ateatro 128.4 Cosa resterà dell’Eti? Tra storia e futuro di Andrea Porcheddu
Parlandone da vivo, l’Ente ha segnato – nel bene e nel male – cinquanta anni di teatro italiano. Impossibile, prima o poi, non porlo al centro di una riflessione sana, scevra da polemiche immediate, in una prospettiva già storicizzata: una riflessione che dovrà essere fatta. Per quel che mi riguarda, mi limito ora solo a alcune considerazioni, personalissime e come tali assolutamente opinabili. Trovo assolutamente meritevole l’iniziativa di Ponte di Pino e Gallina, che ringrazio, nel voler avviare questa analisi sull’Eti, partendo dal dato più recente e eclatante: la chiususa. Brusca nei modi e nei fatti, senza possibilità d’appello. Una chiusura che lascia però ancora ombre e misteri: per le modalità, certo ma anche e soprattutto per le prospettive. Possibile che nessuno si fosse accorto di niente? Che nessuno avesse avuto sentore della chiusura? Come un’orchestrina del Titanic si continuava a suonare nell’imminenza del naufragio? Possibile che un governo possa “avocare” a sé progetti, mandati, iniziative, personale, di un ente con cinquanta anni di vita senza un minimo di contestualizzazione e progettazione? Possibile che l’unico “ente inutile” dei tanti italiani, davvero chiuso sotto la scure di Tremonti sia stato l’Eti? Non sarebbe stato ipotizzabile, e forse più saggio, programmare una dismissione intelligente, pensata entro, che so, un anno? Certo, l’Eti costava tanto, troppo, e ancora costa: visto che, se ho capito bene, oggi è il Fus a pagare gli “ex” dipendenti e i progetti avviati, quindi togliendo risorse al già ridicolo Fondo Unico.
Che l’Eti andasse “riformato” si sapeva da anni, forse da sempre: dopo un lunghissimo (quasi incredibile) periodo di commissariamento, era tornato ad una attività ordinaria, che sembrava però sfuggire a una prospettiva di senso. Prendere come modello l’Onda francese, agenzia snellissima e vivacissima, sembrava paradossale, come cercare di trasformare un Tir in una moto Ducati. Il problema, allo stato dei fatti, è che pur riaffermando l’innegabile e sincera solidarietà per quanti dentro l’Eti lavorano (o hanno lavorato) con passione e competenza, quell’Ente là – con quell’aria elefantiaca, con l’imprimatur perenne di Carmelo Rocca, con quelle pastoiette da sottobosco politico e piccoli cabotaggi, con quelle eccessive spese di (auto)mantenimento – era indifendibile. E se pure si avvertivano segni intriganti (per citarne alcuni: le monografie al Valle, le aperture all’Estero, i piccoli passi di danza) l’impressione generale era di una costante e desolante “invenzione sprecata”.
Cosa fa (o meglio: cosa doveva fare) l’Eti?
Sembrava prioritaria – e siamo già in epoche recentissime – la rinuncia ai teatri direttamente gestiti: quel gioiello del Valle, a Roma; l’incredibile e maestosa Pergola a Firenze; il complicato Duse a Bologna e il Quirino – salone dell’Inps – che è stato l’unico dato in affidamento, dopo gara “europea”, al Teatro Stabile di Calabria e dove è approdata, come organizzatrice, quella Giovanna Marinelli che ha tenuto saldo il timone dell’Eti per molte stagioni.
Dunque si doveva rinunciare, questa era l’ipotesi prima di riforma, alla programmazione.
Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con l’Eti, già dal 1992 e per alcuni anni, nella realizzazione di un giornale (Etinforma) e in altre iniziative editoriali. E ricordo con affetto la passione di Mauro Carbonoli, allora DG, nel programmare i “suoi” teatri. Era quasi una visione “all’antica italiana” – burbera e diretta – da tournée lunghe e scavalcamontagne, da capocomicato e piazze, che faceva macinare chilometri e recite. Una cosa era certa: alle nove si andava in scena, ovunque. Già allora si faceva altro: i primi spettacoli internazionali (con Donatella Ferrante), la ricerca, il teatro ragazzi
Però al centro di tutto era proprio la programmazione. Che non poteva più bastare, perché il mondo teatrale stava andando altrove. E allora si imposero, come ricettori e trasmettitori di senso, i nuovi “progetti”: ecco l’altra parola magica. L’Eti si doveva aprire al mondo, guardare a un teatro non più e non solo “tradizionale”, si doveva snellire e avviare sulla strada di progettualità ricche di contenuti. Ricordo il lavoro militante, instancabile di Ilaria Fabbri, o gli slanci dell’allora giovane dirigente Ninni Cutaia o della stessa Marinelli non ancora DG.
