ateatro 127.46 La vocazione teatrale e le occasioni mancate di una attrice-Dramaturg Claudio Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia, Le Lettere di Oliviero Ponte di Pino
Per tutto quello che ha dato al teatro italiano, Marisa Fabbri merita senz'altro una biografia meticolosa e ricca - massiccia, verrebbe da dire, con le sue 574 pagine più il CD allegato - come quella che le ha dedicato Claudio Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia, Le Lettere, 48,00 euro). E, per quel poco che il teatro italiano le ha restituito, un'attrice anomala come lei merita una biografia che sia anche problematica e spinga alla riflessione.
La presentazone del volume. 15 ottobre 2010, foyer del Teatro Argentina, Roma: Siro Ferrone, Edo Bellingieri, Massimo Popolizio.
Non è mai facile raccontare un attore: inutile ricamare sul fatto che la sua arte è effimera, eccetera eccetera. Il problema è come contornare l'ostacolo. Una delle strade possibili è di risalire con attenzione le tracce, e cercare di capire gli inizi, le scintille che hanno acceso una "vocazione teatrale". Insomma, cercare di capire, in questo caso, come ha fatto Marisa Fabbri a diventare Marisa Fabbri. Nella ricostruzione meticolosa di Claudio Longhi, sono pagine quasi romanzesche: la città in cui cresce Marisa è quella dei romanzi di Pratolini e Bilenchi. Ma curiosamente quello che ne viene fuori è un mondo quasi diviso a metà: da un lato, in quella Firenze a cavallo della guerra, c’è l'universo delle filodrammatiche, il teatro al livello più immediato (almeno in un ambiente popolare), ma in qualche modo ancora legato alla tradizione (compresi tecniche, virtù, vezzi e vizi) del grande attore all’italiana, con il piacere dell’esibizione e del travestimento, del rapporto con il pubblico. Dall'altro però, nella scuola di teatro intermittente che Marisa frequenta in via Laura (e di cui Longhi ha raccolto tutti gli indizi disponibili, a cominciare dal ritratto del suo nume tutelare, un avvocato generosamente innamorato dei libri e del teatro), c'è una ambizione culturale, di matrice soprattutto letteraria - la grande tradizione della letteratura italiana - che dà spessore e profondità al piacere del gioco teatrale, che è e deve essere anche fatto d’arte. Questo amore e rispetto per il testo sarà il fondamento su cui costruire il rapporto con due "registi-lettori" diversi per curiosità, sensibilità e metodo, ma entrambi d'eccezione come Strehler e Ronconi.
Massimo Popolizio (al tavolo con Edo Bellingieri e Claudio Longhi) ricorda: "Marisa mi diceva: 'Sì, Carmelo era davvero un gran signore. Pensa, un giorno mi ha detto: "Ronconi ti ha fatto brava. Io ti farò ricca!"'"
Su questo aspetto si innesca, con qualche ritardo, l'incontro con la regia e con i maestri: prima Strehler, appunto, ma anche Trionfo, e poi soprattutto Ronconi, che inseriscono in una diversa cornice le matrici che hanno formato quell’attrice in un percorso in sostanza da autodidatta curiosa e intelligente: le filodrammatiche e il teatro dialettale, la consapevolezza della qualità letteraria dei testi, una tensione etica prima ancora che politica, quella che ispira anche le sue scelte di carriera. Con questi registi, Marisa Fabbri inserisce le proprie variegate (e forse divergenti) qualità in una cornice unitaria che molto difficilmente avrebbe potuto costruire da sola. Ma al tempo stesso arricchisce l’esperienza dei suoi registi: esemplare il percorso di decostruzione e ricostruzione drammaturgica che porta alle strepitose Baccanti ronconiane a Prato, vero momento fondativo del “metodo” ronconiano.
