ateatro 27.1
Per farla finita con il nome del padre
Alcuni appigli per scalare la Socìetas Raffaello Sanzio dopo vent'anni di spettacoli
di Oliviero Ponte di Pino
 

“30 ottobre 1921  
La sensazione della più completa impotenza.  
Cosa ti lega a questi corpi dai nettissimi contorni, a questi corpi parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualsiasi altra cosa, per esempio al portapenna nella tua mano? Forse il fatto che appartieni alla loro specie? Ma tu non appartieni alla loro specie, per questo hai posto la domanda.”  
(Franz Kafka, Diario)  
 
Nella prima parte di Genesi, Dio raccoglie da terra “un piccolo e luccicante nastro nero”. Compare un registratore, Dio cerca di far suonare il nastro: “Ma è una voce persa, distorta, che non restituisce più il significato delle parole, ma solo il suo rumore meccanico racchiuso nell’orrore della cosa”. (Epopea della polvere, p. 232)  
 
Da vent’anni la Societas Raffaello Sanzio lavora alla disarticolazione e al disvelamento della forma del teatro e dunque della rappresentazione. Spettacolo dopo spettacolo, opera una puntigliosa destabilizzazione del senso - e dunque della forma del potere - nel costante tentativo di restituire vita al simbolo. Sulla scia di Artaud e della sua denuncia di una irrimediabile scissione tra pensiero e parola, sperimenta ostinatamente la potenza organica della liturgia e del mito, contrapponendosi alla dicotomia tra significante e significato che caratterizza la retorica novecentesca.  
E’ un teatro della malattia e della catastrofe, del segno che sfregia il corpo e del corpo sfregiato. Subisce il fascino del non-umano - l’animale, la macchina e il pupazzo, l’ottusamente biologico e la trasformazione alchemica - e forse dall’eco di una perduta pienezza vitale. In questa ricerca, condotta con ostinata radicalità, il gruppo di Cesena si è da tempo affermato a livello internazionale e costituisce oggi un punto di riferimento per molte realtà teatrali più giovani.  
Oltre che all’elaborazione degli spettacoli, il gruppo dedica particolare attenzione all’aspetto teorico del proprio lavoro, con ampie e puntigliose dichiarazioni di poetica; e alla documentazione del proprio percorso (mentre la critica si è raramente dimostrata all’altezza del lavoro scenico e dell’elaborazione teorica del gruppo).  
Nel nuovo libro firmato da Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Claudia Castellucci, Epopea della polvere (Ubulibri, Milano, 2001, 328 pp., 55 illustrazioni, con una postfazione di Franco Quadri, euro 20,40), colpisce innanzitutto la meticolosa trascrizione dei cinque memorabili spettacoli realizzati dal 1992 al 1999, Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare e Genesi. Nella loro complessa e raffinata scrittura scenica (dove la parola viene più incarnata dal corpo e dal gesto dell’attore che effettivamente pronunciata sulla scena), questi lavori paiono refrattari a ogni trascrizione, per quanto accurata. Il testo - l’elemento cui il teatro affida da sempre la propria tradizione e nobilitazione, e che in questi spettacoli sopravvive invece solo come traccia, al termine di un processo di cancellazione, di scarnificazione, quasi di usura - è solo uno dei molti elementi che concorrono all’evento teatrale. Si addensa piuttosto una densa partitura di segni, gesti, eventi, suoni, rumori, articolata spesso lungo costanti contrappunti e attraverso filtri ironici e parodistici rispetto a un testo che quasi non esiste più, ma che resta il costante punto di riferimento di un’interpretazione puntigliosa, di impeccabile filologia ancorché spesso volutamente perversa.  
Il problema della trascrizione di spettacoli di questo genere non è ovviamente nuovo, anzi, a partire dall’epoca del Living Theatre e del “teatro immagine” è un problema che si ripropone costantemente per tutto il teatro d’avanguardia degli ultimi decenni. E’ dunque interessante vedere come la Societas Raffaello Sanzio abbia affrontato il problema, anche perché le cinque “spettacolografie” di Romeo Castellucci sono il frutto di un notevole sforzo di chiarificazione intellettuale.  
A una lettura superficiale queste trascrizioni costituiscono di una sorta di verbale: la descrizione il più possibile “oggettiva” di quel che accade in scena. Come se uno spettatore attento e puntiglioso avesse voluto offrire una registrazione distaccata, quasi da école du regard, del flusso di immagini e suoni che costituiscono lo spettacolo. Persino le pause vengono cronometrate: “In questa posizione rimane immobile per circa cinque minuti (...) Dopo un altro minuto fa una smorfia (...) della durata di un decimo di secondo” (Epopea della polvere, p. 30).  
Tuttavia non mancano le notazioni tecniche: per esempio, “una lampadina accesa da 12 volt” (Epopea della polvere, p. 16). In altri casi vengono sottolineate le intenzioni dei personaggi , e a volte addirittura segnalate (o ipotizzate) le reazioni del pubblico. E spesso, nella apparente neutralità della descrizione, s’infiltra l’intenzionalità del regista: “Abbiamo visto che finora tutti i colpi di Amleto partono senza alcuna mira e dunque senza preavviso; e, si direbbe, senza nessuno scopo se non quello di provocare un’esplosione” (Epopea della polvere, p. 26). Vengono a volte spiegate le ragioni della scelta di un determinato segno, oppure la sua genealogia culturale (vedi più avanti l’analisi dei segni che compaiono sulla schiena di Cicerone nel Giulio Cesare).  
Queste “trascrizioni” chiudono un cerchio alchemico: dai testi originari allo spettacolo alla sedimentazione di questo nuovo testo. Potrebbe essere interessante chiedersi se, utilizzando la scrittura di Romeo Castellucci come una sorta di partitura, sarà possibile un giorno riallestire questi “testi”. Anche se, come vedremo affrontando il problema della tradizione, l’operazione in sé contraddirebbe la poetica praticata dal gruppo nella realizzazione di questi lavori.  
Ma di certo, davanti a creazioni di pulsante densità segnica la lettura di queste “spettacolografie” può risultare chiarificatrice rispetto alla visione degli spettacoli - anche se ormai la pagina si è svuotata di tensione emotiva, di sensazioni tattili, di quella proiezione e rispecchiamento dello spettatore nelle creature che popolano la scena, che siano esseri umani o animali.  
 
