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Lo spettacolo dal vivo e le giovani generazioni. L’agenda pubblica
L'intervento al convegno Spettacolo dal vivo & giovani generazioni, Siena, 15 dicembre 2009
di Marcello Flores (assessore alla Cultura del Comune di Siena)
 

È una sconfortante caratteristica del dibattito culturale in Italia che esso si impenni in alcuni momenti (nel nostro caso in occasione di un articolo tra l’ingenuo e il provocatorio come quello di Baricco o di fronte ai tagli ripetuti e agli attacchi volgari provenienti da membri dell’attuale governo) ma non sia capace di affrontare le questioni di fondo in modo sistematico, approfondito, aperto. La questione dei costi, dei finanziamenti, della qualità, della diffusione dello spettacolo dal vivo non è certo un problema sorto negli ultimi mesi, anche se esso ha certamente acquistato un carattere di drammaticità per via delle scelte disastrose e delle non scelte altrettanto perniciose che si sono abbattute su questo settore in termini di finanziarie, tagli drastici al Fus, contraddittorie e farraginose normative e proposte legislative, che si spera non diventino ancora peggiori nel prossimo futuro.
Anche la scelta – compiuta dall’Assessorato alla cultura del Comune di Siena e della Regione Toscana, con l’aiuto di alcune realtà che è riduttivo definire locali – di discutere questi temi nel presente forum nasce quindi, in parte, da una sollecitazione congiunturale. Essa, tuttavia, vuole evitare che questo incontro rimanga occasionale o cerchi di dare risposte immediate alla pur grave situazione di crisi emersa con maggiore asprezza negli ultimi mesi. Abbiamo scelto, infatti, di incentrare sulle nuove generazioni la discussione, per costruirla in una prospettiva di lungo respiro e per collegarla, di conseguenza, ai temi che costituiscono il fulcro delle difficoltà e dei dilemmi con cui ci troviamo a confrontare non solo nell’immediato ma nell’intera fase storica che ci si apre davanti.

Al centro della riflessione sullo spettacolo dal vivo sono, oggi, questioni in gran parte di tipo economico, legate ai finanziamenti (pubblici, privati, misti) che esso dovrebbe avere o non avere, e ai meccanismi per stabilirli e distribuirli. All’inizio dell’economia moderna Adam Smith ricordava come “le rappresentazioni teatrali riescono a dissipare nella maggior parte della gente la disposizione alla malinconia”, ritenendo quindi necessaria una retribuzione per gli artisti più elevata di quanto la sola logica di mercato avrebbe potuto indicare. Purtroppo gli economisti che siedono oggi al Governo non sembrano avere la stessa consapevolezza che il mondo della cultura e dell’arte non può essere trattato in termini riduttivamente mercantili e contabili. “Lo Stato deve finanziare la cultura, ha detto il Ministro Brunetta, altra cosa però è lo spettacolo: serve agli umani per vivere meglio, divertirsi e riflettere. Forse nel tempo diventa tradizione e cultura -come il teatro, le commedie, l'opera. Mescolare però cultura e spettacolo è un grande imbroglio.”
Ora, a parte il fatto che biblioteche e restauri (citate come “cultura” in contrapposizione allo “spettacolo”) hanno subito gli stessi drastici, orizzontali e indiscriminati tagli, il nostro Governo dimentica che i beni e i servizi culturali, come hanno dimostrato gli studi e le riflessioni compiute in Europa negli ultimi anni, costituiscono un crescente e sempre più importante comparto anche soltanto da un punto di vista prettamente economico. Del resto, un secolo dopo Adam Smith anche un altro grande economista, Alfred Marshall, sottolineava che per i beni culturali, diversamente da quelli industriali, l’utilità marginale era crescente e non calante, in quanto un maggiore consumo di beni culturali rende più colti e fa crescere il consumo di cultura.
Nel Rapporto Figel della fine del 2006 (dal nome dell’allora Commissario europeo per la cultura) si sosteneva che il fatturato complessivo del macro-settore delle industrie culturali e creative in Europa, nel 2003, era pari a circa 654 miliardi di euro, vale a dire più o meno il doppio del fatturato dell’industria automobilistica continentale. E che il differenziale di crescita tra il macro-settore culturale e creativo e l’economia europea nel suo complesso nel periodo 1999-2003 era stato del 12,3%. Il macro-settore creava occupazione anche nei momenti in cui l’occupazione complessiva in Europa si restringeva, e si rivelava come una delle più promettenti e dinamiche fucine di nuova imprenditorialità giovanile.
Il più grande economista del XX secolo, Keynes, riteneva che l’arte, in quanto uno dei principali principi di civilizzazione della società, doveva essere incoraggiata dallo stato: e ricordava che subito dopo l’architettura (l’arte più pubblica), nella speciale classificazione delle arti in base al criterio del loro carattere “pubblico”, bisognava porre la musica, poi il teatro, la scultura e la pittura, e infine la poesia e la letteratura, «per loro natura più privata e personale».
