ateatro 24.1
"La guerra la narravano già, come se fosse già accaduta"
Una riflessione sul "teatro di guerra"
di Federica Fracassi e Renzo Martinelli
 

Abbiamo promesso a noi stessi e a Oliviero Ponte di Pino di prendere voce e parola dopo tutti questi mesi. In fondo il forum "Fare un teatro di guerra" è stato aperto anche in seguito a una iniziativa di Teatro Aperto, che il marzo scorso in collaborazione con il C.S.Leoncavallo aveva riunito critici, artisti e spettatori intorno a questo tema, rubandolo a Mario Martone, al suo film.
La discussione era stata accesa e profonda, gravida di questioni. Si rifletteva sul ruolo del teatro in guerra e soprattutto in pace. Il teatro a Milano, in Italia, all'estero. Il teatro come comunità, che crea comunità, che parte da una comunità. Il teatro diviso e che divide.
Poi Oliviero aveva lanciato una domanda: "Ma che ruolo ha il teatro in guerra? Continua ad avere un ruolo il teatro in un paese veramente devastato dalla guerra?" Allora avevamo in maggioranza risposto di sì. Il teatro è la nostra battaglia e se ci fossimo trovati in guerra avrebbe continuato ad avere senso ostinarsi a impugnare le armi della poesia. Questo è ciò che un artista sa e dovrebbe fare. È il nostro contributo.
È ancora valida oggi questa convinzione? Dopo l'11 settembre il teatro può continuare a essere una risposta?
Forse nulla è cambiato, ma di sicuro molto si è disvelato anche agli occhi meno attenti. Ora è chiaro a tutti che i giochi sulle nostre teste sono più grandi e intricati. Ora è chiaro a tutti che l'economia decide i destini. È chiaro che ognuno di noi, essere comunicante, può uccidere e destabilizzare. Ora tutto muta, anche il concetto di guerra, anche le armi da impugnare, anche la dissidenza dal gioco delle forze… Che fare?
UNA CIPOLLA DA SFOGLIARE
In marzo erano i tempi delle dimissioni forzate di Martone dal Teatro di Roma (oggi apprendiamo che Giorgio Albertazzi potrebbe essere il suo sostituto, "il nuovo che avanza", con buona pace della sinistra e della destra che si sono spartite le sedie di un teatro pubblico nel solito indegno modo). Erano i tempi della campagna elettorale che ha portato al Governo italiano Silvio Berlusconi. I tempi del Satyricon blindato di Luttazzi (querelato dallo stesso Berlusconi con richiesta di danni per miliardi, perché bisognava secondo "qualcuno" imbavagliare anche la satira).
L'onda di orrore si è gonfiata impercettibilmente sotto i nostri occhi. È stato il luglio di Genova, teatro di guerra di un giovane morto in pace. Il luglio dell'orrore dei pestaggi a Bolzaneto, una pagina di storia italiana che non avremmo mai voluto vedere scritta. Il Teatro di Porta Romana a Milano ha ospitato una serata autogestita con filmati e riflessioni e la sala e le strade accanto scoppiavano di persone che tornavano a partecipare, come diceva Elio De Capitani, ci si sentiva di nuovo un po' meno soli e attraversati dalla storia, una storia che riguardava tutti, senza possibilità di fuga.
E poi un'estate torrida per noi e cruda a lavorare intorno ai testi di Sarah Kane, suicidatasi a soli 28 anni dopo aver puntato il dito contro l'orrore… "questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere".
Una catena di eventi estranei tra loro solo in superficie.
Ci risiamo.
L'attentato alle torri gemelle dell'11 settembre, i primi bombardamenti sull'Afganistan…
Siamo in guerra.
E dovrà pur significare qualcosa se il 90% del Parlamento si è schierato a favore dell'intervento italiano.
Si allontana sempre più l'utopia di un mondo diverso, un'utopia considerata dai più infantile e ridicola.
Si moltiplicano i significati e i simboli. Ogni bomba è un messaggio stratificato: religione, società, economia… una cipolla da sfogliare senza che si riesca, nella maggior parte dei casi, ad arrivare a un cuore, a un centro.
Che fare?
La realtà è che la guerra da sempre è la normalità e la pace un'eccezione.
