ateatro 3.3 Per una politica della creatività Una conversazione con Pippo Delbono di Oliviero Ponte di Pino
Questa intervista verrà pubblicata sul prossimo numero di "la porta aperta", la rivista del Teatro di Roma,
in occasione delle repliche romane di Esodo al Teatro Argentina.
Su Pippo Delbono e sul suo teatro, trovi altri materiali sia nel volume Barboni pubblicato da Ubulibri,
sia nel sito, con le interviste realizzate in occasione degli allestimenti
di Guerra
ad Astiteatro e di Her Bijit alla Biennale di Venezia.
Qual è il percorso
che ti ha portato a Esodo? Avevi presentato il materiale
di partenza in Her Bijit, lo spettacolo realizzato a
Venezia, alla Biennale nellautunno del 1999. Che cosa è
successo nel passaggio tra il lavoro presentato allArsenale
e Esodo in palcoscenico?
Si trattava portare quel
mondo sul palcoscenico. Her Bijit aveva una
dimensione itinerante, in cui molto forte era la possibilità di
lavorare su uno spazio per farlo diventare altro. Si è creato un
incontro tra la compagnia, gli zingari, i bambini rom, la
cantante africana e gli extracomunitari che poi sono entrati
nello spettacolo.
Her Bijit è stato
creato allArsenale, dovera in corso la Biennale dArte.
Nel percorso dello spettacolo sincontravano dunque alcune
opere che richiamavano una serie di cose presenti nello
spettacolo.
Per me era uno scivolare
tra cose che erano opere darte e cose che assolutamente non
lo erano. Per esempio a un certo punto gli spettatori passavano
accanto a un distributore di lattine di Coca Cola: non era
sicuramente unopera darte, ma è diventato un segno
forte per lo spettacolo. Altre scene erano fatte negli uffici, unazione
si svolgeva in una nave riadattata, che viene usata come bar dellArsenale.
Per me è stato un lavoro molto importante per quanto riguarda la
relazione allo spazio e la dimensione itinerante: era quasi
portare il pubblico in processione.
Her Bijit era anche
uno spettacolo politicamente molto esplicito, rispetto ad altri
tuoi lavori.
Non ho mai fatto
politica e non ho mai voluto vedere la realtà in termini
ideologici. Essere artisti significa essere trapassati dalla vita
che ti scorre accanto - e senti continuamente violenza e
ingiustizia. Ma in quel un momento avevo bisogno di dire alcune
cose. Forse sono un po masochista, perché mi piace
buttarmi a capofitto nelle situazioni di povertà, e anche di
dolore. E a quel punto avverto un bisogno di chiarezza, il
desiderio di non avere pudore di dire, di superare quella
timidezza un po "da artisti". Non voglio dire
semplicemente: "Questo è bianco, quello è nero",
perché non voglio essere retorico. La parola certe volte è
bella, ma in altri casi diventa una gabbia. Tra le parole che
dicevo a Venezia, era interessante scoprire che alcune fossero di
Pasolini o del Buddha. A un certo punto dico: "Noi non
vogliamo essere salvati, noi non chiediamo la vostra pietà":
sembrava Che Guevara ma era Buddha.
Nel dire le cose così
come sono, senza mediazioni, non corri il rischio di perdere la
dimensione artistica? A quel punto non conviene fare direttamente
politica?
Non sono mai stato un
grande amante del teatro, non mi interessa un certo tipo di
narrazione e di rappresentazione. Le mie passioni sono la
fotografia, la pittura, la musica e anche le parole. E quando
dico "la danza e anche le parole" voglio dire questo:
se faccio un comizio politico e mi metto in cima a una tribuna e
dico "Non dobbiamo fare così!", questo è un comizio.
Se invece in queste parole ci sono dei colori, dei tempi, delle
danze, dei ritmi, delle fotografie, delle immagini, dei suoni,
quelle parole forse sono "politiche", ma in qualche
modo dialogano con tutto il resto.
Con una parte degli
spettatori questa comunicazione diretta passava immediatamente.
Un certo tipo di pubblico preferisce uno spettacolo più chiaro
ed esplicito rispetto a uno più sottilmente metaforico.
