ateatro 127.41 Nel corpo dell'attrice Maria Paiato è Erodiade nel monologo di Giovanni Testori di Fernando Marchiori
Maria Paiato è Erodiade (foto Pino Le Pera)
Per Giovanni Testori Erodiade è una battaglia che si combatte su quel terreno minato che è il corpo dell’attrice. Pensa alle figure di Francis Bacon, lo scrittore lombardo, quando riscrive il testo sulle misure attorali di Adriana Innocenti, nel 1984, scendendo in campo egli stesso come regista. Fugate le ombre di decadentismo secessionista che vedeva allungarsi sulla prima stesura risalente al 1967-’68, scritta per Valentina Cortese e mai portata in scena, ora Testori coglie in pieno la metafora del teatro che agita il sottotesto e ne assume tutte le conseguenze sceniche, rovesciando in primo piano la potente struttura metateatrale del suo lavoro. Così lo spettacolo simula una prova – quasi a dimostrare che «la prova è poi l’unico modo di far teatro», dirà l’autore, perfettamente in linea con le più sapienti sovversioni della ricerca novecentesca –, il bacile con la testa del Battista è sostituito dalla cavea da cui il pubblico viene continuamente chiamato in causa e il sacrificio diventa metafora dell’arte dell’attore, l’incarnazione essendo «una assoluta necessità per un teatro che voglia oggi esistere». Come e più di altre opere testoriane – l’autore la considerava drammaturgicamente la più violenta – Erodiade ha bisogno, in tutte le sue versioni, di una presenza scenica disposta a lasciarsi penetrare dalle convulsioni del testo e insieme capace di sostenere, nel corpo a corpo lascivo e dolente, lo sguardo presente dello spettatore e quello assente dell’autore, «l’indegno cane che va scrivendomi». Le interpreti dei lavori di Testori – da Pupella Maggio a Rosa Di Lucia, da Lilla Brignone a Adriana Asti, da Franca Valeri fino a Arianna Scommegna, recente Cleopatràs – ci ricordano sempre che non siamo fatti della sostanza dei sogni, ma di carni tormentate e anime perdute. Tuttavia Erodiade, su cui non a caso l’autore tornerà ancora una volta poco prima della morte, impone un investimento ulteriore nel superamento della finzione teatrale, perché «in teatro il dramma di Erodiade è anche il dramma dell’attrice che la recita», spiegava Testori. Lo sa bene Iaia Forte che l’anno scorso con Sandro Lombardi ha complicato ulteriormente le cose intrecciando Erodiade a Erodiàs, l’estrema e linguisticamente la più inventiva versione del lamento. Come già nel 1991 Raffaella Boscolo, con la regia di Antonio Syxty, l’Erodiade di Maria Paiato diretta da Pierpaolo Sepe muove invece dalla prima versione, matrice delle elaborazioni che ne seguirono, rispetto alle quali suona ancora “accettabile”, ovvero riconducibile a una convenzionalità rappresentativa poi radicalmente messa in questione. Scelta comprensibile in tempi di normalizzazione, e particolarmente adatta al debutto avvenuto all’interno del 63° ciclo di spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza. Asciugata e ripulita dei pur cruciali affondi metateatrali, ritenuti forse troppo ingombranti, la messinscena resta dunque quasi sempre tale e il monologo può concentrarsi sulla lotta impari e disperata tra la concubina di Erode e il Battista, attraverso il quale è Cristo stesso a essere tirato in ballo, un Cristo ancora lontano e già scandaloso. Erodiade ha lasciato il suo posto – il potere, la ricchezza – alla figlia Salomè in cambio della testa del Battista, che ha rifiutato il suo amore. All’integrità ostentata dal profeta lei oppone il disfacimento; al suo messaggio di salvezza celeste, la sciagura terrena; all’«incrocio sconcio e bastardo in cui il tuo Dio s’era fatto carne e sangue», un incrocio di umiliazione e offesa, «una corruzione che dilagasse nella reggia, una corruzione di carne senza legge e senza dèi». Maria Paiato regge e controbilancia con il suo fare diretto e sanguigno l’ornato testoriano già impegnativo nella prima versione. Sembra seguirlo con la partitura gestuale e trattenerlo con quella vocale. Per interrogare il nucleo della narrazione evangelica della cattura di Giovanni Battista da parte di Erode (Luca 3,19-20) e della sua decapitazione (Matteo 14, 3 sgg), Testori cerca infatti di spolparlo dagli strati sovrapposti dei modelli del realismo e del decadentismo (da Flaubert a Wilde a Mallarmé), e lo fa, paradossalmente, affondando le unghie della retorica amorosa, il barocco della sensualità mistica, della carnalità orante, dello sproloquio erotico di fronte all’oscenità di un dio «uscito anche lui dalle viscere inquiete e martoriate di una donna». L’attrice rodigina trova fin dalle prime battute una difficile medietà tra la radicalità del dettato testoriano e le necessità spettacolari di un allestimento destinato al pubblico dei grandi teatri, a cominciare da quelli che lo producono, lo Stabile del Veneto e l’Eliseo di Roma. I lunghi, calorosi applausi nelle serate del debutto vicentino al Teatro Olimpico hanno confermato che l’operazione in questo senso è andata a buon fine. Quel che colpisce è, ancora una volta, la potenza e la raffinatezza di un’attrice anomala nel nostro panorama, colta e popolare a un tempo, testoriana anche prima dell’incontro con Testori. Di fronte alla precisione del suo monologo, all’immediatezza con cui scioglie dei nodi interpretativi e drammaturgici di una complessità paralizzante, le scelte “modernizzanti” adottate per costumi, musiche e scene risultano tuttavia inutili orpelli. Perché i nodi sono qui il teatro interiore di un’interprete visitata da una grazia urlante, quella di un Anticristo assalito e abitato dal Cristo, e le scelte sono il lungo vestito da sera rosso e la pelliccia bianca, la musica rock e gli occhi pesantemente truccati di nero. I nodi sono il tormentato disvelarsi di un corpo-mente in scena e la natura stessa del teatro, le scelte sono i tacchi alti su un pavimento di vetro, le luci stroboscopiche e i guanti rossi per le mani insanguinate dal suicidio. Quando infine le luci si accendono sulle gradinate palladiane e l’attrice, scalza e scomposta, si avvicina agli spettatori, ci si ricorda per un momento di essere, di là dell’«immensa parete d’aria», parte in causa.
Maria Paiato è Erodiade (foto Pino Le Pera)
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