ateatro 126.41
Megaloop!
I trent'anni del Tam in mostra a Padova
di Anna Maria Monteverdi
 



E’ il 1980 quando Michele Sambin, Pierangela Allegro e Laurent Dupont - unendo le rispettive professionalità nel campo delle arti performative, della musica e della videoarte sperimentale - danno vita alla compagnia Tam Teatromusica con sede a Padova. Nella mostra che celebra il trentennale della compagnia, Megaloop a cura di Riccardo Cardura, aperta fino all’inizio di giugno, va in scena la memoria, in un allestimento generoso, ricco e curatissimo che rende onore al coerente lavoro artistico, intermediale per eccellenza, del TAM. Attraversando lo spazio, lungo le diverse stanze, vengono letteralmente alla luce i fili del tempo, quasi inseguendo la raffinata traiettoria di immagine-suono che ha contraddistinto il gruppo sin dagli esordi.
In mostra i video degli spettacoli ma anche i progetti, gli oggetti di scena, gli strumenti musicali modificati ad arte, le tracce visive che altro non sono che originali story board a firma del poliedrico Michele Sambin (musicista e artista visivo), simili a partiture musicali e a pregevoli bozzetti di scena in cui prevale il tratto pittorico ad acquarello. Incontriamo Sambin e la Allegro che ci guidano in questo percorso sinestetico dentro la memoria del Tam. La prima stanza ospita il “pre-“, vale a dire l’attività di Sambin tra il 1976 e il 1979, quando all’interno dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia sperimentava opere concettuali con un Videotape AKAI ¼”, memore di Cage, Moholy-Nagy, Norman Mac Laren, Oskar Fischinger. E’ in questi anni che inventa la tecnica del loop applicata sistematicamente a video performance vocali e musicali (da qui anche il titolo della mostra): unendo la bobina di registrazione a quella di lettura, prende vita un anello infinito di immagini video che scorrono e si deteriorano nel tempo, restituendo nel vecchio monitor Sony Trinitron un corpo che si sdoppia all’infinito, che parla con sé stesso. Il video diventa davvero macluhaniamente un’estensione del corpo del performer.



All’interno del sito del Tam ma soprattutto all’interno del volume antologico uscito per l’occasione da Titivillus che raccoglie minuziosamente tutto il percorso degli artisti con molte foto a colori e dvd allegato, è possibile avere una testimonianza di queste pionieristiche prove di videotape d’arte, unanimemente riconosciute come il debutto dell’arte elettronica in Italia (vedi il catalogo di Bruno di Marino, Elettroshock. Trent’anni di video arte in Italia e il catalogo Invideo 2003 dedicato a Michele Sambin).
Nella prima sala, quella della “preistoria” troviamo le tracce di quel fertile periodo degli anni Settanta a Venezia, in cui la sperimentazione artistica aveva creato fecondi intrecci tra le arti, comprendendo la cinepresa prima e poi il videotape, complici alcune storiche Gallerie d’arte come quella del Cavallino di Paolo Cardazzo: in un’opea emblematica come “Playing in 4,8,12” (1977) troviamo il concetto chiave di “monitor come partitura” per un’esecuzione musicale e performativa. Ai quattro lati di una stanza sono collocati altrettanti performer che guardando il monitor “interpretano” lo strumento che viene di volta in volta inquadrato, seguendo ritmi e intervalli ben definitivi ma con una possibilità di margine improvvisativo e di spazio al “caso”. Il video maker (Michele Sambin) fa movimenti in verticale e in orizzontale con la camera e assembla il tutto con un mixaggio in diretta che divide in quattro lo spazio del monitor: “L’idea è che segni visivi e sonori creino una struttura inscindibile e il principio è dare una comunicazione che non distingua aspetti sonori e visivi creando una perfetta orchestrazione”.



