ateatro 127.57 Dal paradiso dei suicidi Etgar Keret a Palazzo Ducale a Genova per Mediterranea di Anna Maria Monteverdi
Entusiasmante incontro con il giovane scrittore israeliano Etgar Keret a Palazzo Ducale a Genova all’interno del ricchissimo programma di Mediterraea, manifestazione di grande spessore ideata e curata da Luca Borzani, presidente della Fondazione Palazzo Ducale che prevede incontri, conferenze, mostre (imperdibile Meditazioni Mediterraneo di Studio Azzurro).
Etgar Keret, nato l’anno della guerra dei Sei giorni (1967), non è famoso come Amos Oz o David Grossmann, intellettuali la cui voce è ascoltata in tutto il mondo, ma i suoi libri sono popolarissimi in Israele e ora sono tradotti in molti paesi del mondo (in Italia da e/o). I suoi libri sono intrisi di vero humour nero sin dal titolo: Pizzeria kamikaze, Gaza blues, Papà è scappato col circo, La notte in cui morirono gli autobus. Le vicende travagliate di Israele sono il sottofondo silenzioso dentro cui si incorniciano le storie, paradossali, umoristiche e tragiche insieme.
Pizzeria kamikazeè diventato un fumetto e oggi è anche uno spettacolo teatrale per la regia di Giorgio Galione , produzione del Teatro dell’Archivolto di Genova.
Non so perché ma mi ero immaginata una specie di Stefano Benni made in Medio Oriente le cui short stories però hanno per argomento – direttamente o indirettamente - la Shoah o il conflitto arabo-israeliano all’epoca della seconda Intifada. Etgar Keret inizia a scrivere molto giovane, diciannovenne, mentre faceva il servizio di leva obbligatorio.
Di Israele dice ironicamente che forse non è
un posto sicuro al 100%, forse neanche il migliore dei luoghi dove vivere, però è sicuramente il posto migliore su cui scrivere, è il luogo che ti dà più spunti narrativi se sei uno scrittore, perché è un po’ come essere sempre dentro un reality show.
I suoi testi sono tutti narrati al presente, e il motivo viene così spiegato da Keret:
Il ruolo della narrativa in Israele non è altro che il tentativo che noi facciamo per esorcizzare le nostre paure, una sorta di impossibilità di trovare un senso di continuità con il passato, il problema cioè di non trovare il collegamento tra il presente e il passato, perché il passato è molto difficile, perché le nostre radici nonostante siano profonde, non ci appartengono più. C’è una sensazione di scollegamento dal passato anche da parte mia: ho 2 genitori sopravvissuti all’Olocausto, i miei nonni non li ho mai conosciuti, non ho mai visto la mia casa di famiglia, la nostra lingua delle origini è stata da sempre un tabù, non ho mai recitato poesie, o sentito canzoni che possono aver segnato la mia vita. La mia vita è stata contrassegnata dal marchio del presente e il mio accanirmi sul presente è come uno sforzo per sostituirmi al passato.
Keret non condivide la politica attuale del governo di Israele, è simpatizzante della sinistra ed è un pacifista convinto, ma non si considera né uno scrittore in esilio, né parte di una minoranza:
I miei sentimenti per la pace sono suffragati dalla maggior parte degli israeliani: è molto radicata nella gente la convinzione che si debba arrivare presto ad una soluzione di pace in tempi brevi.
Un bell’esempio di humour nero tipico della sua narrativa si ha in Gaza blues dove riesce a far sorridere persino sul tema tragico della Shoah: un bambino israeliano viene portato a visitare un campo di sterminio per ebrei polacchi, e gli rimane impresso quello che gli viene raccontato su ciò che i nazisti facevano con i corpi delle vittime. Quando torna a casa la madre gli fa trovare un paio di scarpe da calcio tedesche, Adidas, con la punta in pelle. Il bambino inizialmente non le vuole indossare perché pensa che la punta possa essere stata fatta con una parte del corpo del nonno; per questo, quando poi le indossa, fa attenzione a non colpire il pallone con la punta. Ma davanti a un passaggio decisivo, colpisce il pallone, fa un tiro perfetto proprio di punta e fa gol. Allora tornando a casa chiede a voce alta al nonno che ne pensava del gol. Il nonno ovviamente non risponde ma “dal modo in cui camminavo con le scarpe avevo capito che gli era piaciuto”.
La bella presentazione di Pietro Cheli che ha unito all’analisi dei libri, riferimenti politici attuali, dà ragione del valore di uno scrittore giovane ma che ha già trovato un suo stile e una forma letteraria molto personale. Forma letteraria che si esprime non tanto nei romanzi quanto in una efficace scrittura breve, addirittura brevissima: Keret a proposito di questo, dice scherzosamente che lui vorrebbe ogni volta provare a scrivere un romanzo intero ma poi dopo tre pagine i protagonisti dei suoi racconti muoiono e allora deve chiuderla lì!
