ateatro 125.8 BP2010 Meldolesi, un maestro Poesia e militanza del teatro di Laura Mariani Meldolesi
“Io credo che si debba cercare di diventare, secondo le proprie capacità, dei maestri, maestri con la minuscola, 'maestri di scuola'. Ciò significa tornare al vissuto (personale o collettivo che sia) per cercarvi un filo che è stato abbandonato e che sia più resistente di quello che oggi non regge”, scrive Claudio Meldolesi a Eugenio Barba in una lettera del 31 ottobre 1980.
Le Buone Pratiche, Milano, 2008: Mimma Gallina, Oliviero Ponte di Pino, Claudio Meldolesi. Sullo schermo, il Teatro Petruzzelli da "Immagini per Elogio dell’incendio di Eugenio Barba".
Claudio era un maestro sia con la minuscola che con la maiuscola. Era un Maestro per la sua produzione scientifica: dei suoi saggi sull’attore, sulla regia, sul dramaturg e la “forma sospesa del dramma”, sul teatro d’interazione sociale e sui rapporti del teatro con le scienze umane molti, riletti oggi, si confermano o si rivelano classici con una vitalità che affascina. Questo è dovuto innanzitutto alla forza e all’originalità del suo pensiero, al suo tipico muoversi fra pratiche sceniche e riflessione teorica. Ed è dovuto anche alla qualità letteraria della sua scrittura, talora irta dopo l’operazione al cervello del 1990: alla maniera di certa poesia. Il legame con le pratiche nasceva dalla sua formazione di attore e, quindi, dalla sua attenzione alla materialità faticosa del lavoro teatrale, mentre la tensione teorica si collegava al suo culto dell’’utopia concreta’ e al suo bisogno di una politica del fare. Da un libro all’altro si dipana il suo pensare il teatro, come in una grande Opera, con la maiuscola appunto..
Ma Claudio era pure un maestro con la minuscola. Lo era per il legame che ha conservato e nutrito fino alla fine con i suoi maestri intellettuali: Giovanni Macchia, che ha dato vita alla Sapienza di Roma a quell’Istituto del teatro da cui è nata la nuova storia del teatro; e il caro Alessandro d’Amico, ricreatore di memorie teatrali, che è morto l’8 febbraio e che pure dobbiamo ricordare e ringraziare. Lo era per il suo modo di relazionarsi e di stare al mondo, per il suo gestus nella vita potremmo dire. Per come sapeva riconoscere maestri degli artisti come Leo o dei coetanei come Ferdinando Taviani. Per come sapeva collaborare: con Renata Molinari ad esempio, per il loro libro sul dramaturg, o con Gerardo Guccini per il semestrale “Prove di drammaturgia”. Claudio ha segnato molti giovani e ha lasciato allievi quali Cristina Valenti e me stessa, senza tener conto dei costi della sua modalità pedagogica: orizzontale e discreta, pur partendo dalla considerazione che in cuor suo aveva di sé. Soprattutto ha laureato tanti artisti: da Ermanna Montanari e Marco Martinelli a Francesca Mazza e Andrea Adriatico. Da spettatore ha ascoltato con impegno le loro parole e i loro spettacoli: sapeva entrare in sintonia con la vita della scena anche a occhi chiusi.
In particolare, in questa edizione delle Buone pratiche incentrata sul tema delle identità, vorrei ricordare il suo intervento al convegno Le forze in campo. Per una nuova teatrografia del teatro, che si tenne a Modena il 24-25 maggio 1986. Claudio pensava che si dovesse ricominciare a considerare il teatro in termini istituzionalmente unitari. Del resto lui lo aveva continuato a fare, guardando sia alle esperienze nascoste e impreviste, come la rosellina selvatica di Brecht che amava citare, sia ai grandi teatri. Non si dimentichi che da uomo del sessantotto e del Nuovo teatro – legato all’Odin Teatret e al Living come infine alle iniziative di teatro in carcere o a Laminarie – aveva contrastato il suo tempo scrivendo di Visconti e Strehler e che fra i suoi amici di lungo corso ci sono Carlo Cecchi, Vanda Monaco Westerståhl e Renato Carpentieri. Ma l’unità come dato di fatto – del contesto e della base economica – fra stabili pubbliche e private (il cosiddetto teatro normale oggi sempre più commerciale, ma senza dare automaticamente a questo termine una connotazione negativa) e teatro di gruppo e d’avanguardia non significava né che si era una cosa sola né che si rimescolassero buono e cattivo. Di qui il suo invito al politeismo teatrale, perché “il teatro è naturalmente uno ma va giudicato con le leggi del teatro, è buono o cattivo”, e l’indicazione di un punto di intervento urgente: l’inadeguatezza delle culture professionali. “O si scioglie questo nodo culturale, dando vita a una cultura politeista cosciente della sua materialità professionale, o si diventa una tradizione abitudinaria, più o meno in svendita”, scrive. E questo vale per tutti.
Ma a Leo va il pensiero finale. Fino a venti giorni prima di morire – il 12 settembre 2009, un anno dopo Leo – Claudio ha lavorato al libro che uscirà a marzo con Titivillus: La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna. Un libro importante per come vi si scrive di Leo anzitutto, della sua battaglia politeista e del suo buon teatro, ma anche un significativo ricongiungimento delle anime di Claudio, un uomo tenace, attento, a volte misterioso negli esiti: fra poesia e militanza ma con il teatro al centro e con l’attore al centro del teatro.
Le Buone Pratiche, Milano, 2007: Roberto Magnani, Oliviero Ponte di Pino e Claudio Meldolesi.
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