E dunque, per nominare solo alcune iniziative, vado a memoria, le “aree disagiate”, l’apertura del Valle al teatro contemporaneo, i giovani, etc. Ricordo, ad esempio, come un bellissimo segno simbolico, quando riuscimmo a pubblicare, su Etinforma, un articolo di Iben Nagen Rassmussen o un’intervista a Leo de Berardinis, approdato con strascichi di polemiche e perplessità, per la prima volta alla Pergola. Insomma, un altro teatro era possibile, e l’Eti non solo se n’era accorto, ma lo incoraggiava. Cambiarono gestioni e commissari, ma la linea non mutò.
Il tutto, però, condito da una parola d’ordine che già iniziava a circolare: “impresa”. Forse varrebbe la pena riflettere anche su questo: quanto l’Eti si sia fatto portavoce e amplificatore della “prospettiva aziendale”, ponendo al centro delle future trasformazioni delle “ditte” teatrali il diktat del Marketing, creando indirettamente falsi miti e prospettive alla lunga rivelatesi deleterie. Il mercato salva tutto? Non è stato così, né in teatro né nella società cosiddetta “civile”.
Detto questo, ci troviamo di fronte al reale: ossia al Governo Berlusconi, alla “politica culturale” di Bondi (non è ironico: c’è una precisa politica culturale). Insomma: assistiamo alla sconfitta concreta di 2500 anni di teatro politico, che a nulla sono serviti rispetto a 25 anni di Mediaset. È vero, i teatri italiani sono pieni, c’è un pubblico attento e vivo, ci sono tanti giovani che fanno teatro, tante nuove realtà si aprono ogni anno. Ma l’imbarbarimento italiano, la perdita di (buon) gusto, l’offuscarsi di parole chiave come solidarità o uguaglianza, la progressiva povertà di gran parte della popolazione, la rinuncia a tutto ciò che è riflessione critica, il razzismo, la violenza, il clericalismo, il bigottismo, sono segni concreti di un fatto. Chi – compresi noi “intellettuali militanti” – doveva fare “cultura”, chi doveva formare i nuovi cittadini, chi doveva assicurare una società libera e consapevole, ha perso. Se l’Eti, tra i suoi compiti, aveva quello della promozione e della diffusione della cultura teatrale, in cinquanta anni ha raggiunto solo in parte – in minima, minuscola, parte – il proprio obiettivo. Perché c’è sempre, nonostante tutto, l’impressione che tutto ciò che è vivo, combattivo, vero, sia (stato) lontano, marginale, periferico rispetto alla centralità dell’Eti?
Siamo ormai, ci racconta bene Goffredo Fofi, una minoranza. Ma come tale possiamo e dobbiamo comportaci: tornare a agire, ricominciare a agire. Nel microcosmo del contemporaneo, magari. E anche senza i grandi moloch. Allora l’Eti del futuro: non so, non lo so immaginare. Quel che è certo che ora abbiamo a che fare con gli scarti, con i resti, con le macerie di un Ente che è stato annientato con un colpo di penna. Lo scarto è quel che resta, lo scarto è il “terzo paesaggio” teorizzato da un giardiniere come Gilles Clément: spazio periferico, spesso incolto e abbandonato, dove però fiorisce la (bio)diversità. Luoghi in cui l’attività umana, ufficiale e rigorosa, è finalmente sospesa. E questo “terzo paesaggio”, dice Clément, è naturalmente il rifugio per specie continuamente minacciate, che si possono riprodurre liberamente. Spazi da guardare con stupore. Perché spesso è proprio all’ombra dell’incolto, del non-coltivato, del non regolamentato, che si trova la libertà.
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