ateatro 125.84
Il mistero scomparso
Alienazione e compulsione del teatro italiano degli ultimi anni
di Antonio Syxty
 

Sempre più spesso mi capita di andare a teatro a vedere nuovi gruppi, nuovi autori, nuovi registi. Lo faccio per due ragioni principali. La prima è che dirigo - o meglio co-dirigo - il Teatro Litta di Milano, che negli anni ha sempre cercato con fatica di produrre nuovi registi e nuovi autori, inserendoli nella stagione di programmazione non saltuariamente o occasionalmente, ma con una linea programmatica reale, concreta e durevole nel tempo, cercando in questo modo di dare continuità quando possibile al loro lavoro e alla loro presenza sul palcoscenico del Litta.
La seconda ragione di questo mio girovagare per teatri è sinceramente dovuta alla curiosità innata in me nel cercare di scoprire e capire quelle che sono le nuove tendenze del teatro e della danza italiana di questi anni.
A margine di questo mio essere spettatore ho iniziato da tempo a rimuginare osservazioni e pensieri sulla creatività artistico/spettacolare di questi ultimi anni. Il primo pensiero è quello preponderante: ho l’impressione di trovarmi ad assistere sempre a uno stesso spettacolo, o ‘allo stesso spettacolo’. Nella realtà non è così perché i titoli sono diversi, gli artisti in scena e fuori scena sono diversi, la provenienza, la data e il luogo di creazione sono diversi. Anche le età anagrafiche dei componenti della compagnia/gruppo/ensemble sono differenti, ma è un po’ come se tutti facessero ‘lo stesso spettacolo’.
Questa mia percezione piuttosto paradossale di ‘omologazione’ me la sono spiegata individuando una stessa forma compulsiva nella creazione degli eventi a cui ho partecipato come spettatore.
Una prima istanza è l’uso del corpo, che è sempre e costantemente martoriato, sudato, abbruttito, esposto, contorto, irriso, vituperato, e così via, come se fosse necessario ridurlo o trasformarlo in uno di questi modi per renderlo ‘espressivo’, per renderlo il ‘vettore’ di un disagio dichiarato, utilizzandolo per un’estetica deforme e volutamente alienata, indicandolo ipertroficamente come l’unica possibilità drammatica di espressione.
Al corpo va unito il movimento che di solito è coatto, pseudo-danzato, parossisticamente e inutilmente reiterato in modo da creare una sorta di continuum ossessivo senza fine e generalmente noioso. Forse lo scopo della reiterazione e della ridondanza del movimento è quella di creare empatia emotiva, pietas o catarsi, ma in generale si risolve per essere una protesi emotiva quasi del tutto infantile nel suo costante stato di ebbrezza.
Sempre applicato al corpo c’è la compulsione a mostrare genitali sia maschili e che femminili. E questo ‘mostrare i genitali’ viene sempre fatto in modo anch’esso infantile e ostentato, come se ci dovessimo tutti vergognare o al contrario esaltare per il fatto che attraverso questa ‘nudità’ venga a realizzarsi una sorta di catarsi collettiva e creativa per ognuno di noi, sia officianti che partecipanti al rito espressivo/creativo.
La compulsione parossistico/espressiva del corpo viene completata con l’uso della voce che è quasi sempre anch’essa utilizzata come suono più che come interpretazione, come singulto o urlo, impedendo la fruizione - per me spettatore - della parola nell’insieme delle sue sillabe. La fatica dello spettatore è quella di ‘capire cosa stanno dicendo’, perché il più delle volte la giostra infernale dei movimenti, unita a colonne sonore altrettanto ossessive impedisce la percezione e la comprensione della parola stessa, quando viene utilizzata, come da copione o da ‘scrittura scenica’. E anche la parola – come il corpo o il movimento – finisce per essere o diventare un forma distorta di narrazione o di esposizione di messaggi più o meno decodificabili.