Alcuni mesi fa, all’Università di Roma Tre, si è svolto un incontro sul tema “Una nuova politica culturale dello stato”, che ha affrontato problemi in gran parte analoghi a quelli che noi vogliamo discutere nell’ottica – diversa ma più urgente, attuale e significativa – delle nuove generazioni. In quell’occasione il direttore di RomaEuropa Fabrizio Grifasi, che non ha potuto purtroppo essere presente a Siena come avrebbe voluto, ricordava come il nostro paese, che pure non ha mai brillato per le risorse destinate alla cultura, sta operando come apripista negativo almeno tra i paesi dell’Europa occidentale, dove la tradizione dell’intervento pubblico a sostegno delle attività culturali non è stata messa in discussione da governi di nessuna parte politica in conseguenza della crisi, se non con interventi e riduzioni di piccola entità. Egli aggiungeva, poi, riflessioni critiche sui meccanismi “obsoleti” e puramente quantitativi dei meccanismi di sovvenzione, che penalizzava proprio le “realtà nuove”, e quindi i giovani, rafforzando una struttura dell’attività culturale e creativa in gran parte ormai abbandonata e priva ormai di qualsiasi forza di attrazione e innovazione.
Egli proponeva, quindi, di “scegliere e sovvertire i criteri di attribuzione dei finanziamenti, destinandoli ai progetti (e quindi alle idee) attraverso scelte che tengano conto del merito e della qualità, premiando la capacità di innovare (intesa come capacità di introdurre qualcosa di nuovo) e di assumere il rischio culturale (inteso come sviluppo della sperimentazione e superamento dei confini).” Facendo, insomma, della “innovazione e creazione artistica contemporanea”, “competitività e cultura”, “qualità ed organizzazione culturale”, i concetti di una “trasformazione radicale che investe ovviamente anche l’intero settore della produzione culturale nella sua accezione più ampia.”
In un altro intervento di quel convegno – dell’economista Marco Causi – si rammentava come l’emergere di un “settore culturale niente affatto marginale, e anzi sempre più protagonista nelle dinamiche socio-economiche e di sviluppo, non solo in Italia, in Italia è avvenuta con una particolarità: mentre negli altri paesi avanzati il motore dell’espansione del settore culturale, in termini di produzione, valore aggiunto, occupazione, è stato fornito dalle industrie culturali, e principalmente dall’audiovisivo, in Italia i settori trainanti sono stati quelli che la statistica definisce “cultura in senso stretto”, e cioè beni culturali e spettacolo dal vivo. I settori, insomma, più tradizionali.”
Qui siamo di fronte a una questione importante e generalmente sottovalutata. Lo spettacolo dal vivo non appartiene, generalmente, all’ambito culturale caratterizzato da innovazione e orientamento al mercato. E tuttavia mentre le forme più tradizionali di spettacolo riescono a volte a reggere il confronto col mercato, sono quelle più giovani a costituire una realtà in cui l’innovazione propria di altri settori culturali (audiovideo, information technology) si riflette anche all’interno delle produzioni dello spettacolo dal vivo.
Se, quindi, da una parte resta inconfutabile che lo spettacolo dal vivo sia ancora afflitto dalla “malattia” individuata a metà degli anni ’60 dai fondatori dell’economia della cultura, Baumol e Bowen, e cioè la scarsa sensibilità al progresso tecnologico e all’aumento di produttività (che rimane più o meno la stessa dei tempi di Shakespeare), è anche vero che soprattutto le esperienze più giovani e di avanguardia dello spettacolo dal vivo sono riuscite spesso a inserirsi in quell’orizzonte di innovazione che ha caratterizzato gli ultimi anni della produzione culturale. È il contesto sociale fortemente orientato alla produzione e alla circolazione di informazione e conoscenza, infatti, che favorisce innovazione, mescolanza di linguaggi, globalizzazione e capacità di misurarsi con un livello che ormai è non più solamente nazionale ma sempre più internazionale.
Quando abbiamo pensato la prima volta a questo incontro immaginavamo che in esso avremmo potuto discutere la nuova legge che è tutt’oggi in discussione e che – sembra! – potrà venire approvata nei prossimi due o tre mesi (ma da cui, è notizia di pochi giorni fa, è stata stralciata la parte che riguarda la lirica). Siamo ovviamente consapevoli di quanto sia difficile poter influenzare un cammino legislativo che finora non ha dato ascolto alla maggior parte delle riflessioni provenienti dal mondo stesso dello spettacolo, e non sembra capace di commisurarsi con i problemi che una gestione certamente difficile della finanza pubblica pone di fronte a tutti.