 
Le tre età della Societas Raffaello Sanzio  
 
E’ la stessa Societas Raffaello Sanzio a dividere implicitamente la propria attività in tre fasi, scandite dalle pubblicazioni del gruppo. Nella bibliografia, questo Epopea della polvere è preceduto infatti da Il teatro della Societas Raffaello Sanzio. Dal teatro iconoclasta alla super-icona, a firma di Claudia e Romeo Castellucci (Ubulibri, Milano, 1992, 192 pp., da ora in poi Il teatro della Societas Raffaello Sanzio), che raccoglie testi e materiali di quattro drammi, Santa Sofia, I miserabili, La discesa di Inanna e Gilgamesh.  
La prima fase - quella gli inizi, che precede questi quattro spettacoli arrivando fino alla metà degli anni Ottanta - la potremmo definire scanzonatamente postmoderna, con spettacoli costruiti per contaminazioni di segni e linguaggi e l’azzeramento di categorie e gerarchie culturali ormai obsolete. L’obiettivo è la rivitalizzazione della forma teatro e in generale della comunicazione, attingendo a segni e grammatiche rubati a forme più “moderne”: tra tutte, il fumetto e la sua sintassi, come notavano all’epoca diversi osservatori: ma anche il fumetto come successione di immagini statiche rispetto alla fluidità di cinema e televisione.  
Il principio costruttivo è quello del bricolage, così come era stato teorizzato da Claude Lévi-Strauss. Alcune citazioni dal Pensiero selvaggio (Il Saggiatore, Milano, 1964, 1979; queste citazioni erano state già riprese a suo tempo nel mio saggio “PostModerno”, il Patalogo cinque/sei;, Ubulibri, Milano, 1983, al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti) possono illustrare questo metodo compositivo:  
 
“I materiali del bricoleur sono elementi che si possono definire in base a un duplice criterio: sono serviti, quali termini di un discorso che la riflessione mitica smonta come il bricoleur smonta come una vecchia sveglia; e possono ancora servire per il medesimo uso, o per un uso differente se appena si modifica il loro primitivo funzionamento.”  
 
“Per quanto infervorato, il suo modo di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte possibili che può offrire al problema che gli viene posto.”  
 
“Se si tiene conto della ricchezza e della varietà del materiale bruto da cui solo alcuni elementi, tra i tanti possibili, sono usati dal sistema, non c’è dubbio che un considerevole numero di sistemi dello stesso tipo avrebbero offerto una uguale coerenza e che nessuno di essi è predestinato a essere scelto (...) Il significato dei termini non è mai intrinseco, ma soltanto di posizione, ossia è una funzione della storia e del contesto culturale e, insieme, della struttura del sistema in cui esse compaiono.”  
 
Di fronte all’irrimediabile svuotamento delle forme della rappresentazione, il tentativo è quello di contrastare la perdita di senso con innesti e accostamenti dai quali far scaturire nuove possibilità di significato, attraverso una retorica fatta di analogie, accostamenti imprevisti, contrapposizioni stranianti, contrasti... Questo atteggiamento sottende fino a oggi l’intero lavoro del gruppo:  
 
“Credo che questo sia un teatro in cui la dialettica non ha luogo (...) Solo una contrapposizione di tipo chimico può scatenare delle reazioni che escono dal controllo. Queste reazioni possono scatenare il caso, la casualità. La casualità è un elemento fondamentale in ogni problema della bellezza. Lasciarsi sorprendere.” (Epopea della polvere, p. 271)  
 
A consentire questa stratificazione di segni è uno sguardo fondamentalmente ironico sulla realtà e sui dati culturali. Questa ironia nei primi spettacoli della Societas Raffaello Sanzio viene portata fino alle estreme conseguenze, al limite della parodia: quei lavori erano ricchi di episodi decisamente divertenti, se appena ci si abbandonava al loro gioco. Basti pensare all’incontro tra Giotto e Cimabue nei Fuoriclasse della bontà (1983).  
Ma ben presto ogni sovraccarico di segni finisce per girare a vuoto, avvitandosi vorticosamente su se stesso: il rischio è quello dell’appiattimento di ogni gerarchia, dove perciò tutte le associazioni sono legittime, e lo sbocco è la deriva infinita e gratuita del senso... Al dilemma fondamentale del postmoderno, la Societas Raffaello Sanzio trova due soluzioni paradossali, oltre al rigore estetico e alla scoppiettante energia che contrassegnano gli esordi. La prima soluzione (proclamata in Kaputt Nekropolis, 1984) è l’invenzione di una lingua perfetta e assolutamente significante, la Generalissima, in grado di comunicare qualunque senso con un vocabolario che viene progressivamente ridotto a sole quattro parole (per la cronaca, le quattro parole sono agone, apotema, meteora e blok, “immense ma univoche”, Il teatro iconoclasta, p. 93). La seconda è il rifiuto della rappresentazione e la scelta dell’iconoclastia, teorizzata e praticata in Santa Sofia. Teatro Khmer (1986), che segna la nascita della nuova Religione Columna (e accosta sulla scena il dittatore comunista cambogiano Pol Pot a Leone III Isaurico, l’imperatore iconoclasta di Bisanzio). Sul manifesto consegnato agli spettatori prima dello spettacolo si legge:  
 