Dal video come partitura alla video performance: con “Looking for listening”, commissionato dall’Archivio della Biennale di Venezia ASAC, il video diventa un’estensione delle possibilità creative del corpo. “Il tempo consuma”, l’opera più tautologica e concettuale di Sambin, significativamente apre (e chiude a loop) la mostra: si tratta di un’opera cerniera con cui Sambin consegna al Tam il proprio bagaglio sperimentale di arte che tratta il tempo, lo manipola, lo inverte e lo rende infinito: “Nella necessità di indagare queste molteplici possibilità di espansione espressiva–dice Sambin- indago l’idea di infinito, cioè un processo generato dal performer che il dispositivo moltiplica senza fine, e così facendo rifletto anche sulla caducità della scrittura elettronica e del supporto che la ospita”.
Sambin ricorda così il passaggio dalla video performance al teatro, un passaggio in qualche modo obbligato: "Il mio passare al teatro è dovuto - grazie o purtroppo - alla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. In quegli anni c'era una grande esplosione di performatività. Ho vissuto con gioia gli intrecci delle arti, gli incontri con Laurie Anderson e Marina Abramovic, personaggi che hanno tracciato una linea di non pittura, di non scultura, lontani dal mercato. La Transavanguardia ha spezzato queste utopie degli anni Settanta, che mettevano in crisi il sistema dell'arte (i video non si potevano vendere). Bonito Oliva ha riportato l'arte alla disciplina: pittura e scultura. E soprattutto la restituisce al mercato»
“Armoniche” (1980), creato per Palazzo dei Diamanti di Ferrara (all’interno della Sala Polivalente) diretto all’epoca da Lola Bonora, è il primo lavoro del Tam: segna anche il passaggio di Sambin dalla videoarte alla performance. Una griglia di intervalli musicali definiti da alcuni tracciati disegnati a terra che componevano le figure del quadrato, della retta, delle parallele e della stella, stabiliva le coreografie base dei performer; questi inspiravano ed espiravano attraverso un’armonica a bocca dandosi il tempo; sui loro corpi venivano proiettate inoltre linee geometriche.
“Noi non pensiamo mai a un lavoro di letteratura ma sempre a uno spazio in tempo reale che ospita delle azioni. In “Armoniche” tutto è ricondotto al corpo come punto focale, alla primarietà di un corpo in movimento, a un respiro reso musicale dalle armoniche che i performer usano per amplificare l’inspirazione. Tutto viene poi messo in relazione allo spazio e al tempo dell’azione, arricchito da piccole variazioni compositive ritmiche, liberate dallo schema iniziale”.



Per restituire al meglio il percorso della memoria di un’arte effimera per eccellenza e non riproducibile come il teatro, il Tam ha previsto per alcune serate in occasione della mostra, una sintesi performativa dei lavori con l’interpretazione di alcuni giovani collaboratori della compagnia e l’accompagnamento live della musica di Sambin al sax o al clarinetto basso. Così la mostra (e la memoria) è realmente teatralizzata. La storia di ieri arriva sino ad oggi senza soluzione di continuità. A loop.
Ogni stanza ha un titolo e un tema che la contraddistingue, e ospita una selezione di opere teatrali in video e videoinstallazioni con relativa colonna sonora-visiva, rappresentata dai colorati story board, spesso suggestioni di colori messe in una sequenza da time-line che denotano un’attenzione per una nascita sincronica e sinestetica dell’opera e che, come precisa Sambin, “Servono per immaginare l’opera e comunicarla al performer, sono possibilità di immaginare certe situazioni sulla carta ma non vogliono dettagliarle. I disegni non prevedono mai una scrittura testuale: mi è più vicino il linguaggio dell’immagine”.
Il riferimento agli story board teatrali di Robert Wilson (in particolare quello per Einstein on the Beach e per il più recente Hamlet) è quasi automatico, anche se in Sambin l’elemento musicale da partitura, spartito, sempre visivamente presente, conferisce a questi disegni preparatori un’originalità assoluta; creati ad acquarello in formato 50x35 cm, gli story board hanno la qualità e la dignità di pitture, vere opere d’arte a sé, come del resto lo erano i bozzetti di Caspar Neher per Brecht.