Mi hanno scritto molte
lettere: donne, giovani... Per altri spettacoli non ne avevo mai
ricevute così tante. Alcuni critici invece hanno avuto maggiori
perplessità. Mi sono chiesto perché certe persone vogliano
questa chiarezza, che invece ad altre dà fastidio. Secondo me
viviamo in una cultura che ama molto fare metafora sulla guerra,
sulla malattia, sullAids, sulle dittature, sui mali del
mondo. Però questa stessa cultura quei mali non li ha sulla
pelle. Allora secondo me cè il rischio di diventare un po
chic. Perché quando vai nei posti dove la guerra cè
davvero, oppure cè stata, non incontri quella paura di
dire le cose; cè piuttosto la voglia di essere
retoricamente felici, di cercare retoricamente una felicità, una
gioia. Mi sarebbe piaciuto moltissimo andare a fare Her Bijit in
Sudamerica, volevo capire che tipo di reazione potesse avere la
gente di là, o la gente di Sarajevo, insomma persone che hanno
vissuto certe situazioni, un po come è successo quando
abbiamo fatto Esodo a Siena, dove tra gli spettatori cerano
molti argentini che la dittatura lhanno vissuta sulla loro
pelle.
A questo punto è il
caso di seguire il passaggio tra Her Bijit e Esodo.
E successo che Esodo
è diventato uno spettacolo.
Cioè richiuso in un
palcoscenico.
A quel punto è iniziata
ad intervenire più chiaramente una dimensione narrativa. Per me
è sempre più importante che niente sia lasciato al caso, le
cose che avvengono in scena devono essere significative. Non
voglio certo dire: "Con questa immagine ti do questo
messaggio", voglio costruire un dramma con la danza, un
racconto fatto di parole, musica, immagine. In Esodo,
rispetto a Her Bijit, ho avuto la necessità di togliere
molte parole, adesso ce ne sono sempre meno, perché spesso il
racconto passa attraverso le immagini. Alla fine questo porta a
reazioni curiosamente opposte: sono tutti daccordo, in Esodo
ci sono immagini visivamente molto belle, ma per qualcuno le
parole sono state vissute come eccessivamente politiche: "Non
è il caso di dire certe cose, non ne possiamo più di Olocausto,
non ne possiamo più di farci colpevolizzare da Delbono".
Altri invece hanno messo laccento proprio su quelle parole.
Qualcuno ha detto: "Perché dire le parole?", qualcun
altro: "E fondamentale dire certe parole". Per
alcuni spettatori è importantissimo che vengano date anche le
parole, anche parole semplici. Così è possibile portarli per
mano attraverso un percorso che comunque non è facile. E poi mi
chiedo: "Perché cè questa paura di dire? Perché non
vogliamo saperne più di Olocausto?" Credo che per le
casalinghe di Prato o di Ferrara le parole siano fondamentali,
che offrano un momento di riflessione. Allinizio di Esodo
leggo un brano di Brecht: "Torturano i nostri fratelli e noi
non facciamo niente, lui ruggisce dal dolore ma noi rimaniamo in
silenzio, prendono la prossima preda e noi diciamo: a noi non
faranno niente, intanto noi siamo fermi, se lingiustizia
trionfa in città che scoppi la rivolta, se non scoppia che la
città intera sia consumata nel fuoco prima che arrivi la notte..."
Sono parole dure, sicuramente, ma è importante anche il modo in
cui vengono dette. Quel brano di Brecht viene dopo lapparizione
di una attrice in rosso e di un grande applauso: quella donna ha
uneleganza, una qualità, sembra un po persa nel suo
mondo. Il mio è un tono quasi da presentatore. Così si crea un
contrasto interessante. Io non mi metto dalla parte di quello
buono, di quello che sente di aver capito e di avere il diritto
di dire agli altri delle cose. Queste parole le prendo da autori
di cui ho grande rispetto, e direi amore, come Brecht, Pasolini o
Primo Levi. Le parole che scrivo io sono molto più mediate.
Ma da questi autori
scegli brani molto diretti ed espliciti.
