ateatro 126.54 Le passioni del corpo e i sensi interni La Biennale Danza 2010 di Fernando Marchiori
Risvegliare una “passione corporale”, provocare emozioni fisiche collegando i “sensi interni” della memoria e dell’immaginazione ai “sensi esterni” della vista e dell’udito. Capturing emotions, settimo Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, il quinto con la direzione di Ismael Ivo, ha proseguito una esplorazione affascinante della danza come “sentimento contagioso”, confermando le due grandi direttrici di interrogazione e sperimentazione già ben delineate nelle precedenti edizioni curate dal coreografo brasiliano. Da una parte l’idea della danza come fenomeno non isolato dal mondo esterno, rispetto al quale è chiamata invece ogni volta a cercare corrispondenza e necessità. Dall’altra la visione della coreografia come pratica di comunicazione che costituisce “un momento di unità all’interno del teatro”.
Tristi Tropici della Compagnia Virgilio Sieni è uno dei migliori esempi della possibile convergenza di tali direttrici. Un debutto atteso, quello di Sieni, che ha fatto il tutto esaurito al Teatro Piccolo Arsenale nelle due serate d’avvio di un importante tour europeo (Napoli, Lione, Belgrado, Berlino). Come a ricordarci l’insanabile lontananza di un’alterità perduta due volte (perduto il “selvaggio”, perduto lo sguardo su di lui), dopo il primo sipario colorato bisogna strapparne un secondo, bianco filtro alla quadratura lattiginosa dello spazio scenico, per inoltrarsi nell’esperienza di una visione dell’incontro mancato. Un incontro sfumato nei colori opalescenti, aranciati, verdastri in cui i corpi quasi scompaiono. Disturbato dai clangori (ronzii ossessivi, insetti, elicotteri) che screziano il paesaggio musicale ipnotico, vera scenografia emotiva, di Francesco Giomi. Sottratto alla visione dal tulle che riduce a ombra, dal controluce che disegna le silhouette.
In scena due danzatrici (Simona Bertozzi e Ramona Caia) disarticolano i loro corpi moltiplicandone tensioni e disequilibri. Microrganismi in continua trasformazione, le loro membra sembrano staccarsi e impastarsi in corporeità inventate a scatti, a strappi. Posture animali, movenze sulle mani, sugli avambracci, su un ginocchio. Archi improvvisi che avanzano come scorpioni. Oppure sono giochi, scherzi di natura, movimenti involontari nel sonno tropicale, accelerati. Corpi strattonati, portati inerziali di movimenti nati da impulsi che sembrano esterni ai corpi e li aggrovigliano, ne sezionano i gesti, ne fissano il bacino o le cosce mentre agitano scompostamente il resto.
Nel bel saggio che accompagna il volumetto dedicato allo spettacolo, Vito De Bernardi paragona la danza contemporanea alla pratica del bricolage, a sua volta utilizzata da Claude Lévi-Strauss per spiegare la natura del mito. Come nel laboratorio del bricoleur, il mito ricicla briciole di altri miti, le riassembla creando qualcosa d’altro, aggiungendo qualcosa di sé a ciò che conserva vita e significato residui. Così è anche il danzatore contemporaneo, capace di ri-usare i resti del patrimonio del balletto classico e moderno per articolare i segni di un nuovo linguaggio, svincolato dai codici tradizionali e capace di richiamare il gesto dell’origine.
Ma c’è anche, fortissima, l’impressione di una cesura consumata, in Sieni con profonda consapevolezza, nei confronti dei codici espressivi di quella tradizione e della evoluzione secolare dell’arte coreografica. “Addio selvaggi, addio viaggi”, concludeva amaramente Lévi-Strauss il suo struggente saggio, decretando la scomparsa di un mondo e nel contempo fondando un’altra prospettiva antropologica che da allora si nutre della lontananza, della nostalgia, della compromissione dello stesso sguardo dello studioso. “Addio danza”, sembra dire ancora una volta Sieni, riaffermando nel contempo, caparbiamente, la possibilità del gesto che indichi, del corpo che esprima. Che indichi ciò che si allontana. Che esprima quello che resta. “Un corpo che agisce attraverso un desiderio di gioia. Un corpo dove la gioia è esperibile attraverso la danza. Un corpo attraverso cui nutrire ancora un barlume di speranza verso la bellezza”, scrive Sieni. Un corpo che ha qui anche le vibrazioni Michela Minguzzi e le delicate esitazioni di una danzatrice settantaduenne (Elsa De Fanti), di una ragazza non vedente (Dorina Meta), di due bambine. A gruppi o tutte insieme avanzano lentamente portando sul collo degli animali, si siedono, ci guardano. Tornano a scomparire con il loro mondo in un tramonto che assorbe anche il nostro sguardo, il nostro mondo.