Pizzeria Kamikaze parla di un giovane che si ritrova dopo che si è ammazzato, nel paradiso dei suicidi, un luogo che assomiglia molto a Francoforte, e trova lavoro in una pizzeria. Si innamora di una ragazza finita per sbaglio nel paradiso dei suicidi e per questo verrà prelevata da un angelo in incognito e rimandata sulla terra; frequenta un pub divertente, con gente che ha nel corpo segni tipici dei suicidi (ragazze con polsi tagliati, uomini con volti gonfi per l’annegamento); nel bar c’è pure Kurt Kobein, morto appunto suicida, che tutti evitano perché suona canzoni che nessuno vuole ascoltare. La pizzeria è piena di arabi suicidati, sono kamikaze a cui hanno promesso che nell’aldilà verranno ricompensati con vergini vogliose. Durante l’incontro Keret ha parlato di una “schizofrenia” che alberga nell’animo dei giovani israeliani, schizofrenia che lui stesso ha vissuto in prima persona e che è dovuta ad una vita scandita dalla presenza costante della guerra:
Penso che la guerra per me e per quelli come me che vivono nel Medio Oriente, produca la stessa sensazione che dà il freddo a quelli che vivono in Islanda. Diventa praticamente una parte importante della tua vita, quasi ti ci abitui, ma ovviamente non puoi rimanere cieco di fronte a una guerra che ti scoppia davanti; nella nostra vita la guerra arriva ad assumere i connotati di nuova normalità. I conflitti sono così per noi, quasi un modo per scandire il tempo che trascorre. Le mie storie le ho scritte quasi tutte quando facevo il servizio militare nell’esercito, la leva è obbligatoria. Ho avuto un’ infanzia e un’ adolescenza protetta. La tua realtà può essere quella normale in cui esiste uno stile di vita occidentale, tu studi, vai a teatro, poi devi lasciare tutto per andare nell’esercito e hai di fronte un mondo parallelo, completamente scollegato da tutto quello che ti è familiare, che conosci; c’è una specie di bipolarità che ti colpisce ed è una cosa che trovo abbastanza peculiare di Israele. Per esempio, il mio dentista è un vegano, manda il figlio a una scuola Montessori, è un sostenitore della sinistra liberal, ma per 20 giorni l’anno va a fare il riservista dell’esercito come tiratore scelto e nel suo patentino dell’esercito c’è scritto che ha ucciso 6 persone. Quindi c’è in Israele questo tipo di realtà dove un giorno ti ritrovi a uccidere e il giorno dopo ti rifiuti di mangiare le uova per non uccidere non solo la gallina ma persino il suo embrione. Io ho passato anni dentro questo vorticoso entrare e uscire da una realtà violenta a una realtà completamente normale e occidentale. Volevo raccontare nei miei libri proprio questa dicotomia. Io stesso essendo un simpatizzante della sinistra, quando ero in divisa eseguivo gli ordini, ma una volta tolta, andavo a dimostrare contro quelle stesse cose che facevamo o ci veniva ordinato di fare.
La scrittura è una specie di “terapia” per l’autore, per ricordare a se stesso chi è veramente.
Mi sono ritrovato nell’esercito dove se dici quello che pensi hai dei casini, dunque devi fare finta di non essere quello che sei. Ti ritrovi nell’esercito, tu sai di essere un individuo ma non puoi in alcun modo mostrare la tua individualità perché ciò fa attrito con tutto quello che c’è intorno: devi semplicemente essere assimilabile a tutti quelli che ti stanno vicino. Ho cominciato a scrivere quindi, proprio per ricordarmi quello che ero veramente, che non ero cioè quello che mi obbligavano a essere quando ero nell’esercito. Questo sforzo esistenziale si è riversato nella scrittura.
Pizzeria Kamikaze è suddiviso in tanti capitoli lunghi al massimo due pagine e mezzo. E se il suicidio, come ricorda Pietro Cheli, non è contemplabile nelle religioni monoteiste, in Pizzeria Kamikaze diventa una specie di metafora della vita in Israele:
Quando ero nella leva vedevo tutti i miei amici che come me avevano 22 anni, che si comportavano in modo strano: erano ragazzi che combattevano, vedevano morti, essi stessi morivano, ma c’era una dicotomia tra la loro vita violenta, l’essere esposti alla violenza della guerra e un desiderio che loro avevano di vita edonistica forse per esorcizzare la morte che era loro così familiare, e volevano esplorare il sesso, le donne, la droga, l’alcool, come se queste emozioni violente e intense li inducessero già, in fondo, a rinunciare alla vita. Queste emozioni intense, questo convivere con la morte, pian piano li uccideva. Così mi è venuta questa idea: il paradiso dei suicidi è una metafora della vita in Israele, mi sembrava rendesse bene questo concetto.
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