Sì, ma queste persone
si sono fatte forza proprio del loro essere così diretti. Il
teatro di Brecht ha avuto forza anche perché è stato così
diretto. Brecht parlava nei suoi testi con grande chiarezza,
viveva in un tempo di lotta. In questo brano di Madre Coraggio
questa chiarezza diventa un luogo di verità. Oggi il famoso
straniamento brechtiano consiste nel provare a superare una
convenzione, rompendo ogni schema teatrale, senza usarlo in una
maniera che è diventata ormai chic. Cè bisogno di
riportare lo straniamento brechtiano alla nostra situazione
attuale, quando tutto - teatro, cinema, televisione, politica -
prende una brutta dimensione di finzione.
Ma dovè che il
teatro può trovare la sua verità e la sua semplicità, in un
mondo dove i media fabbricano continuamente finzione?
A volte nel modo di
essere attore. Sono andato a vedere uno spettacolo di tradizione:
il regista aveva una sua poesia, un suo occhio, però non capivo
quel modo di recitare, oltre al fatto che il pubblico teatrale va
a spettacoli di quel tipo per sentirsi acquietato con la propria
dimensione culturale. Insomma, ammiro tantissimo il fatto che lattore
abbia trovato sette modi diversi, sette piccoli toni, per dire:
"Signorina, apriamo la porta". Ho un grande rispetto
per un lavoro così preciso, però dopo un po mi allontano.
Mi sembra che a lungo andare il lavoro dellattore diventi
solo quello, se tu non hai un tramite diretto con il tuo cuore. E
vero, gli attori che hanno una certa bravura riescono a
superare la tecnica e a comunicare altro ma non sono tanti.
Esodo inizia con un ragazzino, Fadel, che entra in scena e
dice: "Nel mio paese ci sono tante stelle, nel mio paese la
luna è la luce della notte, nel mio paese cè un grande
silenzio...". Per formazione io sto molto attento alla voce,
ho approfondito molto il lavoro sulla voce, dei toni, dei ritmi,
dei suoni delle parole. Se sostituissi al tono di Fadel quello di
un attore, il risultato sarebbe, anche dal punto di vista della
tradizione, pessimo. Uno dei primi trucchi che si insegnano
quando si lavora sulla voce, consiste nel sostituire alle parole
una cantilena...
Perché se dici le
cose così come sono prendi un ritmo molto monotono, e la
tradizione ti insegna in qualche modo a spezzarlo.
E già un segno.
Una scelta. Io avrei potuto mettermi a lavorare in questo modo
con Fadel, ma non lo farei mai, perché nella sua cantilena,
nella semplicità e nellovvietà di questa cantilena
secondo me cè una verità profonda.
Diciamo che è una
qualità che viene dalla naturalezza. Ma non cè il rischio
che a furia di ripeterla questa naturalezza si perda?
Non è naturalezza, è
un altro modo di costruire una professionalità. Sarebbe
naturalezza se Fadel dicesse questo testo così come viene, ma
non credo che in teatro sia interessante la naturalezza. Io non
parlo di naturalezza, è giusto che a un certo punto Fadel fissi
quella cantilena, in modo che rimanga. Quella è la sua cantilena.
A un certo punto lattore prende consapevolezza, diventa
osservatore di sé stesso. Io fisso la qualità dei miei
attori: la qualità della loro voce, dei loro suoni, dei loro
gesti, che siano belli o brutti; poi loro ne diventano coscienti
e allora devono essere in grado di ripetersi. A quel punto la
coscienza di Fadel, pur non essendo un attore, è dettata da
questa qualità: quando entra sulla scena, ha un ritmo, ha un
tempo, ha una pausa, ha uno stop, ha un guardare, ha un colore
della voce che è la sua cantilena, ha un altro stop, ha un
girarsi, un guardare con gli occhi, ha un camminare dentro questi
ruderi con questo zoppichio... Segue un percorso totalmente
consapevole, che può ripetere, e che non si è irrigidito in una
maniera, in uno stile. In questa coscienza sta la professionalità
dei miei attori.
Io credo che questo
lavoro con gli attori abbia a che vedere con la natura del tuo
teatro e con la tua idea di attore. Ma volevo capire meglio.
Quando dici: "Io fisso la qualità", vuol dire
che vai a ricercare delle persone che hanno determinate qualità?
Il tuo compito consiste nellindividuarle, nel rendere gli
interessati consapevoli di questa loro qualità teatrale e nel
fissarla insieme?