“Questo è il teatro che rifiuta la rappresentazione (...) Questo è il teatro della nuova religione: perciò vieni tu che desideri essere seguace delle colonne dell’Irreale. Il reale lo conosciamo, e ci ha delusi fin dall’età di anni quattro. (...) Ma non credere che sia il surrealismo la chiave del problema; la chiave surrealista è completamente sbagliata, nel suo inconscio conservatorismo rielaborato. Questo è il teatro iconoclasta: si tratta di abbattere ogni immagine per aderire alla sola fondamentale realtà: l’Irreale anti-cosmico, tutto l’insieme delle cose non pensate.” (Il teatro della Societas Raffaello Sanzio, p. 9)  
 
La nuova lingua e la nuova religione sono due soluzioni che dovrebbero implicare una negazione del teatro ma che vengono condotte proprio sulla scena, in forma di spettacolo: negano il teatro, e al tempo stesso lo ritengono indispensabile - tanto da utilizzarlo come passaggio obbligato verso un recupero del senso. Dietro questo apparente paradosso si nasconde una verità insieme banale e profonda: il teatro è l’arte che usa gli strumenti della realtà - i corpi, gli oggetti, la materia - per trasformarla. Proprio per questo la Societas Raffaello Sanzio rifiuta fin dall’inizio ogni forma di superficiale realismo a favore di una “superrealtà”. Perché sulla scena può materializzarsi quella superrealtà “che ti può cambiare la vita”: si rivendica così al teatro una dimensione decisamente politica, che rischia però di coincidere - se questa funzione viene effettivamente svolta fino in fondo - con lo svuotamento e la disintegrazione del teatro stesso. E’ una apocalisse del teatro che si rispecchia in quella che è, per Societas Raffaello Sanzio, la sua origine:  
 
“Il nostro teatro è la risposta incoerente rispetto a un vero e proprio blocco morale - nei confronti del teatro stesso - di origine platonica, perciò si può dire che esso può esistere e si esalta solo là dove viene impedito.” (Epopea della polvere, p. 286)  
 
Intanto però nella loro provocatoria inventiva queste due utopie burlesche - la neo-lingua Generalissima e la neo-religione Columna - imboccano altrettanti vicoli ciechi. Pongono il paradosso, ma non possono risolverlo, se non ironicamente, tangenzialmente, lungo una via di fuga parodistica. Nella parabola del gruppo, sono due scacchi, che aprono a una nuova ricerca: risalire all’indietro, sempre più indietro, fino a trovare il punto in cui la rappresentazione e il suo significato, la parola e la cosa, erano ancora un tutt’uno - indiviso e immediatamente comunicante, efficace (peraltro l’opzione del “ritorno alle origini” ha, nella storia del pensiero occidentale, numerosi precedenti).  
Questa unità si può ritrovare, ipotizza la Societas Raffaello Sanzio, nel simbolo. Così nella seconda fase, con La discesa di Inanna (1989), l’interesse si rivolge alle grandi narrazioni dell’antico oriente mesopotamico, alle fonti del rito e del mito dell’Occidente. Si tratta di recuperare e rimettere in circolazione simboli elementari e profondi, all’origine del nostro immaginario, che possano avere efficacia sulla realtà (almeno sull’interiorità dello spettatore), come una magia o una peste. Come se in quelle antiche narrazioni, ancora vicine agli impulsi primari, si potesse trovare la linfa necessaria per ridare al teatro la potenza perduta. Questa fase culmina, dal punto di vista estetico, nel terribile Gilgamesh (1990), spettacolo-rito tenebroso e inquietante, una sincera invocazione alle antiche divinità. Ma l’esperienza di Gilgamesh costituisce un punto limite, oltre il quale è difficile andare - se non forse abbandonando il teatro per una dimensione esplicitamente sciamanica.  
Che si tratti di un nuovo vicolo cieco lo dimostra il ridotto impatto dello spettacolo successivo, Iside e Osiride (1990), dove la potenza numinosa del mito si trova ridotta a pura coreografia. Tra l’altro questa fase coincide, non a caso, con il momento di massima difficoltà della compagnia, anche nei suoi rapporti con le istituzioni teatrali dell’Italietta: lo scandaloso Gilgamesh segna la rottura con il punto di riferimento milanese, il Crt; la conseguenza sarà, nel giro di un paio d’anni, una scandalosa esclusione dalle sovvenzioni ministeriali, a cui la Societas Raffaello Sanzio reagirà con una provocatoria “Festa plebea”.  
E’ un secondo scacco, ma ancora una volta ricco di insegnamenti. Ritornare agli inizi per ritrovare la potenza originaria del rito non ha risolto il problema, se non temporaneamente, con spettacoli dalla tensione estetica difficilmente ripetibile. Tuttavia ha permesso di misurare la forza del simbolo, che ancora può agire attraverso il mito, e ha fornito i primi elementi di una possibile grammatica. Ed è con questa grammatica - ma assumendo su di sé questo scacco totale, attraverso un azzeramento radicale e assoluto di cui si fa testimone un Amleto autistico - che la Societas Raffaello Sanzio si misura con quella che potrebbe (o dovrebbe) essere la nostra mitologia contemporanea. Sono miti che forse hanno perso la loro efficacia, e sopravvivono solo come vestigia culturali: e tuttavia hanno plasmato il nostro immaginario, e mantengono una forza sotterranea con cui è possibile scontrarsi, attraverso riletture di radicale provocazione.  
Come ha insegnato l’autore de Il crudo e il cotto, il senso del mito si costruisce per differenze e per opposizioni di significato:  
 
“Le logiche pratico-teoriche che regolano la vita e il pensiero delle cosiddette società primitive sono mosse dall’esigenza di scarti differenziali (...) Il principio logico è di poter sempre opporre dei termini, che un impoverimento preliminare della totalità empirica permette di concepire come distinti.” (Il pensiero selvaggio, cit.)  
 