Vorremmo, però, che la discussione di questi due giorni riuscisse a far convivere riflessioni di carattere generale e strategico, di un’idea di spettacolo capace di inserirsi nel mondo prossimo venturo della più generale produzione culturale, con indicazioni più concrete e immediate di come poter migliorare una situazione in cui vincoli, limiti, tagli, burocrazia continueranno a esistere penalizzando, presumibilmente, proprio le giovani generazioni che sono al centro di questo nostro incontro. Se riusciremo a svolgere una discussione approfondita e serrata, aperta ma anche concreta, potremmo considerare questo incontro un prologo a un forum più ampio che potrà avere luogo dopo l’approvazione della legge. In questo senso la collaborazione con la Regione, cui verranno probabilmente affidato compiti più ampi e impegni più gravosi proprio dalla legge in discussione, continuerà a essere cruciale per poter far pesare la voce di chi produce cultura nell’ambito dello spettacolo dal vivo.
Gli interrogativi più generali (quali sono i criteri migliori per finanziare le attività culturali e a chi spetta il compito di deciderlo?) trovano, nel campo dello spettacolo dal vivo, una declinazione legata a variabili particolari e non sempre omogenee. Se l’interesse maggiore deve essere quello di aumentare e incrementare la domanda e il consumo di spettacoli dal vivo (oltre che migliorare ovviamente la loro qualità), è ovvio che occorre tenere in considerazione numerosi fattori, di cui solo alcuni possono essere tenuti sotto controllo. Quindici anni fa David Throsby ha analizzato le variabili che determinano la domanda di spettacoli dal vivo - e, più in generale, di beni e servizi culturali. Tali variabili sono il prezzo del singolo spettacolo e degli spettacoli alternativi, il reddito del consumatore, le caratteristiche qualitative dello spettacolo - compagnia, allestimento e recensioni critiche - e il valore del tempo libero. Throsby distingue poi tra spettacoli di facile fruizione e quelli legati a una cultura considerata più “alta” giungendo alla conclusione che nella prima categoria, la domanda sia più sensibile al prezzo mente nella seconda categoria, invece, alle caratteristiche qualitative.
Il valore culturale incorporato in un bene, in un servizio, in un prodotto, non va mai disgiunto all’insieme degli investimenti culturali che vengono predisposti in un territorio. Sono tantissimi i casi in cui un investimento cospicuo in un solo settore (un museo, un teatro, un centro di ricerca) ha favorito la crescita complessiva di tutti gli altri comparti culturali. E non va dimenticato quanto possa valere per l’intero settore della cultura di un territorio la possibilità di usufruire di una information technology che sia davvero all’avanguardia, diffusa, chiara, bella e utilizzabile da chiunque in qualsiasi momento (una realtà che in Italia mi sembra assai lontana dall’essere raggiunta).
Dove e come investire costituirà, sempre più, un problema cruciale, che non potrà essere risolto né con criteri apparentemente ugualitari né con astratte identificazioni di realtà di eccellenza da privilegiare (perché una realtà eccellente in un territorio culturalmente depresso rischierà di deprimersi e perdere la propria capacità di eccellenza, a meno che non riesca a mettersi in una rete che possa surrogare le caratteristiche negative del territorio in cui si trova). E ugualmente decisivo risulterà stabilire i criteri con cui scegliere e distribuire gli investimenti. In questo ambito non bisogna avere paura di prendere esempio da realtà straniere, pur senza mitizzare o rendere intoccabile alcun modello. Legare, ad esempio, i finanziamenti pubblici anche alla capacità di attrarre finanziamenti privati; distribuire i finanziamenti sotto forma di voucher culturali da distribuire ai cittadini lasciando loro la possibilità di scegliere come impiegarli; introdurre il modello del giudizio di tutti gli appartenenti al settore (l’equivalente della peer review nelle università – che la usano); introdurre nei criteri di valutazione delle commissioni elementi non soltanto quantitativi ma che garantiscano e favoriscano le nuove esperienze: questi sono solo alcuni dei suggerimenti possibili di cui dovremmo riuscire, certo non in modo esauriente e definitivo, a discutere in questi due giorni i pro e i contro, cercando di trovare delle ipotesi convincenti e condivise.
Un ultimo invito a tutti coloro che interverranno: cerchiamo di essere sintetici e chiari, lasciando alla discussione collettiva la possibilità di approfondire i problemi, aggiungere temi, rivedere concetti e proporre soluzioni. È un momento, questo, in cui dichiarazioni e proteste sono certo legittime e anche utili, ma vanno accompagnate da proposte positive: e queste possono venire soprattutto da chi non solo oggi, ma nel prossimo futuro, deve prendersi l’impegno di fare in modo che lo spettacolo dal vivo – questo strano intreccio di tendenza crescente dei costi ma anche di utilità marginale crescente – possa far parte integrante della svolta che l’intera cultura si trova oggi a compiere in termini di conoscenza e innovazione.


 
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