A tratti – come spettatori – si ha l’impressione di essere piombati in una sorta di girone dantesco dove a tutti i costi e in tutti i modi si sta svolgendo un rituale assolutamente autoreferenziale e pericolosamente patologico, molto vicino a una sorta di esperimento psichiatrico o di psico-dramma su larga scala.
Non credo di esagerare quando dico che ho visto attori/performer/interpreti farsi inondare da schiuma, acqua, piume, palline da ping pong, cereali, riso, olive, liquidi colorati, per citare solo gli ultimi spettacoli visti. E a tutti questi ‘elementi’ di scrittura scenica, si possono aggiungere anche altri strumenti scenici come asciugacapelli, macchine per fare le bolle di sapone, soffiatori da giardino, trapani e chi più ne ha più ne metta.
A mio modo di vedere, in questi spettacoli – in genere – si viene a creare per lo spettatore una sorta di transfert con i performer/attori molto simile a quello che succede nei reality televisivi - quelli più estremi - che mettono alla prova i loro partecipanti attraverso vari livelli di difficoltà. In fondo noi spettatori conduciamo una vita normale, ma lì sul palcoscenico c’è qualcuno che urla e si dibatte, mostrando anche i propri genitali, al suono di qualche musichetta straziante o irridente, atta a creare contrasto e ‘ambiente emotivo’ con l’intenzione di coinvolgerci il più possibile come voyer predestinati o prescelti da un fato culturale bizzarro e anche un po’ burlone.
Questo ‘giochi senza frontiere’ del teatro contemporaneo italiano - quello più off e quello più trendy o à la page - mettono la critica e i mètre à penser in uno stato di idillio concettuale/voyeuristico abilitandoli a una proliferazione il più delle volte entusiastica in quelle poche righe ormai rimaste a loro disposizione (ahimè!) sulle pagine della cultura e dello spettacolo dei quotidiani.
Mi viene da pensare – ed è questo uno dei punti conclusivi di questa prima parte di mie osservazioni/riflessioni – che il teatro di questi nostri anni, in Italia, stia sempre più diventando una forma di creatività completamente alienata dalla realtà, e dalle forme psicotiche ed emotive della stessa, diventando in parallelo all’arte visiva quello che Gillo Dorfles definisce ‘i fattoidi’.
Per quelli come me che hanno potuto assistere ancora giovanissimi al teatro degli anni ’80 e quelli prima di me che hanno partecipato come spettatori e osservatori del teatro degli anni ’70, viene naturale pensare che le esperienze di questi ultimi anni facciano riferimento a quel periodo: in realtà sono convinto che non è così. E mi sbilancio ad affermare che invece gli anni ’70 non c’entrano niente, perché il teatro di tendenza di questi ultimi anni – in Italia – è frutto esclusivo dei nuovi media, e dell’influenza che i media hanno nella nostra vita di tutti i giorni e quindi anche nella ‘vita creativa’. Il teatro – che da sempre negli ultimi decenni – ha voluto con forza distanziarsi come forma creativa unica, primaria e originale proprio dalla televisione, da internet, e dagli altri mezzi meccanici di riproduzione è invece diventato il naturale e alienato riferimento di questi, come per una legge del contrappasso.
Personalmente sostengo che il teatro di tendenza in Italia va sempre di più alienandosi in blog-spaces, in social networking, creando micro-community di personal bloggers in grado di convocare a se sparuti pubblici che possano postare o a loro volta essere ‘taggati’ in universi completamente minimali di narrazioni svolte per compulsione e afasìe. Tali ‘micro-raduni’ avvengono anche grazie agli stessi mezzi massivi di comunicazione come face book o twitter, per citare solo gli ultimi e più noti.
E’ come se la lezione di Amleto ai comici sul teatro come ‘specchio’ della realtà si fosse completamente cancellata, sostituendo la parola ‘specchio’ con la parola ‘finestra/finestre’ (Windows), perché forse non è un caso che il codice Da Vinci/ex codice Hammer/ex codice Leicester sia stato acquistato proprio da Lui, Mr. Bill Gates, e sia di sua proprietà in quel di Seattle (Washington), USA.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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