La Societas Raffaello Sanzio applica questo principio oppositivo in maniera sistematica, con venature nichilistiche:  
 
“Ogni figura sa di essere minata al proprio interno o di essere foriera della propria scomparsa definitiva.” (Epopea della polvere, p. 85)  
 
Così la terza fase del lavoro della Societas Raffaello Sanzio, quella documentata da Epopea della polvere, consiste nel confronto-riscrittura con cinque testi chiave (probabilmente i cinque testi-chiave, dal punto di vista del gruppo) della tradizione occidentale, in una sistematica opera di azzeramento e reinvenzione.  
 
 
L’animale cancella l’arte  
 
Una svolta fondamentale, di cui si erano già avute le avvisaglie in precedenza: i soci fondatori della compagnia praticamente non appaiono più in scena in ruoli centrali, e sempre più spesso vengono scritturati attori esterni alla compagnia, in base alle necessità dei singoli progetti. Non è solo una più precisa divisione del lavoro (con Romeo Castellucci in veste di autore e regista), quanto soprattutto la scelta è quella di “oggettivare” il lavoro, rifiutando ogni prospettiva psicologica, qualunque tentazione autobiografico-generazionale, qualsiasi la deriva lirica - cui viene peraltro riservato uno spazio specifico, vedi La mistica del corpo e Uovo di bocca, le raccolte poetiche di Claudia Castellucci.  
Uno degli aspetti più evidenti del lavoro della Societas Raffaello Sanzio, che qui si dispiega compiutamente, è proprio la ricerca sulla presenza dell’attore sulla scena. Già nei lavori precedenti la dicotomia uomo-animale era stata esplorata, utilizzata e teorizzata: “L’animale ci rende vuoto il palco” (Il teatro della Societas Raffaello Sanzio, p. 118), “Veramente un animale può cancellare l’arte, rendere banale fino alla morte il teatro” (Il teatro della Societas Raffaello Sanzio, p. 124). Ecco dunque i due pitoni di Alla bellezza tanto antica (1988), la pecora, le capre e i sei babbuini-totem della Discesa di Inanna, i due inquietanti cani neri che in Gilgamesh scorrazzano a pochi centimetri dal pubblico.  
L’uso degli animali sulla scena resta una costante anche in questo “ciclo della polvere”, in varie forme. Nell’Amleto, ridotto come si è visto a un monologo inarticolato, il protagonista trova una serie di partner che possono dare un’idea dei sistematici slittamenti operati sul testo di Shakespeare, in assoluta coerenza con il ribaltamento operato sul ruolo del titolo. Infatti i comprimari vengono trasformati quasi tutti in animali totemici: si comincia con “l’Orso di peluche, il padre di Claudio”, e si prosegue con Orazio che è un pappagallo pure di pezza, con Ofelia bambola parlante, con la madre/Gertrude che è un canguro (dal cui marsupio lo stesso Amleto estrarrà un cangurino).  
Nell’Orestea compaiono nell’ordine (oltre al Coniglio/Corifeo rubato a Alice nel paese delle meraviglie e al coro dei dodici coniglietti di gesso destinati a esplodere fragorosamente - un omaggio citazione di Carroll che tornerà anche nell’atto centrale di Genesi, dove ricomparirà una coppia di conigli-bambini) due “enormi cavalli neri”, “due asini bianchi albini” e “cinque scimmie macaco”, oltre al “cadavere di una capra scuoiata” che emerge dalla tomba di Agamennone e che verrà “resuscitata” da Oreste in un sanguinoso rituale macchinico (o meglio, cyberpunk), insufflandogli il respiro attraverso un complesso meccanismo di tubi (e tra i simboli va ricordato senz’altro anche l’uovo di struzzo che partorisce Oreste).  
Negli spettacoli successivi l’elenco si allunga. All’inizio del Giulio Cesare compare il totem di questa tragedia: “un lungo ariete romano da assalto che (...) ondeggia la grande testa”; all’inizio del secondo tempo percuoterà con violenza il pavimento della scena. Dopo di che la presenza animale viene declinata da “una volpe imbalsamata [che] attraversa la scena passando davanti ai piedi di Cassio” (Epopea della polvere, p. 166). Può ridursi a traccia: “Il muro rivelato pare essere quello di un edificio adibito alla rozza custodia di animali. Lo si deduce dalla presenza di sporco sulle pareti, all’altezza dei fianchi dei grandi quadrupedi domestici” (Epopea della polvere, 172), incarnarsi in “un grande cavallo nero” (Epopea della polvere, p. 174), rendersi udibile come “rumore di mosche” (Epopea della polvere, p. 176). Nella seconda parte compaiono “un cavalluccio marino” che “attraversa la scena” (Epopea della polvere, p. 192), “un gatto imbalsamato” che si rivelerà “osceno, infernale e terrorizzante” (Epopea della polvere, p.195), ancora la volpe (Epopea della polvere, p. 198), mentre il cavallo ricompare come scheletro, “questa volta con la testa abbassata; non appena si odono alcuni nitriti, il collo si alzerà e ricadrà all’indietro” (Epopea della polvere, p. 199)...  
Quel rituale luciferino che è Genesi ruota intorno a un oggetto sacro dai poteri misteriosi: la zampa di gallina, unico oggetto che ricompare nelle tre parti dello spettacolo. Ma non è ovviamente l’unico segno di questo genere. Nell’Atto Primo la presenza animale viene in qualche modo incorniciata dalla scienza: siamo peraltro all’interno del laboratorio di Madame Curie, dove si conducono sconcertanti esperimenti su Dio, Lucifero e la loro creazione. Ecco una “grossa teca di vetro in cui un cane pastore tedesco imbalsamato si masturba meccanicamente con ritmo ossessivo, fino a farci vedere il conseguente getto di sperma che arriva al centro del palco” (Epopea della polvere, p. 232); racchiuse in un’altra teca di vetro, “un paio di ali di qualche grande uccello (...) fremono e battono una contro l’altra. Potrebbero volare ma il resto del corpo non c’è” (Epopea della polvere, p. 232); in una terza teca, quando compare Adamo, due grosse pecore “si muovono meccanicamente e il loro movimento riproduce all’infinito una copulazione” (Epopea della polvere, p. 234).Finalmente diverranno visibili “altre teche (...) tutte riempite con animali impagliati: pecore, montoni, volpi, cani, uccelli, pesci, capre... Tutti stanno a guardare il tentativo di uno di loro di svegliarsi e camminare fuori dalle pareti di vetro della propria conservazione” (Epopea della polvere, p. 237). La nascita di Eva è contrappuntata da un coccodrillo in “una grossa teca”, da cui sembrano provenire gli organi che la compongono.  
Nell’Atto Terzo, durante tutto l’episodio di Caino e Abele, così come accadeva in Gilgamesh, vagano per la scena “due cani randagi, indaffarati e indifferenti. Cercano tracce sul palco e probabilmente del cibo. Che si trovino sul palco o in un immondezzaio non fa differenza per loro: è chiaro” (p. 248).  
Questo lungo elenco, probabilmente incompleto, vuole sottolineare in primo luogo la centralità dell’elemento animale all’interno dell’immaginario della Societas Raffaello Sanzio. Tenendo oltretutto presente che l’animale (come per certi aspetti i bambini o i folli) non recita mai, ma si offre semplicemente per quello che è - con un “effetto verità” che il teatro conosce da sempre ma che qui viene spinto fino alle estreme conseguenze. Progressivamente però, oltre questo “effetto verità”, lo zoo della Societas Raffaello Sanzio inizia a delineare un pantheon di presenze perturbanti, latori di potenza simbolica. Ancora, tra gli animali veri e le loro controparti meccaniche, tra le creature vive e gli scheletri e le teste mozzate, iniziano a stabilirsi connessioni e contrasti. Ovviamente si evidenzia la materialità, la realtà fisica e corporea dell’animale.  
 
