ateatro 127.53 Una cabina per Medea Cara Medea di Antonio Tarantino, Teatri di Vita, Bologna, 22 luglio 2010 di Filomena Spolaor
Una cabina telefonica posizionata davanti a uno schermo bianco al centro del palcoscenico semibuio è il luogo in cui si dipana il filo interrotto di una conversazione. Sul rumore di una strada in sottofondo, da un fioco raggio di luce entra in penombra Medea, indossando un abito corto nero, i tacchi a spillo, la borsetta sulla spalla, con l’andatura di una spia in tempo della guerra fredda. Digita un numero e inizia a parlare in una lingua dell’Europa dell’est, con le spalle al pubblico e il primo piano del suo viso proiettato in video sullo schermo. Mette giù il telefono, si sposta verso il lato, si aggiusta il vestito e ritorna al ricevitore parlando un italiano risciacquato dalle megere caucasiche. Francesca Ballico, in un flusso impetuoso di parole lontane nel tempo che la voce carnale sembrava galoppare scuotendo il loro eco sulle doppie quinte laterali, agganciata al telefono della sua memoria emotiva, confessa a pezzi il dramma di una Medea che sviscera l’ assassinio dei suoi figli nella tragicommedia della vita coniugale. La sua sagoma felina agganciata al filo del telefono esprime l’ ira rammemorata e disturbata, alternando lingue balcaniche come il croato, l’albanese, il rumeno, affezionate a se stesse, a un italiano sghembo e alla lingua friulana, nel tentativo di riversare l’etica contenuta nel manuale d’amore della sua vita, lacerto di prestazioni sessuali. Il testo di Tarantino è il monologo di una madre assassina reclusa nella casa di lavoro a Venezia, deportata a causa degli eventi bellici nel campo di concentramento, ma arrivata l’ Armata Rossa non c’era più nessun sopravvissuto. I suoi occhi riesumati e ritmati dall’evanescente singolarità della sagoma felpata, cercavano tra gli abbagli della memoria le ragioni dell’aver ammazzato i figli, accusando il marito impiegato in un silurificio a Pola di averla tradita con un’altra Glauce. I periodi graffianti scambiano la donna straniera da soggetto a oggetto, delineando il carattere di una donna forte delle dinamiche interiori di cui è abitata, straniandosi, pur dopo le violenze subite, dal demone della passione, che l’ha portata, come nella colpa tragica della tragedia euripidea, a una dismisura; tra le sillabazioni di una sonorità tragica, il profilo dell’attrice gettava un’ombra sgraziata su quel Giasone accusato di opportunismo, e mascherato sarcasticamente da talento politico. L’attrice ha diretto il fraseggio venale di Tarantino con una perfezione sanguigna nelle pause, lasciando che il suo respiro sorseggiasse in quelle metafore poetiche che citano per esempio la repubblica artistica di Weimar nella dialettica compassionevole che fa dipendere l’amore dallo stato di democrazia o oligarchia sociale, per poi tornare ad accanirsi contro questo onnipresente Giasone, traditore su cui la Ballico imprime il peso delle rime che lo scannano come uno stonato. Confessando di aver dato fuoco ai bambini con la benzina, si rinchiude nel suo collo come un cigno nero, dondolando il ventre emarginato nella classicità o nell’attualità del feroce rapporto di coppia, sorpassando la moralità dell’eroina euripidea con un nichilismo mimico che la totalitaria civiltà delle relazioni prodotta dalla Grande Guerra macchia di un errore simile a un taccone nelle ruote di una bicicletta. Uno sguardo retrospettivo segnato da un sinuoso gioco registico delle luci, che non hanno mai oltrepassato il limite definito dall’ombra lunga di questa Cara Medea.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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