E in più... in mezzo ad altre guerre "minori" e quindi non degne di nota, questa è una guerra all'altezza dei tempi, intelligente, che ha presenza televisiva, che spacca lo schermo. E lo schermo ospita tutti i leader, di tutti i partiti, tutti gli opinionisti di tutte le opinioni: una grande occasione per chi appare via etere, che si porta a casa, come i produttori di armi, le assicurazioni eccetera; un piccolo tornaconto. (Questa volta alle compagnie aeree e alle agenzie turistiche invece è andata male!!!)
Questa è una guerra particolare, contro un nemico mirato: il terrorismo.
I terroristi mi danno l'alibi: per uccidere, per mantenere dritti l'economia e il potere.
Se uccido per sbaglio, posso con l'altra mano versare su un conto corrente un contributo in denaro che al contempo aiuta i profughi, gli orfani e le vedove, che io ho reso tali e mi alleggerisce la coscienza. Se ferisco, posso lenire le ferite. Se tolgo il pane, posso sfamare.
ESSERE e NON ESSERE TEATRO DI GUERRA
È difficile prendere la parola nel mezzo del chiacchiericcio generale. Abbiamo anche questo privilegio: siamo in guerra e possiamo comunque chiacchierare, discutere in salotto davanti a immagini che arrivano da lontano, da luoghi che non abbiamo mai visto.
Le nostre nonne le avevano qui le guerre, due e mondiali, e invece ora il teatro di guerra è da un'altra parte, in un altro mondo: l'Afganistan. Non qui, come non lo era quando si bombardava Belgrado. Teatro di guerra sono tutti i paesi di cui non si parla perché non fanno numero, immagine, notizia. I paesi "di meno" dove si continua a combattere.
Essere o non essere teatro di guerra ha sempre fatto la differenza. Infatti gli Stati Uniti, oltre allo strazio dei morti, sono stati colpiti simbolicamente l'11 settembre, perché per la prima volta dalle guerre d'indipendenza il loro suolo è stato teatro di guerra. Nella guerra vera, militare, si contano i morti, si vive il lutto composto e straziato. Ci sono volti precisi che ci lasciano per sempre. In quel caso la rabbia dà la forza di ricostruire le proprie case, si sa contro chi scagliare le proprie maledizioni o il proprio perdono. Forse in quel caso per sopravvivere, per reagire si fa teatro. Paradossalmente ci viene da pensare così, rilanciando la domanda di Oliviero. Forse in quel caso è più alta la necessità di testimoniare.
Ma noi qui siamo e non siamo teatro di guerra. Arruolati, senza che ce ne accorgessimo, combattiamo una guerra economico-sociale senza paragoni. Ma sulle nostre vite non cadano bombe.
E cosa può essere il teatro in tutto questo?
Di sicuro una casa, un monito, un'etica, non la spettacolarizzazione di cui tutti parlano: "la realtà ha superato qualsiasi film di Hollywood", come se l'arte fosse solo un insieme di brividi estetizzanti e la dimensione etica fosse perduta per sempre, come se la finzione fosse la norma e la realtà non potesse più stupirci.
Ma il teatro dovrebbe essere soprattutto presa di coscienza, meditazione, preveggenza. Il teatro, anche da lontano, ha a che fare con la realtà, con i morti.
LA MALATTIA DEI MONDI DIVERSI
Le voragini provocate nel terreno dai bombardamenti sulle popolazioni afgane non riescono a scuotere il nostro immaginario tanto quanto un aereo civile che si schianta contro un grattacielo in una centralissima New York.
E questa è la prima amara constatazione. Potete raccontarci che il secondo caso ci scuote di più, perché l'attentato terroristico alle torri gemelle è senza paragoni nella storia, ma la differente temperatura delle nostre emozioni ha un solo significato: anche dentro i nostri simboli si è insinuata la cattiva malattia dei mondi diversi.
I confini sono disegnati sulle carte con troppa disinvoltura.
Non c'è più un unico mondo, ma più mondi messi in classifica a seconda del loro potere, monetizzati. I confini vengono tracciati e ritracciati a seconda delle occasioni, delle comodità, del valore strategico.