“Un buon pezzo di teatro deve potersi condensare in un’immagine, che è l’immagine di un organismo, di un animale: con quello spirito. Questo animale è una presenza, molto spesso un fantasma, che attraversa la materia, e io con lui. Il problema è essere pellegrini nella materia. La materia è l’ultima realtà. E’ la realtà finale che ha come estremi il respiro del neo-nato e la carne del cadavere. E’ un pellegrinaggio che facciamo nella materia. E’, quindi, un teatro degli elementi.” (Epopea della polvere, pp. 270-271)  
 
Contemporaneamente si costituiscono rapporti e relazioni, che costruiscono l’ancoraggio di una costellazione simbolica, che si riverbera immediatamente sugli attori “umani”: solo per fare un esempio, in Genesi Lucifero nudo appare “lungo e prosciugato come un pesce secco” (Epopea della polvere, p. 229), mentre il suo panico ricorderà quello “di un ragno caduto nella ragnatela di un altro” (Epopea della polvere, p. 231).  
 
 
Autopsia e resurrezione dell’attore  
 
Un analogo “effetto verità” viene perseguito anche attraverso un casting certamente anticonvenzionale. Perché dopo gli esperimenti del Gilgamesh, a partire dall’Orestea diventa sistematica la ricerca e l’esposizione di attori dalle caratteristiche fisiche assolutamente particolari, legate al ruolo che devono assumere in scena: non sono solo attori che interpretano un personaggio, ma che li incarnano attraverso segni fisici evidentissimi, quasi marchi del divino, in un ambiente dichiaratamente convenzionale e costruito. E’ un teatro che rifiuta i personaggi per costruire invece figure, e che a partire dalla loro materialità esplora la fisica della rappresentazione. L’apparizione di queste figure nel corso degli spettacoli è peraltro attentamente studiata, in modo da causare agli spettatori il massimo di sorpresa, emozione e addirittura disagio - per poi innescare un processo di riflessione.  
Nel Giulio Cesare, spettacolo nato dall’ossessione per la retorica, e contro la retorica, questa qualità dell’attore è oggetto di un complesso gioco ironico di chiaro sapore magrittiano: sul cadavere di Cassio (nel secondo tempo interpretato da una ragazza anoressica) viene posto un cartello: “Ceci n’est pas un acteur”. L’obiettivo è farla “finita, nel modo più radicale possibile, con la rappresentazione, nella rappresentazione” (Epopea della polvere, p. 221). Quelli che usa la Societas Raffaello Sanzio sono dunque al tempo stesso meno e più che attori.  
La sequenza di queste figure (qui di seguito sinteticamente esemplificata) comincia nell’Orestea con una Clitennestra obesa (“il corpo immenso di una femmina nuda, dalla pelle bianca”, Epopea della polvere; p. 101), un Agamennone down (“La sua testa è grande e gli zigomi sono alti. Gli occhi hanno un taglio vagamente orientale. Si siede con una certa difficoltà. (...) La luce ora lo colpisce pienamente. E’ un mongoloide”, Epopea della polvere, p. 105), un Apollo “interpretato da un attore privo di braccia” (Epopea della polvere, p. 138).  
Nel Giulio Cesare Cicerone è “un uomo alto e obeso. Pesa duecentoquaranta chili” (Epopea della polvere, p. 171), Antonio “è un autentico laringectomizzato” (Epopea della polvere, p. 182). Nel primo tempo Bruto e Cassio sono interpretati da due vegliardi, che nel secondo tempo diventano due ragazze anoressiche, “attrici estremamente magre, la cui magrezza riconduce all’idea del telaio” (Epopea della polvere, p. 186, ma sulle ragioni di questa scelta vedi p. 220).  
Per quanto riguarda la Genesi, nell’Atto Primo Adamo è un “contorsionista, o per meglio dire un dislocatore corporeo”, che compare dentro una teca come “una massa carnosa confusa e tremante” (Epopea della polvere, p. 234), la sua Eva - imprevedibilmente “anziana” - “è stata mastectomizzata. Ha una sola mammella” (Epopea della polvere, pp. 236-237). L’Atto Secondo, ambientato in una Auschwitz di abbacinante candore, è interpretato da sei bambini, come in un’ennesima allucinata postilla a Alice nel paese delle meraviglie (curiosamente negli stessi mesi con La vita è bella Roberto Benigni racconta l’Olocausto come una favola). L’Atto Terzo ruota intorno al “braccio sinistro di Caino, (...) più piccolo dell’altro, come se appartenesse a un bambino. Un altro bambino, dentro Caino” (Epopea della polvere, p. 250). Sarà proprio questo “braccio bambino” a stringere il collo di Abele per soffocarlo, compiendo il primo omicidio nella storia dell’umanità. E’ un atto per certi aspetti innocente: a giudicare dalle sue reazioni Caino non era consapevole delle conseguenze del proprio gesto (che è un frutto più del destino che della sua volontà), anche se poi ne deve pagare tutte le conseguenze, assumendo su di sé la colpa. C’è ovviamente tutta una teoria sul male, in questa lettura del testo biblico: e l’origine del male in una imperfezione della creazione rimanda ovviamente a tematiche gnostiche (come peraltro potrebbero rimandare allo gnosticismo alcuni aspetti sapienziali della Raffaello).  