Una delle stanze più affascinanti è senza dubbio “Il corpo come strumento” dove, a partire da Mauricio Kagel e della sua opera “Repertorie”, il Tam inizia un lavoro di rifondazione del linguaggio corporeo. In mostra le forme poliedriche aperte in alluminio che ospitavano le performance del Tam intorno a uno strumento a fiato, imitandone la forma e relazionandosi nello spazio. Approdano così a una reinterpretazione originalissima e concettuale dell’oggetto-strumento, soprattutto il violoncello, in un gioco di similitudini ironico ed erotico insieme che porta a uno sdoppiamento, a una corporeità sonora, a una umanizzazione dello strumento musicale e delle sue forme sinuose che sarebbe piaciuto moltissimo a Nam June Paik, che proprio all’umanizzazione dell’elettronica aveva dedicato la serie di “Tv Bra” con Charlotte Moormann al violoncello che indossava piccoli video come reggiseno. Il gioco di rimandi tra corpo e strumento raggiunge il suo apice con “Perdutamente” ispirato al “Violon d’Ingres” di Man Ray e “Se San Sebastiano sapesse”, spettacolo-manifesto del Tam ispirato all’iconografia del martirio di San Sebastiano, dove a essere trafitto, ma dagli archetti, erano il violoncello e il corpo sensuale che lo replica. “Blasen” è forse l’opera simbolo di questo percorso concettuale, in cui un’affascinante Pierangela Allegro suona il trombone muovendo la coulisse e generando la variazione di luce di un faretto collocato all’estremità dello strumento: avvicinandosi e allontanandosi dal suo volto, la illumina o la tiene in ombra. Impossibile non ricondurre queste esperienze ai contemporanei lavori di Laurie Andersen, in particolare al famoso Tape-bow violin, con una testina da registratore al posto delle corde e un nastro magnetico inciso sull'archetto.



Il percorso continua nel segno di una “drammaturgia sonora” in cui l’ispirazione viene da opere letterarie, cinematografiche e musicali preesistenti. E’ il caso di “Il sogno di Andrej Rublov” ispirato al film di Tarkowski e alla sceneggiatura del regista russo: “Ci siamo ispirati al tema della contrapposizione tra sacro e profano del film”, ricorda Sambin: “dipingere per Dio o dipingere per gli uomini? Dopo aver usato supporti tecnologici siamo tornati a una performance con materiali, con la pittura, con pigmenti di colore, con segni tracciati in tempo reale. Successivamente abbiamo realizzato una videoinstallazione, “Aperto al sogno”, prendendo tutte le tele che erano state realizzate durante la lunga tournée dello spettacolo, mettendole insieme a formare un labirinto da attraversare che finiva a una Sancta Sanctorum dove tre video della dimensione 1:1 proiettavano le immagini dello spettacolo dove quelle tele venivano colorate. Era come vedere il risultato (la tela) e tornare alla sorgente (il momento in cui la tela viene pitturata)”.
In questo caso la dimensione e la forma pensata originariamente per la videoinstallazione riproponeva la forma sacra del trittico.
Con l’allestimento di “Barbablù” (da Béla Bartok), “Ages” (da Bruno Maderna) e “Children’s Corner” (da Debussy), il Tam si misura con una dimensione diversa da quella degli inizi, legata soprattutto alle gallerie d’arte e ai circuiti dell’arte visiva contemporanea: il repertorio del teatro d’opera e del teatro musicale e le commissioni da parte delle grandi istituzioni come la Scala o la stessa Rai Orchestra, il grande pubblico e i grandi palcoscenici danno al gruppo la possibilità di confrontarsi con una tecnologia (audio, video, e luci) adeguata alle proprie esigenze, permettendogli di raffinare e sperimentare tecniche sempre nuove, grazie anche a giovani collaboratori che cominciano a partecipare all’avventura TAM. Studiate spazializzazioni sonore, straordinari progetti luce, grafica video e animazioni d’effetto in scena (come in “Anima Blu” ispirata al mondo pittorico di Chagall) diventano sempre più la cifra dominante della loro estetica teatrale-musicale. La cabina di legno insonorizzata che ospita una cuffia binaurale può permettere al visitatore della mostra di immedesimarsi per qualche momento nell’idea scenica-musicale del Tam, che in Barbablù sperimenta un’elaborata distribuzione del suono (la computer music creata appositamente da Alvise Vidolin), nello spazio per creare effetti drammatici e di tensione.