Un curioso leone d’oro
«Siate curiosi, ricordatevi di esserlo. E non abbiate timore di ammettere che non sapete delle cose. Siete fortunati a non sapere». In questi consigli ai giovani danzatori che una ragazza riesce a strappargli alla fine della conferenza stampa, c’è tutta la personalità, artistica e umana, di William Forsythe, il ballerino e coreografo statunitense che ha ricevuto a Venezia il Leone d’oro alla carriera. Nato a New York nel 1949, formatosi in America ma divenuto coreografo di fama in Germania, Forsythe curioso lo è sempre stato, uno sperimentatore a oltranza che ha lavorato dal di dentro il balletto classico decostruendone il linguaggio e ricomponendolo su linee di movimento originate da punti inattesi del corpo, la nuca, un tallone o un gomito. Cambiando così anche il nostro sguardo sulla danza classica. Un pragmatico innovatore, un «risolutore di problemi», convinto che «non ci sono regole» e che il vero successo non sia la recensione esaltante ma l’approvazione di chi lavora alla performance, dai danzatori ai tecnici.
Le opere realizzate con il Frankfurt Ballet – da Artifact (1984) a Alie/n a(c)tion (1992), da Impressing the Czar (1988) a Quintett (1993), a One flat thing reproducing (2000) – sono oggi rimontate dalle grandi compagnie internazionali. Ma la Forsythe Company, nata nel 2005, è ancora capace di sorprendere e sconcertare il pubblico. Al centro è sempre l’autonomia del danzatore, il rispetto del suo «fare» dentro una coreografia rigorosa che nasce spesso dal lavoro collettivo. Erede di Balanchine e lontano dal teatrodanza di Pina Bausch, Forsythe è uno dei grandi creatori dell’arte del movimento, portatore di un pensiero coreografico in continua evoluzione, nomade e strutturalista, oggi materializzato anche nei suoi «choreographic objects» presenti in molti musei (uno era esposto proprio alla Biennale Arte dello scorso anno). Oggetti che dimostrano come anche le “cose” possono essere animate in senso coreografico dallo sguardo di chi le guarda.
Ma ai suoi danzatori Forsythe ricorda che il soggetto è il lavoro, non la coreografia. Un lavoro comune, concreto, inquieto. Una continua esplorazione che dal corpo si può espandere allo spazio, alla voce, ai processi percettivi. Tra le richieste più recenti rivolte ai performer della sua compagnia, per esempio, c’è quella di memorizzare l’appartamento in cui vivono, ma di farlo bendati, obbligandoli a misurarsi con schemi mentali che non corrispondono alla “realtà”. Come se dovessero provare uno stile coordinativo, creando nella memoria un altro spazio che diventerà movimento.
I 19 minuti di N. N. N. N. presentati in occasione della consegna del Leone d’Oro sono un perfetto esempio, ironico e calibratissimo, delle possibilità esplorative che il «dispositivo Forsythe» consegna alle nuove generazioni.
Pedagogia
In questo senso è prezioso anche il Leone d’argento, il nuovo riconoscimento per le giovani realtà della ricerca, assegnato quest’anno a un centro di innovazione pedagogica come il PARTS (Performing Arts Research and Training Studios) di Bruxelles diretto da Anne Teresa de Keersmacker. L’attenzione alla formazione e alla creazione di opportunità per i giovani danzatori è del resto il cuore dell’Arsenale della Danza, un percorso di ricerca e scambio che, sotto la direzione di Ismael Ivo e con la presenza di maestri internazionali, ha rivitalizzato la Biennale.
Per quanto Oxigen, su coreografia dello stesso Ivo in apertura del festival, abbia mostrato i limiti di un’operazione che cercava visibilità per tutti i 22 allievi, la bontà del processo formativo è fuori discussione. L’Arsenale della Danza è un’esperienza eccezionale nel panorama italiano, che merita continuità e risorse.
Tra le molte novità presentate al festival veneziano, si segnala la prima europea di Le nombre d’or della compagnia di Marie Chouinard, un ambizioso lavoro con performer provenienti “da un futuro amichevole”, che sembrano muoversi tra animalità e commedia dell’arte. Corpi e capelli imbiancati, nudità inermi, visioni mediate da monitor verticali, mascheroni con volti di anziani (e in una scena anche di un inquietante Berlusconi serializzato). La danzatrice québécoise ha portato alla Fenice anche il suo intenso assolo Gloire du matin, che l’ha vista tornare in scena dopo vent’anni. Québéc e Canada da una parte (Chouinard, Daniel Léveillé, Les Grands Ballets de Montréal, José Navas, Wen Wei, Kidd Pivot), Canada e Australia dall’altra (Sidney Dance Comany, Ros Warby, Chunk Move, Lemi Ponifasio) sono state le altre presenze forti di questa edizione. Ma applauditissimo anche il ritorno in Laguna di Bill T. Jones con la sua compagnia multietnica e politicamente scorretta per uno spettacolo appositamente creato per le Tese dell’Arsenale, Another evening: Venice.
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