ateatro 126.49 Una sottile e ironica anti-storia del teatro Una lettera aperta sull'Avaro delle Albe di Andrea Porcheddu
Cara Ermanna, Caro Marco
Sono passate settimane, dal vostro Avaro. E sono ancora qua a girare intorno, con la testa, a quelle immagini, a quelle suggestioni, a quelle parole che partivano da Molière, passavano per Garboli e arrivavano a noi grazie al vostro lavoro.
Come sempre il vostro teatro è, per me, un magma che resta dentro, ribollente, scomodo, affascinante. Qualcosa con cui non smetto di fare i conti, anche solo per una intuizione che mi regala, per una suggestione in più che mi svela – come scriveva Flaiano – la “mia autobiografia”, ossia quello che sono e che penso di essere nel momento in cui mi siedo in platea.
Allora, rileggendo il vostro Avaro, ho trovato una doppia strada, un percorso tra realtà e scena che mi ha portato e ancora adesso mi porta, a guardarmi e attraverso me guardare il teatro del nostro tempo.
Sbrigo subito il primo aspetto.
“Azzerare tutto” diceva Leo de Berardinis in una intervista molti anni fa, ora ripubblicata nel bel libro curato da un altro grande maestro come Claudio Meldolesi. Azzerare tutto per ricominciare, per concentrarsi, per capire dove stiamo andando. Allora io – parlo di me, scusate la digressione così personalistica – sto facendo aspramente i conti con il mio percorso umano e professionale: e ho guardato in faccia le ambizioni e i fallimenti. Un mestiere, quello del critico, sempre sull’orlo del baratro: e trovarsi - passati ampiamente i quaranta - a fare i conti brutalmente con quello che avremmo voluto essere e con ciò che siamo, è molto fatico. Forse rinfrancante, certo: che una dose di sana coscienza dell’inutilità del proprio essere “intellettuali” a fronte di una vita che chiede soldi, successi, praticità, politica, forse aiuta. Ma tant’è: sono “emigrato” al Nord – fuggendo da una Roma sempre più papalina, politichetta, borghesuccia, annoiata – più per ragioni di catastrofi private che non lavorative, ma una volta aperto lo spiraglio di questa feroce autoanalisi, nulla resta fuori. E la critica, quando si fa autocritica, è ancora più aspra. Allora ho azzerato, tutto. Svuotato me di me. Per ricominciare.
Ecco, dunque, che quella scena ordinata, bella, borghese, ma con monitor postmoderno che ci accoglieva in apertura dell’Avaro, è – per me – quella vita là, quella di prima. Poi, piano piano, arrivano i tecnici, e portano via. Azzerare tutto, perché il teatro ricominci. Togliere quegli elementi posticci, quei lughi comuni, togliere quelle suppellettili per pulire lo spazio, per lasciare il vuoto. E non aver paura del vuoto. Del nero, del buio.
Ecco, allora, l’altro elemento. La favola nera, direbbe qualcuno.
Di questo Avaro non mi interessa l’avarizia. Non mi interessa il denaro, il capitale, la storia come si dipana. Certo, c’è tutto Molière, con Ermanna straordinaria a tratteggiare quella specie di mostro.
Ma c’è altro, molto altro. Da un lato mi piace pensare al vostro lavoro come ad una critica serrata ai meccanismi di comunicazione. Al mondo di informazioni, notizie, che ogni giorno ci bombarda. L’arroganza del microfono: ecco cosa è l’Avaro. Qui è il suo potere, quel detenere uno scettro che fa la sua voce più forte. Gli altri - succubi volenterosi, smaniosi ribelli - cercano di entrare in quel microfono, cercano di competere sul territorio in cui lui è signore e maestro. Non sono che un coro di voci pallide, lontane, piccole. La tecnologia è di Arpagone: è lui che possiede i mezzi, gli strumenti del comunicare. È lui – piccolo B. d’antan – che cerca di tenere tutto e tutti sotto controllo. Il suo potere comincia a vacillare nel momento in cui gli altri, sfrontatamente, gli strappano lo scettro amplificato. Fosse così anche nella realtà, sapremmo cosa fare, per far crollare il potere di questo despota che abbiamo al governo…
E qui si svela un altro volo nel contemporaneo del nostro Molière-garboli: l’accumulo capitalista non è più solo di quell’oro caro ad Arpagone, quello non c’è neanche bisogno di vederlo, i capitali sono off-shore ormai. No, qui il denaro è un pretesto, una traccia, una scheggia del potere che si cela, e che invece per mostrarsi usa i mezzi della retorica.