Impossibile ricordare tutte le opere in mostra e le tracce che vengono affidate allo spettatore: un capitolo a sé meriterebbe per esempio, il lavoro video teatrale in carcere con i detenuti del carcere Due Palazzi, un lavoro immenso che porta il teatro nel territorio del sociale, nell’ambito delle istituzioni totali, un territorio su cui tutti, anche coloro che credono che il carcere non sia un loro problema, dovrebbero riflettere. Se Giacomo Verde firma “Tutto quello che rimane” dal progetto Medit’azioni, toccante videoopera teatrale ispirata agli affreschi della Cappella degli Scrovegni e interpretata dai detenuti, negli anni successivi il Tam realizza laboratori d’arte teatrale che confluiscono in un piccolo capolavoro video ispirato all’Otello di Shakespeare e ai personaggi di Pasolini (Videotello, 2005) realizzato con inquadrature strettissime e primi piani sui detenuti-personaggi che raccontano la storia come fosse una tragedia dei tempi d’oggi il cui sottotesto sono le storie personali drammatiche ma anche fortemente autoironiche dei detenuti.
In contemporanea all’attività di ricerca il Tam attiva a Padova laboratori di teatro-musica: la volontà di confrontarsi con le nuove generazioni e con la versatilità dei mezzi digitali li porta ad allargare la collaborazione con la brava artista video Raffaella Rivi per le animazioni e la postproduzione, e con East Rodeo, un gruppo di allievi musicisti d’area balcanica che diventano l’anima sonora di alcuni tra i più importanti progetti del Tam di questi ultimi anni tra cui “Stupor mundi” allestito in un site specific di grande impatto nel castello Maniace di Siracusa nel 2004 per il Festival di Ortigia. Il pubblico, itinerante per otto stazioni lungo gli spalti, dall’alto delle balaustre vedeva frammenti video ispirati all’iconografia medioevale e a Federico II di Svevia, ritagliati su alte bandiere portate in spalla dai musicisti, oppure videoproiezioni aderenti alle superfici architettoniche, ai pavimenti. Il Tam comincia a usare per questo spettacolo e per “Da solo a molti” la tavoletta grafica come ulteriore contributo visivo, pittorico in tempo reale sulla scena: “La pittura digitale per me è una sorta di conquista che mi consente in tempo reale di lavorare sull’immagine. Tutta la mia formazione di pittore si travasa nel mezzo tecnologico. Tavoletta grafica, Photoshop e videoproiettore sono i miei nuovi strumenti: uso la finestra di Photoshop come boccascena”.
In “Tutto è vivo” (2006-2008) e “DeForma” (2009), dal testo di Beckett “Nohow”, che nasce dall’idea della forma e della possibile deformazione che i nuovi mezzi permettono dal punto di vista sonoro e grafico, i corpi in silhouette dei performer-musicisti vengono tracciati letteralmente da Sambin con la tavoletta grafica e reinventate in diretta, e il segno realizzato - che ricorda molto la modalità usata da William Kentridge per i suoi “drawing for projection” - viene proiettato proprio sopra di loro in scena; ma una volta sgusciato via l’uomo, tutto quello che rimane sono la pittura e la luce nel fondale, in una sorta di rigenerazione infinita della forma. “Deforma” che conduce il percorso della mostra verso la fine, accoglie significativamente in scena le immagini de “Il tempo consuma”. E il cerchio della memoria, come un loop, non si chiude. Ricomincia.
La mostra porta a compimento anche uno straordinario modello di archiviazione artistica del TAM confluito in un libro (Megaloop, a cura di Fernando Marchiori con numerosi contributi di studiosi, edito da Titivillus) e in tre robusti cofanetti di dvd acquistabili che raccolgono non solo le video testimonianze storiche della compagnia ma anche le prove, gli story board, la rassegna stampa, i testi, le partiture, le fotografie. L’archivio diventa quindi, preziosa materia (digitale) per studiosi e ricercatori del teatro contemporaneo e un ottimo modello di mappa concettuale per quelle mediateche che stanno cominciando a raccogliere, organizzare e rendere disponibile la memoria della videoarte.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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