Basterebbe questa immagine, che segna il culmine del ciclo iniziato con l’Amleto, a dimostrare che scelte in apparenza stravaganti e dettate dalla predilezione per il mostruoso, l’anomalo, l’imperfetto, sono in realtà profondamente radicate nella drammaturgia della Societas Raffaello Sanzio, e rappresentano un elemento fondante della sua filosofia.  
Tuttavia l’avvento di queste figure “segnate dal Dio” è stato preparato dai due capostipiti, che ancora erano impersonati da attori nel senso convenzionale del temine: Paolo Tonti nel ruolo dell’Amleto autistico e Franco Santarelli in quelli di Masoch. Nel primo caso esplode la fisicità dell’attore, attraverso una serie di secrezioni e manifestazioni corporee che punteggeranno l’intero ciclo: bolle di saliva e sputi, rutti e singulti, peti, persino una evacuazione diarroica accuratamente simulata con “una grossa peretta da clistere caricata con una miscela di acqua, orzo e farina” (Epopea della polvere, p. 38). Negli spettacoli successivi non mancheranno sangue, vomito, sperma, anche per ricordarci che quelli che abbiamo di fronte sono corpi reali, dove scorrono fluidi vitali.  
Nel caso di Masoch, viene invece messo a fuoco il rapporto corpo-macchina. Già Amleto (ma anche qui muovendosi sulla scia di Gilgamesh) era rinserrato in uno spazio-macchina fatto di filo spinato, di batterie di auto collegate da cavi e morsetti. Ma è con Masoch che quella della Societas Raffaello Sanzio diventa una autentica scena-macchina che entra in irreversibile e minacciosa simbiosi con il corpo dell’attore (non a caso è a partire da questi due lavori che le affinità con l’opera di Joel-Peter Witkin diventano innegabili). Nella scena finale dello spettacolo, Masoch viene denudato, gli vengono applicate pinze sui capezzoli, un cavetto gli viene sistemato tra i denti, gli spalancano la bocca con un allargascarpe, viene appeso con tre cinghie ad altrettanti paranchi elettrici e trascinato sopra il palcoscenico (Epopea della polvere, pp. 65-66).  
Tra le numerose possibili esemplificazioni di macchine usate nel “ciclo della polvere” (alcune davvero complesse, come il telaio e il “corpo senza organi” di Eva nella Parte Prima della Genesi), vale forse la pena di concentrarsi sulla pistola, che punteggia come un leit motiv numerosi spettacoli: è la partner prediletta della pericolosa danza di Amleto, è ovviamente al centro del rapporto tra Oreste e Pilade, è lo strumento del mancato suicidio di Bruto.  
Quello tra la scena-macchina e l’essere umano è ovviamente un rapporto carico di connotazioni sessuali, di esplicito carattere sadomasochistico, giocato sul confine animato-inanimato e sulla riduzione del corpo a oggetto. Non mancano peraltro nel ciclo presenze meccaniche, come i coniglietti che entrano in scena ed esplodono nell’Orestea o addirittura, nella Genesi, un pupazzetto che doppia ironicamente gli applausi del pubblico...  
 
 
La tradizione e la contro-tradizione  
 
Fin dal nome scelto dal gruppo, il rapporto con la tradizione è uno snodo chiave. Raffaello Sanzio, dunque, nell’ossessione per la forma come punto d’equilibrio (e forse d’annullamento) di diverse tensioni, e come culmine della parabola umanistico-rinascimentale - appena prima che s’incrini ed evolva nel manierismo. Ma anche un ironico e latineggiante Societas che pare rubato a una polisportiva, a distanziare il rimando al genio e a dar conto di un diverso punto di vista, collettivo e di gruppo. E c’è anche la scelta di opporsi al modello che i giovani fondatori avevano trovato al momento del loro esordio:  
 
“Lo scatto, la molla, l’avemmo vedendo Punto di rottura dei Magazzini: pur facendolo a pezzi come spettacolo, nel senso che non ci piacque affatto, fu scatenante. E’ stato allora che ci siamo ribattezzati Società Raffaello Sanzio, per contrasto.” (da un'intervista a cura di Oliviero Ponte di Pino, in Il nuovo teatro italiano, la casa Usher, Firenze, 1988, p. 121; il volume è disponibile sul sito olivieropdp).  
 