Si coglie molto bene, da queste pagine quello che ha significato per gli attori - o forse per un certo tipo d'attore - l'incontro con il regista: l'elemento in grado di connettere il teatro e la letteratura drammatica, lo spettacolo e la parola, il piacere in fondo esibizionistico, edonistico, volatile, dell'attore e le altezze, la qualità, la perennità della pagina scritta. È una scoperta e una lezione alla quale molti attori “all'antica” hanno opposto in quegli stessi anni un rifiuto più o meno furibondo, in nome della loro tradizione e della loro arte; altri attori, meno "rocciosi", si sono adattati alla "dittatura del regista", da bravi esecutori, con un atteggiamento vagamente impiegatizio. Qualcuno, come Marisa, ha invece saputo trarne il meglio, con rigore e anche un grande lavoro - "mettendoci del suo", verrebbe da dire. (E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi. Quanto, di questa creatività d'attore, viene dall'esperienza personale, dal vissuto di ciascuno, per essere in qualche modo “sfruttato” dal regista? E questo connubio, non rischia di “prosciugare” il serbatoio esistenziale dell’attore? Ancora, quanto il "metodo" di un attore, man mano che si definisce, porta alla creazione di una maschera, prefissata e rigida, e quanto spazio resta alla variazione tra le varie incarnazioni?
Perché qui si arriva al nodo problematico: perché Marisa Fabbri non è diventata un’altra cosa? Perché è stata “solo” Marisa Fabbri? Una delle domande che Claudio Longhi pare implicitamente porsi, è perché mai Marisa Fabbri, pur avendone tutte le qualità e le capacità, non sa mai diventata un Carmelo Bene o un Leo De Berardinis. E’ una domanda che ispira soprattutto la seconda parte del libro, quella dedicata agli ultimi anni di Marisa, alla sua fase decisamente più "sperimentale".
Luigi Lo Cascio parla della voce di Marisa Fabbri.
Marisa Fabbri, pur essendo una grande interprete e una personalità creativa (oltre che carismatica), non ha mai voluto diventare un "attore-autore": non ha mai compiuto il passo che l'avrebbe portata oltre il teatro di regia (oppure, volendo giocare sul paradosso, non abbia mai voluto tornare all'indietro, verso una più moderna declinazione del "grande attore all'italiana", come paradossalmente hanno fatto, in chiave sperimentale e colta, Leo e Carmelo).
Le riposte che dà Claudio Longhi sono implicite e intrecciate tra loro. C'è un elemento generazionale, senz'altro. C'è di sicuro il fatto che per una donna era allora molto più difficile che per un maschio (e lo è ancora oggi). C'è forse la consapevolezza di un limite culturale (anche se si sono autoinvestiti della funzione di autore diversi attori senz'altro meno colti e intelligenti di Marisa). C’è come, ha notato Luigi Lo Cascio durante la presentazione del saggio al Teatro Argentina di Roma, i rispetto assoluto per il testo. E poi c'è forse - ma magari è una mia interpretazione maliziosa - anche una sorta di “nostalgia ideologica”, o forse e meglio c'è la necessità di una garanzia ideologica rispetto alla lettura del testo, che fa sì che la figura legittimante del regista resti necessaria, indispensabile.
Alla fine, quella che racconta Claudio Longhi è per un verso una storia molto bella: una grande persona, prima che una grande attrice e una vera artista. Una personalità generosa, coerente, che sapeva entusiasmarsi ed entusiasmava gli altri, i suoi colleghi e gli spettatori. È la storia di un’artista che costruisce e affina progressivamente la propria arte, con una serie di scelte professionali consapevoli, sapendo bene che in teatro - e in genere quando si tratta di arte e conoscenza - non si smette mai di imparare. La parabola di una artista di successo che, al vertice della carriera, sceglie di mettersi in gioco e rischiare, affidandosi a registi e drammaturghi più giovani.
Ma la carriera di Marisa Fabbri è anche - per usare un'espressione cara a Claudio Meldolesi, mentre Longhi cita Taviani, sulla "lancinante inadeguatezza" sull'inappartenenza al teatro del grande attore - la storia di una "occasione mancata": non solo e non tanto per alcune sue delusioni professionali, per così dire, ma per il fatto che la realtà teatrale italiana non ha permesso a Marisa di diventare qualcosa d'altro. Verso la fine della carriera, il nostro sgangherato sistema teatrale l'ha quasi spinta in quella direzione – per certi aspetti contro la sua natura più autentica, in condizioni oggettive sempre più difficili. Anche se poi quello stesso sistema culturale e prduttivo non le ha permesso di arrivare fino in fondo: come ha notato lo stesso Longhi alla fine della presentazione, con un ruolo più da attrice-Dramaturg che da attrice-autrice.
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