E incredibile
scoprire che tutti hanno dentro di sé la possibilità di essere
artisti, un bauletto carico di luce, energia. Il buddismo dice
che ogni persona possiede i dieci mondi, dallinferno alla
buddità. Non bisogna necessariamente venire dal deserto del
Sahara, come Fadel, dal quarantanni di manicomio come Bobò,
dalla strada come Nelson. Magari questo bauletto ci mette molto
ad aprirsi, perché è necessario trovare la strada per far
uscire fuori le specificità di ciascuno.
Quando dici "tutti
noi", intendi qualunque persona, che sia attore o meno?
Questo bauletto ce labbiamo
dentro tutti. Però non posso incontrare tutti quanti per poi
farli recitare.
In effetti, nei tuoi
spettacoli non recita chiunque, i tuoi attori sono persone molto
particolari.
In realtà nellultimo
spettacolo cè stata una grande apertura. Nel Silenzio,
realizzato nellestate del 2000 sulle rovine di Gibellina, cerano
persone che provenivano da storie molto diverse. Tanto per
cominciare i miei attori...
...per esempio Lucia,
Gustavo e Simone, che sono attori con un percorso di formazione
canonico e con una certa esperienza di palcoscenico.
...cerano poi
quelli che lavorano con me da diversi anni, per esempio Bobò,
Nelson o Gianluca.
Dunque in qualche
modo "non attori" nei quali hai scoperto certe qualità...
...e che di fatto sono
ormai diventati dei professionisti, anche se non hanno seguito il
normale training degli attori. Poi cerano quelli che
avevano seguito i nostri seminari e avevano chiesto di venire a
Gibellina per collaborare a questo progetto.
E lultima
categoria?
Era formata da gente che
non avevo mai visto. Loro conoscevano me e i miei spettacoli ma
io non li conoscevo, magari li avevo incontrati per cinque minuti
dopo uno spettacolo.
A queste persone
avevi dei fatto provini?
No, assolutamente, però
erano motivate a lavorare con me. Una o due di loro si sono perse
per strada: forse erano venute in Sicilia sperando di fare un
altro seminario, con lansia di venire a imparare, mentre cera
un clima di gran confusione, di gran gioco. Ma quelli che sono
rimasti alla fine si sono resi disponibili ad aiutare, per
esempio vestire gli attori, occuparsi degli oggetti di scena.
Alla fine li ho messi tutti dentro lo spettacolo, e non per fare
loro un piacere o per dar loro una gratificazione, ma perché
ognuno di loro ha trovato una cosa, magari piccola, che secondo
me cera davvero. E quella piccola cosa era da
professionista. Per esempio cera una ragazza alta, che non
avevo mai vista né conosciuta. A un certo punto nel Silenzio entra,
è un po elegante, vestita di rosso, si sdraia a terra, fa
la morta e se umilmente ne va. Secondo me in quel piccolo gesto
è veramente giusta. Certo, non posso metterla a fare un monologo,
ma nel Silenzio fa quella cosa e in quel momento è
professionale. E cresciuta. E successa la stessa cosa
in Francia, quando ho fatto un seminario per i disoccupati e per
gente che proveniva da situazioni molto marginali. Non erano
attori, ma in ciascuno di loro sono riuscito a trovare qualcosa
in cui erano unici.
Dopo Barboni,
la natura della compagnia è cambiata, al di là del fatto che ci
sono persone in più o in meno?
Siamo più aperti. Sono
ormai lontani i momenti in cui rischiavamo di finire nel filone
"teatro-handicap". Ci siamo aperti a tante esperienze.
Era la mia idea di fondo: un teatro che portasse in scena vite
diverse non solo vite emarginate, ma comunque vite, vite...
E questo è successo: persone come Bobò, Nelson o Gianluca hanno
acquistato una diversa coscienza. Sicuramente gli è cambiata la
vita, non vivono più nei manicomi né per le strade, e questo mi
fa piacere. Ma hanno anche una grande consapevolezza del loro
essere in scena: quando ho visto nelle prove Bobò costruirsi la
partitura del reggae e rifarla, mi sono commosso. Quando lho
conosciuto nel manicomio di Aversa, questo ometto era una larva.
Adesso vederlo lì, nella terza fase del lavoro, è stato
emozionante.
