Snegirev (Stefano Jacovelli), o ancora, un Cristo enigmatico e muto di memoria tizianesca. Una dimensione pittorica, decadente e livida, che ispira tutte le scene di Margherita Palli e le luci di Sergio Rossi, e che sostiene la parola di Dostoevskij senza anacronistici naturalismi, ma anche senza forzature espressioniste o effetti spettacolari. Come dicevamo, protagonista assoluto rimane il testo, che Ronconi adatta alla scena rispettandone il più possibile la lettera e la struttura, rimescolando soltanto la cronologia degli eventi, in alcune particolari circostanze, ad esempio anticipando all’inizio della seconda parte, come un flash-forward, la morte di Fedor Pavlovic Karamazov (Corrado Pani), per metterla in relazione con la dipartita dello Starec Zosima. Il romanzo, già originariamente concepito a puntate secondo il genere feuilleton, ha uno svolgimento discontinuo che sposta l’attenzione di volta in volta su situazioni e personaggi diversi. Così Ronconi, per mantenersi fedele al testo originale, sceglie di montare lo spettacolo per quadri autonomi, dove i personaggi appaiono e scompaiono, anche per lungo tempo; vivono su binari paralleli che solo ogni tanto s’incrociano, e ritornano perciò ogni volta diversi. Un impegno ulteriore per i protagonisti era perciò quello di riconquistare ogni volta sulla scena il proprio personaggio, oppure, per gli altri attori che interpretavano ciascuno più ruoli minori, di rendere plausibile il nomadismo tra personaggi diversi. Più semplice invece, rispetto a Gadda, è stata la trasposizione teatrale dei dialoghi, perché nel romanzo russo sono già presenti in forma diretta. La grande forza drammaturgica dell’adattamento ronconiano sta qui soprattutto nel privilegiare i confronti diretti tra i personaggi, che si consumano come duetti d’amore e di disperazione (memorabile il dialogo tra i due fratelli Dmitrij-Massimo Popolizio e Alesa-Daniele Salvo nella quinta scena della prima parte, o tra i due fratelli Alesa e Ivan-Giovanni Crippa nella seconda parte, preludio dell’episodio del “Grande Inquisitore”); oppure si rivelano duelli atroci, come quello tra le due rivali Katja-Galatea Ranzi e Grusen’ka-Viola Pornaro nella prima parte. Ronconi esalta il nucleo centrale della poetica dostoevskijana nel sublime episodio metatestuale del “Grande Inquisitore”: la tensione insolvibile tra il bisogno della fede e la lucida disperazione laica, tra vocazione spirituale e natura lussuriosa, tra passione e distruzione, tra amore ed egoismo. I fratelli Karamazov e il loro dissoluto genitore incarnano appunto gli aspetti contraddittori ma indissolubili, sia della singolare personalità e vicenda biografica dello scrittore russo sia dell’universale natura umana, di cui egli fu uno dei più acuti interpreti. Ciò che più, ed ancora, affascina della sua scrittura è la capacità di affrontare i “grandi temi” con uno “stile alto”, conservando la “ferocia” realistica necessaria all’autenticità e all’emozionalità del racconto. È appunto questo che Ronconi cercava sul piano drammaturgico. Lo aveva già detto a proposito della trasposizione di Gadda e con i Karamazov lo ribadisce: spostarsi verso la grande letteratura non significa negare la drammaturgia contemporanea, ma contribuire da una prospettiva registica e con una straordinaria esperienza della scena ad indicare dei modelli per una rigenerazione della scrittura drammaturgica. La quale dovrebbe, nella visione di Ronconi, sforzarsi di uscire tanto dall’attualità della cronaca, quanto dall’asfittico intimismo pseudo-psicologico, come anche dall’astrazione intellettuale e linguistica. Dal Pasticciaccio e dai Karamazov emerge un chiaro modello di rifondazione drammaturgica, che fa indirettamente ma inesorabilmente da specchio critico alla scrittura teatrale attuale, in particolare quella italiana (resa però debolissima dalla mancanza di occasioni e di verifiche produttive), troppo ancorata a moduli ipercodificati, a una lingua fredda, né reale né inventata, lontana dal colore drammatico e poetico del vissuto, insomma imprigionata in un respiro corto dell’idea e del linguaggio.
Nell’equilibrio delle parti della trasposizione teatrale del grande romanzo russo, la prima risultava più serrata e più corale, mentre la seconda appariva più frammentata. La continuità del secondo episodio era sostenuta dalla lacerante sospensione del monaco Alesa, tornato nel mondo “lussurioso” e profano della sua famiglia e della sua comunità su consiglio del padre spirituale Zosima, per svolgervi un’impossibile opera di pacificazione. L’intreccio si coagulava comunque attorno alla struggente metafora del monologo del “Grande Inquisitore”, di fronte a un Cristo ammutolito nel mistero di un suo improbabile e “inopportuno” ritorno, impennandosi infine nei lunghi monologhi del titanico Dmitrij-Popolizio. La terza e conclusiva parte - Un errore giudiziario - già concepita e pubblicata nel programma di sala, non è purtroppo mai giunta alla luce, lasciando sospeso un progetto che meritava di avere altra sorte e maggior respiro, sia nei tempi di elaborazione sia nell’eventuale ripresa delle repliche, per dispiegare delle potenzialità che potevano farne un caposaldo di una rinnovata tradizione teatrale italiana. Per la portata del messaggio dostoevskjano, sintesi premonitrice dei grandi temi del Novecento, e per la qualità dell’operazione di riduzione drammaturgica, I fratelli Karamazov poteva infatti divenire - alla maniera della longeva edizione di Copeau, ma soprattutto nell’impronta dei grandi spettacoli creati da Ronconi nel Laboratorio di Prato degli anni Settanta - una delle piattaforme per traghettare la cultura teatrale italiana verso la dimensione europea del nuovo millennio. La scommessa latente, non senza astuzia e ironia, di Ronconi, nella duplice veste di regista e direttore artistico di un grande teatro italiano, era quella di creare a teatro (fondandosi su una ricchissima tradizione) un secondo livello, più colto, stratificato nei suoi contenuti e formalmente ineccepibile, del feuilleton, intramontabile passione del grande pubblico popolare e borghese, prima soddisfatta dalla letteratura non solo “bassa” ed ora definitivamente involgarita dalle soap-opera e dai “teleromanzi”. Il grande pubblico non frequenta più i teatri e quando ci va lo fa come per vedere una televisione “dal vero”, spesso esclusivamente all’inseguimento dei beniamini comici o mattatoriali del piccolo schermo. Deprimente realtà, forse, ma che il teatro non può più ignorare, pena la sua stessa estinzione. Questa tendenza tuttavia non va letta - secondo lo stesso Ronconi - solo in chiave negativa, ma risponde a un bisogno collettivo di ritrovare la “grande narrazione”, quella che diventa appuntamento collettivo, catarsi e trasfigurazione del nostro quotidiano. I bambini la cercano nei cartoons cibernetici, i ragazzi nelle saghe fantastiche o spaziali e nei computer games, gli adulti nelle soap-opera televisive o nell’epopea spettacolare del cinema americano, ma se il feuilleton contemporaneo fosse scritto da dei Dostoevskij e messo in scena (anche quella televisiva) da dei Ronconi, forse qualcosa potrebbe tornare a muoversi nelle coscienze intorpidite del neonato millennio.

 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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