Così scivoliamo, o arriviamo, all’altro tema, quel che più mi preme sottolineare del vostro spettacolo. Vi ho trovato, e non credo fosse una mia fantasia, come scorresse sottotraccia, come un fiume carsico, una sottile e ironica anti-storia del teatro. Affrontando il più dissacratore tra gli autori (molto più, caro Marco, del tuo amato Aristofane), è come se aveste messo in scena un viaggio a ritroso nel tempo e nelle possibilità del teatro. È come se lo spettacolo iniziasse con i “servi” di scena, con quel grado zero di rappresentazione-assenza, che poi si dipana in “maschere” (anche laddove maschere non sono) dei familiari di Arpagone. Maschere da commedia dell’Arte, tipi, caratteri forzati e a tratti isterici: adirittura macchiette nell’umana tragedia.
Poi c’è il grande personaggio, incarnato, reso vivo da Ermanna: personaggio totale, ambiguo, sfuggente, complesso, profondo e articolato. Nero abbiamo detto tutti: nero come lo spettacolo, nero come il testo, ossia oscuro, violento, macabro, cinico. Ma non si salva nessuno in questa commedia, no?
Il gioco scenico amplifica questa prospettiva: ad un certo punto ci troviamo dentro un bell’interno borghese, quasi da dramma primonovecento, con la scenografia ricostruita così, pian piano, con quegli elementi posticci che tornano a comporre il mosaico improbabile di uno spazio fintovero. È qui l’apoteosi del grande attore, del mattatore, del teatro di interpretazione, anche se subito si smonta nella ironia caustica, decostruttiva, dialettica che Ermanna e gli altri mettono nei loro personaggi. Allora il passaggio immediato, per proseguire in metafora, è da Scaramouche, a Stanislavskij a Brecht: in un gioco di raffinate citazioni, di improvvise sterzate, di volute affascinanti che avvolgono l’inconsapevole spettatore.
Ma eccoci al finale: a quel finale che Molière volle dichiaratamente appiccicato, consolatorio, stucchevole, come era già nel Tartuffe.
Assistiamo, sorpresi, all’entrata in campo del regista – più regista che personaggio, dunque! – incarnato da te, Marco. Ed è la conclusione momentanea del viaggio. Il regista dispone, trova una soluzione, si fa drammaturgo e poeta, suggerendo nuovi sviluppi per portare a termine lo spettacolo, altrimenti sospeso in un finale impossibile. E il regista ha il microfono, al pari di Arpagone…
Ci sono tutti: maschere, attori, regista. Tutti necessari, tutti con-presenti, vivi. Bene.
E il pubblico? Allora qui voglio domandarvi, chiedere se quella presenza del regista-autore-personaggio in platea, le luci di sala accese, la consapevolezza che noi – spettatori – fossimo lì con voi, non sia il segnale di una ulteriore possibilità. Quella comunità, affratellata (che bel termine ci ha regalato Pasolini, quando diceva: affratella e inginocchia..) nell’essere teatro, dentro e con il teatro, è forse la via di salvezza, di senso, di libertà del teatro inteso ormai come società, come vita quotidiana e collettiva. Ossia, finiti i giochi, le rappresentazioni, lo scontro per il potere-comunicazione, le soperchierie per il denaro o per il controllo degli altri, finito tutto, sgombrato tutto (ancora una volta, azzerato tutto), cosa ci racconta il teatro? Che questa grande e miserabile partita che giochiamo tutti i giorni - come primattori o comprimari, come maschere o intellettuali più o meno ridicoli – ha valore, senso, solo se fatta assieme, in comunità (parola antica, ormai passata di moda) o in tribù (anche questa una parola antica, ma che invece sta tornando prepotentemente d’uso).
Il teatro, a volte, ci regala il privilegio della comunità o della tribù. E a volte ci salva la vita.
Vi abbraccio
Andrea
Venezia, 26 maggio 2010
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