ateatro 128.3 Ecco perché devo anche difendere l'ETI Capire e non capire di Marco Cavalcoli
Alcuni anni fa, durante una chiacchierata milanese sui problemi nostri e di tutto il teatro italiano, Oliviero Ponte di Pino affermò che una parte preponderante di responsabilità per ciò che stava accadendo era da imputarsi agli assessori alla cultura provenienti dai quadri del vecchio PCI.
Mi sembrò un'affermazione un po' esagerata, non capivo come questo elemento potesse venire considerato un nocciolo del problema e ho continuato a non capirlo per molti anni. All'indomani della larga vittoria della coalizione di centrodestra nelle elezioni del 2001 si era prodotto un effetto di diffuso e immediato panico tra gli operatori teatrali italiani, ancora non era stato nominato il Ministro della Cultura che già si notava un cambiamento sostanziale nelle risposte alle telefonate promozionali che si facevano, pareva che tutti avessero improvvisamente tirato il freno a mano.
I tagli veri sarebbero arrivati solo dopo una decina d'anni, cioè oggi, le cattive politiche invece cominciarono subito, balzò agli occhi in particolare la trasformazione dell'ETI in una scatola opaca (c'era materia su cui appoggiarsi, va detto) di cui non solo non si capivano, ma nemmeno si vedevano le scelte e gli indirizzi. Ricordo un anno in cui si parlava pubblicamente della impossibilità di esaminare i conti dell'ETI, perché l'Ente non produceva il bilancio. In quel 2001 Fanny & Alexander aveva concluso una fortunata tournée italiana, resa possibile soprattutto dal sostegno, guarda un po', dell'ETI. Ma cominciarono i guai dall'anno dopo, una paralisi talmente seria da spingerci a scrivere una lettera aperta al teatro italiano in cui denunciavamo l'ipocrisia culturale con cui si imputavano sempre e solo al “governo ladro” scelte che escludevano dalla programmazione una fetta importante del teatro contemporaneo. Cominciavamo, insieme agli altri gruppi rivelatisi negli anni '90, ad apparire sui giornali e nelle conversazioni in qualche modo come esempi negativi.
Cosa stava succedendo? In quegli anni si stava affacciando una generazione di artisti che portava una rinnovata attenzione al teatro di regia e alla narrazione, misurandosi con la categoria del realismo, in uno di quei benefici ricambi che la vitalità del nostro teatro ciclicamente produce. Accade anche adesso che un'ondata di giovani stia indicando le forme possibili di un teatro dell'oggi, con la stessa immediatezza che tutte le nuove ondate sono capaci di incarnare, ce ne si può fare un'idea leggendo quanto ha scritto Ponte di Pino sul teatro 2.0 visto quest'estate a Santarcangelo, o nei diversi interventi che Renato Palazzi ha dedicato ultimamente ai nuovi gruppi. Ma una costante generale dei rinnovamenti negli ultimi trent'anni è stata l'attenuazione progressiva della rivendicazione polemica contro il teatro esistente, sempre più lontano dal vecchio “teatro borghese”, a favore di una dialettica rivitalizzante interna allo sviluppo della scena contemporanea, senza mostrare ostilità verso i padri o i fratelli. L'inter-generazionalità è anzi diventata l'emblema e la prova tangibile del successo culturale delle avanguardie, sfuggite al destino della sola testimonianza storica e oggi additabili come fautrici di una rivoluzione artistica che ha seminato tracce durature. Invece in quei primi anni duemila è sembrata venire alla luce, contemporaneamente ad una nuova schiera di artisti, anche l'esigenza di mettere polemicamente da parte un pezzo di teatro esistente, che veniva spesso definito estetizzante e autoreferenziale, avulso in generale dalla società.
Non so se questa tentata riedizione di una prova di egemonia culturale neorealista abbia incontrato le aspettative dei quadri dirigenti o eterodiretti che l'hanno promossa e cavalcata, a giudicarne l'influenza nella società attuale sembrerebbe di no. Ma ha avuto perlomeno il pregio di illustrare plasticamente una realtà italiana ampiamente nota, seppur sovente rimossa, ovvero la dipendenza del sistema culturale dalla politica e dagli assessori, ne ha evidenziato un aspetto più profondo dell'abituale dialogo tra garanti e garantiti: il legame organico depositato nella coscienza del nostro Paese tra aree culturali e aree politiche. Un legame che negli altri Paesi europei, anche quelli per certi versi molto simili all'Italia come il Belgio, anche nelle parole di persone politicamente ben schierate, è semplicemente una bestemmia. Questo riflesso automatico che si è prodotto nel teatro italiano di fronte alla minaccia di un governo ostile è stato ai miei occhi una straordinaria manifestazione di debolezza, ampiamente esibita e promossa dagli “assessori alla cultura provenienti dai quadri del vecchio PCI”.
Sempre in quegli anni vi furono diversi incontri di un movimento raccolto sotto la frase Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni, culminati in una tre giorni a Castiglioncello, e da cui purtroppo non sortì molto più di un ampio dibattito. Un grand commis della defunta Democrazia Cristiana come il direttore del CRT di Milano per ben due volte intervenne nei dibattiti proponendo lo sganciamento del sistema culturale dalla politica attraverso la creazione di un ente indipendente, sulla traccia degli Arts Council britannici. Probabilmente non ne fu creduta la buona fede, sicuramente in molti pensarono “da che pulpito!”. Di fatto la proposta, che in sé non era peregrina, cadde nel vuoto cosmico.
L'ETI era certamente un carrozzone di Stato con tutte le contraddizioni e i difetti che ateatro ha già messo più volte in luce. Ma per molti di noi era soprattutto il volto e il lavoro di Anna, Barbara, Donatella, Bruno, Marilisa, Ninni e tutte quelle persone che avrebbero saputo, se solo avessero potuto, trasformarne le politiche e liberarne le risorse. Hanno abbattuto l'ETI e non è volata una mosca. Al suo posto non c'è un'organizzazione diversa più efficiente o desiderabile, ma il niente, e il silenzio rassegnato con cui la scomparsa è stata salutata è l'emblema della nostra autoindotta impotenza, che si aggiunge e non sostituisce l'impotenza che ci viene rovesciata addosso dalla gravità delle cose.
Dopo che gli Istituti Italiani di Cultura sono stati trasformati in una succursale poco convincente del commercio estero (ma è stato abolito del resto anche il Ministero del commercio internazionale), la scomparsa dell'ETI colpisce la possibilità di creare una minima politica di coordinamento e di supporto per l'esportazione del nostro teatro nel mondo, e non è un dettaglio. Ancora di più, il destino degli artisti italiani sarà legato ai rapporti personali che ciascuno saprà intessere con i garanti politici di riferimento. La soppressione dell'Ente, oltre che grave in sé, per le modalità con cui è stata fatta ed accolta ha dato a chi ci governa un'ulteriore rassicurazione sulla propria licenza di uccidere.
Se domani dovessero portare a zero i sussidi pubblici bisognerà sperare nella sollevazione di Riccardo Muti e Luca Barbareschi (Baricco sappiamo già come la pensa...), perché fintanto che il mondo culturale italiano non conquisterà autonomia di movimento nella società non avrà alcuna voce in capitolo. Non dobbiamo parlare ai politici per convincere... il PD. Dovremmo convincere il popolo italiano.
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