Che cosa vuol dire
"nella terza fase"?
Allinizio
improvvisi ed è divertente. Nella seconda fase devi fissare
quello che hai improvvisato, perché ogni spettacolo è una
costruzione, un montaggio di tante piccole azioni, e le azioni
che io scelgo dalle improvvisazioni lattore poi le deve
fissare, in modo da poterle ripetere sempre uguali. Questa
seconda fase è noiosa, ma se non la superi non arrivi alla terza,
quando allinterno della partitura ritrovi la vita originale,
come quando in una partitura di Bach ritrovi lanima. Bobò
è nella terza fase del lavoro, ha capito questo gioco, come deve
fissarsi le cose, e poi ritrovare la stessa identica vita del
momento in cui aveva improvvisato. Anche il signor Nelson è
diventato di una precisione incredibile.
Esodo è molto
giocato intorno a Nelson.
Nelson passa da figure
comiche come il presentatore che fa da filo conduttore allo
spettacolo, a figure melanconiche, ad anime violente quando grida
con il megafono, o quando vola con questo corpo scheletrito.
Mette in mostra tanti aspetti diversi, e insieme è
incredibilmente preciso sul tempo, sulle pause. Tocca spesso a
lui il compito di tenere le giunture tra una scena e laltra:
ha sempre lo stesso passo, lo stesso modo di muoversi, gli stessi
stop. Sembra che a un certo punto si dica: "Beh, adesso mi
alzo...", e invece si alza sempre nello stesso identico
momento e nello stesso modo, con lenergia di chi ha deciso
di farlo in quel momento. Le sue azioni, pur nella ripetizione,
hanno sempre la stessa intensità di quando le ha fatte per la
prima volta, e in questo cè una grossa sapienza. E
in questo che secondo me Nelson è cresciuto come attore. Ora
posso dire che il mio metodo di lavoro funziona anche con queste
persone. Certo, se pretendessi che di far parlare Nelson con un
tono di un certo tipo, probabilmente sarebbe un attore mediocre,
non ci riuscirebbe. Ma invece, cercando di fare luce sui suoi
toni e sulle sue qualità, cercando di farlo diventare
consapevole di queste sue qualità, che non sono mie imposizioni,
avvengono alcune cose interessanti. Tanto per cominciare,
teatralmente Esodo si è fissato in una partitura sempre
uguale. Certo, come sempre cè la replica che va un po
meglio e quella che va un po peggio, però nellinsieme
lo spettacolo è sempre quello, così come era successo con Guerra,
che ho fatto tantissime volte ed è diventato ormai un rituale
precisissimo. Questo secondo me è quello che è cambiato. Anche
se non siamo certo una compagnia che va al debutto con uno
spettacolo fatto e finito ma neanche lo voglio.
Dopo il debutto i
tuoi spettacoli crescono e continuano a evolvere.
Sì, anche perché
continuiamo a ripresentarli tutti.
E anche una
compagnia di repertorio.
In tre mesi, tra
novembre e gennaio, abbiamo fatto sette spettacoli: Il tempo
degli assassini, Enrico V, La rabbia, Barboni
in Francia, Guerra, Il silenzio, Esodo.
Quando vuoi criticare
quello che fanno gli altri, dici "E diventato chic".
Non cè il rischio che anche la compagnia di Pippo Delbono
diventi in qualche modo chic?
Sì, questo rischio cè.
Ma è un rischio che
hai già sperimentato e al quale hai cercato di porre rimedio?
Oppure il problema non si è ancora posto?
Chic non è un giudizio.
Per me vuol dire fermarsi a una maniera. Io lotto contro questo
pericolo. So che corro questo rischio, e dunque amo mettermi in
situazioni dove non cè certezza, ricominciare. La mia
compagnia è sempre aperta, non mi sono seduto. Mi piace
rimettermi in discussione, di recente ho ripreso a suonare il
violino, sono sette mesi che lo faccio, non riesco ancora a fare
ancora una scala ma insisto. Mi metto sempre e comunque in un
atteggiamento di ricerca, come se ricominciassi ogni volta dallinizio.
Forse questa potrebbe essere una cosa che non ti fa mai diventare
chic, rimettersi un po in discussione su tutto.
Si ringrazia per la
trascrizione Anita Morasso.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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