Nella Societas Raffaello Sanzio c’è da sempre un’assoluta consapevolezza della tradizione, che viene riassunta in tutte le sue stratificazioni. Un esempio per tutti: nel Giulio Cesare Cicerone è “un uomo alto e obeso. Pesa duecentoquaranta chili. Indossa una toga bianca che gli lascia scoperto il ventre e il petto. Sul volto ha una maschera bianca di un uccello, un’anatra forse. Alle mani ha infilati guanti bianchi di lattice e ai piedi calzari di cuoio” (Epopea della polvere, pp. 171-172). Sono subito evidenti l’ironia feroce di questa scelta (Cicerone, il grande umanista, il paladino della Repubblica, è un ciccione seminudo pronto per qualche pratica sadomaso) e l’intreccio di tradizione e modernità - toga e guanti di lattice. Poco dopo Cicerone si alza e mostra le spalle al pubblico. La trascrizione dello spettacolo a opera di Romeo Castellucci non è semplicemente descrittiva, ma tiene a precisare l’intera genealogia del segno che utilizza: “Sulla sua schiena sono dipinte due ‘effe’ di violino, alla maniera di Man Ray nel ritratto fotografico a Kiki, che a sua volta riprendeva il dorso della bagnante di Ingres” (Epopea della polvere, p. 174). (Senza dimenticare, a completare questa spirale di segni, che nello spettacolo figura un personaggio chiamato “...vskij”, rimando a Staniskavskij, che aveva interpretato proprio il ruolo di Cicerone nel Giulio Cesare...)  
Da un lato, anche in anni recenti, le affermazioni programmatiche sono chiare:  
 
“Appiccare il fuoco all’immenso e vacuo archivio della tradizione.” (Epopea della polvere, p. 84)  
 
Compresi gli archivi delle avanguardie novecentesche - che hanno il limite di aver semplicemente opposto una forma della realtà all’altra. Il punto di partenza è dunque la devastazione della forma e la puntuale negazione delle forme della tradizione.  
Ecco dunque che il re dei monologhi, Amleto, si rivela un demente che emette suoni inarticolati e traccia sul muro scritte elementari, l’Orestea viene portata in scena “dal punto di vista di Clitemntestra”, il Giulio Cesare serve da trampolino per decostruire i meccanismi della retorica: i grandi monologhi shakespeariani vengono recitati da un attore che s’infila nella narice con una sonda che mostra le vibrazioni della laringe, da un attore che si distorce la voce inalando elio, da un attore senza laringe... Per culminare con una Genesi dove Auschwitz è un coro di bambini in un universo di soave biancore, posto a mezzo tra la nascita del potere apocalittico della scienza moderna e a la sconcertante lettura dell’episodio di Caino e Abele.  
Sono solo gli esempi più clamorosi, le chiavi di interpretazione inconsuete di questi grandi testi della tradizione occidentale, ma nella “lettura scenica” il ribaltamento è sistematico, puntuale, meticoloso.  
L’iconoclastia della Societas Raffaello Sanzio non è però un gioco distruttivo fine a se stesso, uno sberleffo contro un patrimonio svuotato di senso e di necessità. Non si tratta solo di negare la tradizione, ma di negare anche se stessi:  
 
“Come nella sintassi latina una doppia negazione equivale a una condizione neutra, così l’apocalisse di siffatta figura è ora il neutro, un neutro che rimane incoercibile al sistema binario della tradizione.” (Epopea della polvere, p. 85)  
 
Ovvero, “l’iconoclastia viene, in definitiva, per togliersi” (Epopea della polvere, p. 85). Tuttavia questa posizione rischia di scontrarsi con un dato di fatto che genera un paradosso. In superficie (e nelle dichiarazioni d’intenti) è una scelta clamorosamente a-storica, in cui l’atto creativo nel presente si oppone a una tradizione vissuta come monolitica, dalla nascita della tragedia alla morte (inevitabile) delle avanguardie. Tuttavia la stessa evoluzione della Societas Raffaello Sanzio, a cominciare con un lavoro d’esordio dal titolo programmatico Diade incontro a Monade (1981), finisce per costituire un fenomeno storico, segue un filo evolutivo che è possibile ricostruire.  
A questo si potrebbe opporre che si tratta semplicemente della storia dei tentativi di uscire dalla storia e dalla sua dialettica: ma finché la via d’uscita non viene effettivamente trovata, si potrebbe rispondere, siamo ancora nell’ambito della storia - anche se è in questo caso è una storia del rifiuto della storia. Infatti alla tradizione la Societas Raffaello Sanzio finisce per contrapporre una “contro-tradizione” altrettanto complessa e articolata - l’unica tradizione oggi possibile, proprio nella sua volontà di disarticolare l’altra, svellendo i suoi snodi, riaprendo le sue giunture, terremotando le sue linee di faglia. Spettacolo dopo spettacolo, questa sistematica negazione finisce per sedimentare un vero e proprio sistema, in grado di riscrivere alla fine di questa “epopea della polvere” persino l’alfa e l’omega della storia dell’uomo, la Genesi e l’Apocalisse. E per di più una Apocalisse inscritta nella storia come l’Olocausto, che nell’escatologia “in negativo” della Societas Raffaello Sanzio pare prendere il posto dell’incarnazione in quella cristiana.  
A grandi linee, quello della Societas Raffaello Sanzio è un sistema dichiaratamente anti-umanistico. Un qualunque umanesimo presuppone la libertà dell’essere umano, un gioco che gli lasci la scelta tra un Bene e un Male. La Societas Raffaello Sanzio conosce piuttosto (e soffre) l’irreversibilità degli atti e del destino umani. Esclude la vertigine della libertà e si abbevera della malinconia dell’irrimediabile. (Una malinconia che si può lenire attraverso la ripetizione - o la ripresa, per utilizzare la terminologia kierkegaardiana prediletta dalla Societas Raffaello Sanzio; e lo spettacolo teatrale nella sua ripetibilità è l’arte della ripresa, un fatuo esorcismo contro l’irrimediabile.)  
Di Dio, la Genesi assapora l’assenza, fino all’ultima goccia.  
 
