ateatro 125.80 La bambina, la belva e le maschere L'Otello di Arturo Cirillo di Dario Tomasello
Dopo i fortunali dell’accidentata Tempesta di De Rosa, la Napoli della stagione shakespeariana dello Stabile esibisce, nella cornice del San Ferdinando, il fiore venefico dell’Otello di Arturo Cirillo.
Qui, il paradosso del Bardo verifica, come altrove (e per esempio nel Mercante di Venezia), il protagonismo dell’escluso, del diverso. D’altra parte non ci si sottrae, ed è merito aggiuntivo di questo allestimento, alla sfida dell’alto coefficiente di allusività teatrale dei testi shakespeariani.
In questo senso, occorre dirlo subito, la mise en scène di Cirillo (Jago) ha qualcosa di perfidamente efficace. Nella notte inaugurale del dramma, tutte le maschere sono bianche e danno il senso dell’oscura autenticità del Moro, baldanzoso e irruento dinanzi alla maschera vermiglia del Doge (Salvatore Caruso), prefigurazione di una morte rossa e violenta. Quanto al capocomico sollecito e attento di questo fosco scenario, ci sono due modi di essere Jago: nel segno del puro divertimento del ciarlatano oppure, come accade qui, in quello della tetra, malcelata, sofferenza di chi non può non ordire la trama fatale di cui si è, al contempo, artefice e artefatto, carnefice e vittima. Da questo punto di vista, la condizione di Cirillo appare privilegiata, a partire dalla Jennifer inquietante delle Cinque rose ruccelliane. Difatti, il dramma comincia in medias res. Jago è già qualcuno che ha «un’idea» e un’idea è una festa diceva Deleuze. Solo che la festa non è qui e ciò che si celebra è un rito d’inopinata inversione. Dai fasti carnascialeschi di Venezia al clima polveroso di Cipro, dallo sciabordio placido delle acque della laguna al fragore dei tamburi di guerra, è un destino di perversione – capace di contagiare gli altri personaggi (Barbanzio/Rosario Giglio; Roderigo/Luciano Saltarelli) – quello cui si assiste e la virtù ha il volto continuamente travisato della parodia. È forse per questo motivo che Otello (Danilo Nigrelli) nel suo sapido monologo trova accenti di intensa, pornografica, comicità, destinati a culminare nell’assunto ambiguo sull’«onestà» di Jago: triste ingenuità nella realtà dell’intreccio, implicita nota di merito per il talento del suo interprete nelle nuances metateatrali. Se c’è un’ispirazione Beniana, come Franco Quadri ha creduto di poter individuare, è tutta nel senso esibito e argutamente consapevole di questo doppiofondo.
Nel teatrino delle passioni, Otello, erma bifronte (bianco/nero) quasi in una metamorfosi irrisolta, mostra entrambe le facce della sua vocazione: l’ordine e il caos, lo yin e lo yang con cui Cirillo fa coraggiosamente i conti. Per concludere con la più rischiosa ed onesta delle sentenze: l’irriducibile cifra dell’alterità del Moro, il carattere irredimibile della sua natura. Il tutto senza il benché minimo timore di apparire politicamente scorretti, giacché il clima postcoloniale da clash of civilizations è sottolineato, nell’esotica plaga cipriota, dalle cadenze cantilenanti dell’adhan e dagli abiti da legionari di Gianluca Falaschi. È vero che «in città le bestie abbondano in mezzo a tanti mostri inciviliti», tuttavia Otello non può essere che quel che è: «un barbaro ignorante», rifiutato, nel momento più cupo, dalla “civiltà” occidentale che lo ha allevato. Ciò non è senza conseguenze. Infatti, il Moro, dilaniato dalla rabbia, prima di allontanarsi carponi come un primate, si prostra nel divorare la lettera che, decretando il suo ingiusto congedo, rappresenta il simbolo di quella diplomazia che gli sfugge inesorabilmente. Il regresso è avvenuto e la gloria è solo il pretesto più efficace per questa impasse bestiale il cui mirabile contraltare è la silhouette regale e fanciullesca di Monica Piseddu, una Desdemona immersa in un dolcissimo sogno troppo lesto a tradire i suoi fumi sulfurei. Qui, a proposito di questa interpretazione magistrale, valgono proprio le parole del Bene attento all’etimologica de-ficienza della donna: «la bambina, provvidenza incosciente dell’onnipotenza, è un miracolo». Glamourous e suadente con la selvatichezza del marito e il vulnerabile contegno di Cassio (Michelangelo Dalisi), Monica Piseddu ha una grazia struggente e calma quando (nella notte della fine di Desdemona), in risposta a Emilia (Sabrina Scuccimarra) che le assicura di aver preparato le lenzuola del corredo nuziale, dice: «Tanto è uguale», spalancando un abisso, superbamente illuminato da Pasquale Mari, in cui il sussurro del canto non ci salva, ma è comunque il più celeste e innamorato dei congedi. Intanto, il tempo si chiude su di lei, come le pareti delle fascinose e lapidarie scene di Dario Gessati, come le palpebre di un sonno senza ragione che partorisce mostri degenere e la banale verità del male: Desdemona muore perché è innocente; Otello uccide perché resta un mostro assetato di sangue, rintanato, prima del suicidio annunciato, sotto il letto, come l’orco delle fiabe che vorrebbe ghermire per l’ultima volta la sua preda bella e perduta.
Vista l’allure teatrale della pièce, che si differenzia per l’avvincente regia da altre, (a nostro avviso) meno convincenti, recenti prove shakespeariane in Italia, il movimento spiraliforme dell’ordito, come un perfetto congegno, si riavvolge su se stesso e si chiude così com’era iniziato: sulla centralità abrasiva e munifica del capocomico. Nonostante la promessa di tacere, infatti, l’ultima battuta è ancora di Jago ed è un sublime inchino.
Otello
di William Shakespeare
regia Arturo Cirillo
traduzione Patrizia Cavalli
con Salvatore Caruso, Arturo Cirillo, Michelangelo Dalisi, Rosario Giglio, Danilo Nigrelli, Monica Piseddu, Luciano Saltarelli, Sabrina Scuccimarra
scena Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
musica Francesco De Melis
luci Pasquale Mari
una produzione Teatro Stabile delle Marche - Teatro Eliseo - Nuovo Teatro srl
IN TOURNÉE
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