Se la mente è soggiogata nello sguardo e a livello inconscio fa una graduatoria dell'orrore… la nostra mente pacifica, le nostre mani. Se a noi, abituati allo scambio e alle differenze succede questo, allora cosa può fare questa malattia a chi ne è afflitto seriamente?
Servono nomi? Bin Laden, i ragazzi palestinesi che gioivano davanti al crollo delle torri, Oriana Fallaci nel suo articolo, Sharon. Sono malati gravi tutti coloro che gioiscono della propria supremazia economica, culturale e religiosa e cancellano il diverso per il quale non riescono neppure a sentire pietà. Siamo nelle divisioni. Siamo nel pieno centro della devastazione.
Ma i nomi non sono il problema. Perché ci siamo ammalati? Questa è la questione più importante.
Ma come è potuto accadere, che nonostante le denunce di ciò che nel mondo non andava, nulla sia stato fatto?
Come è potuto accadere che le nostre menti e le nostre emozioni siano così assuefatte al peggio, incapaci di empatia?
Com'è potuto accadere che ci possiamo credere liberi e siamo invece così soggiogati a simboli e a poteri che ci sorridono con la nostra stessa faccia e predicono la nostra distruzione?
Perché siamo diventati nemici a noi stessi?
Come può accadere che solo qualcosa che supera Hollywood possa scuoterci, possa scuoterci proprio perché è così simile a Hollywood?
Perché il dramma del Sudan, dove noi siamo stati e possiamo testimoniare, il dramma dell'Algeria, del popolo curdo non ci fanno versare neppure una lacrima? Perché i Taliban, cresciuti a pane e CIA, appoggiati strategicamente e indirettamente da Washington, hanno agito indisturbati fino a oggi, davanti a tutti noi che dormivamo sonni tranquilli sui nostri scaldasonno telecomandati?
CI TOLGONO IL FUTURO
Carla Benedetti, un'amica, a New York, dopo una settimana dagli attentati in una lettera aperta che nessun quotidiano italiano ha voluto pubblicare, ci scriveva:
Insomma per parecchi giorni qui l'unico a pronunciare la parola "guerra" è stato Bush nel suo discorso ufficiale in televisione. Sui giornali italiani invece la parola era già uscita dalle virgolette del discorso di Bush, e trionfava nei titoli, negli articoli di cronaca, nei commenti di politologi, uomini di cultura e letterati. Il confronto per me è stato scioccante. I giornali italiani la guerra la narravano già, come se fosse già accaduta; la prevedevano come "guerra lunga", "senza frontiere"; la definivano, addirittura la storicizzavano come "terza guerra mondiale"...
La prelevavano da un futuro immaginato come già dato, anticipato apocalitticamente per l'emozione di tutti: sia di coloro che la guerra la vogliono sia di coloro che la paventano. I media americani e quelli italiani parlavano dello stesso evento. Eppure qui era ancora solo l'atto terroristico più terribile che si sia mai dato, era l'attacco, il disastro, l'orrore, il lutto. Per quelli italiani era "la guerra del XXI secolo cominciata martedì 11 settembre".
Come dicevo non è durato a lungo neanche qui. Ma qui è cominciato dopo. Ci sono stati quattro o cinque giorni di sospensione, in cui la realtà ha avuto il sopravvento sulla sua verbalizzazione: la realtà concreta dei soccorsi, delle ambulanze, del fumo, del lutto. In questo "intervallo" ho fatto in tempo a accorgermi di quanto la stampa viva di interpretazioni. So ovviamente che il confine tra informazione e interpretazione è labile. Ma in questo caso è fin troppo percepibile. C'è un abisso tra raccontare l'atto terroristico più terribile della storia, interrogarsi sulle cause e sulle possibili conseguenze, riportare il discorso di Bush, intervistare esperti di politica internazionale, capi di stato, esperti di terrorismo ecc., e invece titolare "È guerra!".
È ovvio che interpretare i fatti che accadono sia un'attività vitale. Ma una cosa è interpretare i fatti, altra cosa è interpretare il futuro. Scrivere "è iniziata la terza guerra mondiale" equivale a predire il futuro. E ognuno di noi sa come la parola che predice sia intessuta di potere. Descrivere ciò che sta per avvenire contribuisce alla sua realizzazione.