“Il teatro è attraversato da questo problema, dalla presenza di Dio, perché il teatro nasce per noi occidentali, quando Dio muore. E’ evidente che l’animale gioca un ruolo fondamentale in questo ruolo tra il teatro e la morte di Dio. Nel momento in cui l’animale sparisce dalla scena, nasce la tragedia. Il gesto polemico che facciamo rispetto alla tragedia attica è quello di riportare sulla scena l’animale facendo un passo all’indietro.” (Epopea della polvere, p. 271)  
 
Ecco dunque la necessità di un teatro “infantile (...) pretragico (...) legato a una presenza o a una potenza di tipo femminile” (Epopea della polvere, p. 271). Ecco per cominciare (e per farla finita) un Amleto che dice no alla tragedia delle colpe che ricadono sui figli richiudendosi in se stesso, cancellando i genitori, rifiutando la rappresentazione e la dialettica, in un autismo dove “l’affermazione viene fatta per mezzo della ripetizione della domanda” (Epopea della polvere, p. 45). Ecco Masoch che si sottopone alla legge del femminile, o al femminile che diventa legge. Ecco l’Orestea “dalla parte di Clitennestra”, come una gran danza di morti ma vissuta con la profonda nostalgia dell’“essere animale” caro a Franz Kafka: così il ciclo tragico che segna la nascita della giustizia civile contrapposta a quella del sangue, il battesimo della democrazia (compiutamente e magistralmente portato in scena da Peter Stein qualche anno prima), viene letto “dal punto di vista materiale (...) a rovescio, cioè secondo il punto di vista invertito dell’ordine che sta cedendo; dell’ordine che stava prima, all’inizio; dell’ordine matriarcale” (Epopea della polvere, p. 158). Ecco, in un Giulio Cesare che si conclude dentro le rovine di un teatro bruciato, la negazione della storia e della politica - e insomma proprio di quell’azione che la retorica vorrebbe innescare. Ecco, insomma, gettate le basi per creare una teologia dell’assenza del divino e della paralisi (forse della fine?) della storia.  
Dio, come principio trascendente, avrebbe potuto essere (com’era stato all’origine) l’estrema ancora del senso, il fulcro intorno a cui centrare la danza delle parole e delle cose, la spirale vertiginosa di significati e significanti, che paiono scivolare l’uno sull’altro all’infinito. Se la via della trascendenza conduce al nulla, ecco allora che la Societas Raffaello Sanzio (che oltretutto pare poco incline al monteismo, piuttosto al panteismo o a un politeismo animistico) cerca l’ancoraggio nell’immanente, nella materia del mondo - nei corpi, nelle cose, negli animali. Nutre la fiducia che la realtà risponda a un proprio ordine, che non sia solo caos. Perché forse nell’alternanza di vita e morte risuona un ritmo che ci culla nella sua pienezza di senso. Non è tanto una nostalgia di Dio, quanto una nostalgia del divino, della sua palpabile presenza negli esseri.  
E però questo ordine naturale del mondo ci appare dolorosamente infranto per sempre, trafitto e travolto dalla civiltà, dalla polis e dal flusso dialettico della storia - la tragedia che è all’origine della tragedia e del destino tragico dell’uomo. Allora l’unica possibilità di riscatto consiste in primo luogo nel negare il divenire dialettico - anche nei suoi margini di libertà; e poi nell’assumere all’interno di un ordine ricostituito anche tutta la potenza della morte e del negativo che scandiscono il ritmo della natura. Il teatro riesplode così in un Eden oscuro: l’idillio - il sogno dell’origine - si ribalta in un graffito necrofilo.  
Come abbiamo accennato, la storia della Societas Raffaello Sanzio è punteggiata di dichiarazioni sull’impotenza e sull’inutilità della rappresentazione e del teatro, vissuto come vizio e spreco di fronte alla pienezza e alla potenza della vita - alla sua innocenza. Al tempo stesso, quello stesso teatro è una denuncia della ferita originaria inferta alla pienezza vitale - che è poi quella della coscienza, della consapevolezza di sé e del proprio divenire. Il teatro offre la possibilità di rifare la realtà con la materia stessa della realtà, e fa balenare il sogno di un mondo indiviso, che possa assumere in sé anche la ferita della morte.  
Al culmine dell’“epopea della polvere”, il contrasto tra la creazione divina e la ri-creazione artistica si cristallizza nella Genesi in una doppia rivelazione. Da un lato denuncia l’essenza luciferina della creazione artistica, ma anche delle scoperte scientifiche e della politica - e insomma di ogni creazione autenticamente umana. Dall’altro si esplicita la consapevolezza che anche il Male è opera di Dio - di quel Dio pigro e assente che ci ha abbandonati. (Anche perché nello spazio chiuso e autosufficiente della scena, non esiste l’orizzonte del Nulla, ma solo la pienezza di un Essere carico di senso - dove ogni elemento è significante).  
In questa Genesi, la creatura è innocente - ma a un prezzo: la perdita della libertà, e la consapevolezza della propria colpa. L’artista-creatore può imitare Dio, ma la sua fatica è patetica - un inno struggente, che canta la nostalgia della pienezza originaria. Per ritrovarla il teatro rinuncia alla tragedia - anzi, la rifiuta in maniera esplicita, programmatica, ma è il suo stesso scacco di fronte alla realtà a essere tragico e insieme comico. Come la maschera di clown che contrassegna Oreste e Pilade nell’Orestea.  
 
“La nostra ultima speranza sta nell’ingiustizia di Dio”.  
Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito
 


 
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