Quante cose invece sono ancora aperte e incerte! Quante cose potrebbero farsi oggi in politica internazionale come nella vita civile, a favore della distensione, della tolleranza, per diminuire l'oppressione economica sui paesi poveri, per diminuire i rischi ambientali, per un altro modello di sviluppo. Tutti questi argomenti che ancora ieri erano all'ordine del giorno, prima e dopo il G8, oggi ci possono venir tolti di forza. Questo è in gioco ora, prima della guerra. La certezza della guerra imminente alimentata dai media, anche quando non viene usata politicamente, anche quando è semplicemente paventata come apocalisse, o usata per spettacolarizzare l'evento, ci fa perdere tutto questo. I "futurologi" che scrivono sui giornali ci tolgono il futuro. Tolgono al futuro un po' della sua apertura.
Esatto: ci tolgono il futuro e noi neanche ce ne accorgiamo, perché chi ci toglie il futuro ha la nostra faccia e il nostro stesso sorriso. La banalità del male: così è stato tradotto un testo di Hannah Arendt sul processo a Eichmann. Il male non ha un volto così mostruoso, ma i nostri stessi volti, un po' grigi e con le occhiaie.
Così nel teatro, così nella vita politica di questo paese, divisi anche all'interno dello stesso partito perché, in fondo, troppo uguali.
La maggior parte delle volte sarebbe già eroico non stare al gioco e puntare il dito.
Ma tutto è chiacchiericcio pastoso.
Nonostante le urla di una minoranza inascoltata che ci mostra il re nudo.
IL NOSTRO COMPITO È MOSTRARE LE SBARRE
Cosa può dire o fare il mondo del teatro dopo l'11 settembre?
Ha senso continuare a fare teatro in questa particolare guerra, questa guerra onnivora di cui abbiamo abbozzato il volto?
La tua domanda di marzo, caro Oliviero, assume in questi giorni di riflessione una profondità nuova, che forse l'anno scorso non era così palese, neanche per te che l'avevi posta.
Cosa può fare il teatro che non dovesse o potesse fare anche prima, se da anni viviamo un "ground zero" spirituale oggi sotto gli occhi di tutti, da cui l'arte dovrebbe partire a costruire?
Abbiamo sempre mal digerito le mediazioni, che siano politiche, economiche, culturali. Abbiamo sempre diffidato dei mille salamelecchi che sputtanano il nostro ambiente. Esistono sempre più persone che parlano d'arte, le vivono accanto, ma dall'arte non si fanno attraversare e ferire veramente.
E forse tra le mille domande una risposta può essere questa.
Il teatro può rilanciare e insistere
Deve continuare a farsi ferire e a ferire con più forza.
Forse è proprio il teatro l'unico ad avere il diritto/dovere di essere in guerra permanentemente.
Il teatro può mettere le mani in pasta ed essere più reale e cattivo della realtà più vera.
Il teatro può fare a pugni per difendere quel "minore" che va perduto, per difendere la particolarità e la bellezza dei saperi, la diversità e per coltivare coscienze che sappiano dialogare anche se non appartengono allo stesso condominio.
Il teatro può distruggerlo il condominio, e le chiese, e le sette, e i finti intellettuali tra le tartine dei vernissage.
È giunto il momento di fare il punto sulla salute del mondo.
Di una cosa siamo certi: questo clima di guerra sarà utilizzato soprattutto per far tacere le opposizioni e il teatro come luogo di scambio e di incontro tra esseri umani, come luogo di creazione ha il dovere di tenere vive le voci più flebili.
Noi che facciamo teatro dobbiamo mostrare le sbarre, e assumersi questo compito sarebbe già molto, mostrare le sbarre di cui ogni mondo inevitabilmente si circonda se si prende troppo sul serio e che porta a questo deserto dello spirito in cui può scuoterci solo ciò che è vicino a Hollywood, ciò che Hollywood decide di farci vedere.
Sempre Carla Benedetti da New York:
Un amico mi ha scritto dall'Italia con amarezza: "Voi lì siete una minoranza. Voi avete visto la cosa, mentre il resto del mondo ha visto la cosa in immagine, cioè LA COSA VERA". Sul momento mi era parsa una frase assurda. Poi ho capito cosa volesse dire.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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