ateatro 125.62 BP2010 Essere per sognare, sognare per essere Nota introduttiva al volume Recito, dunque so(g)no. Teatro e Carcere 2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia, Edizioni Nuove Catarsi, 352 pp di Vito Minoia e Emilio Pozzi
Un chiarimento, anzitutto, sul titolo del volume: quella g inserita quasi con violenza in mezzo alla parola sono sta a significare il valore di un senso doppio, condizione di realtà e di fantasia, al tempo stesso, un modo di evadere dalla triste quotidianità. E rappresenta il filo rosso di un percorso che mentre cronisticamente raccoglie opinioni ed esperienze vissute in anni di frequentazioni delle carceri, innalzando il vessillo del teatro, al tempo stesso fornisce lo spunto per considerazioni su un mondo conosciuto male, spesso retoricamente, a volte rifiutato, altre volte volutamente ignorato. Essere e sognare, dunque. Sognare per essere. Il teatro è una piccola chiave di lettura, aiuta a decodificare sentimenti e ragioni, a rompere tabù, a mettere a nudo ipocrisie ed egoismi. La recita è una metafora, una maschera che sa diventare nuda (Pirandello docet). E si fa e si è fatto teatro in ogni luogo in cui l’essere umano perde la libertà: anche nei campi di prigionia, deposito dei vinti delle guerre, nei gulag della siberia, nei lager nazisti. La nostra attenzione si è però principalmente concentrata sui luoghi di ordinaria carcerazione, in Italia, dove scontano condanne, i ritenuti colpevoli (ma anche gli innocenti) di reati previsti dall’attuale Codice penale.
Dalle carceri continuano ad arrivare continui allarmi. il tam tam ricorrente dice che i detenuti sono troppi rispetto alle capienze: nell’estate 2009 erano registrate 63 mila presenze (stranieri il 37%), ventimila in più del lecito. É prevista la costruzione di 22 nuovi istituti, ma per il 2012. Ma è la strada giusta? non occorre magari sveltire i procedimenti e rivedere le norme?
Lasciamo gli interrogativi e occupiamoci del tema specifico che abbiamo scelto: un aspetto minore ma non trascurabile. rieducazione e reinserimento sono concetti che non sempre sono tenuti presenti.
Testimoni e protagonisti, in questo libro, esprimono liberamente il loro pensiero e aiutano a fare, sia pure provvisoriamente, il punto su un problema sociale sempre immanente, che ha avuto mille facce nei secoli e che rappresenta oggi - siamo alla conclusione del primo decen¬nio del terzo millennio del calendario cristiano - soprattutto una cartina al tornasole delle coscienze degli uomini, a qualsiasi comunità appartengano. Ha scritto Tahar Ben Jelloun, e la citazione ci appare pertinente, “Se la natura ha creato delle differenze, la società ne ha fatto delle disuguaglianze”. Appunto: alla base della convivenza non si pone più il principio della confor¬mità e dell’uguaglianza, ma quello della diversità.
Questo volume, nella sua articolazione, si è proposto di accompagnare il lettore, passo passo, dentro le mura, reali e mentali, delle carceri, con l’ausilio di voci autorevoli di esperti studiosi, di protagonisti di vita e di scena, di testimonianze e di documenti, allo scopo, che ci si augura individuato con chiarezza, di fornire un quadro sufficientemente ampio del tema affrontato. Scoprire insomma le variazioni delle diversità.
Mentre scrivevamo queste righe, il 12 settembre, ci è arrivata la notizia che il cuore di Claudio Meldolesi aveva cessato di battere e che il suo pensiero si era brutalmente interrotto.
Agiugno gli avevamo sottoposto il sommario del progetto, chiesto consigli e suggerimenti, proponendogli di scrivere la prefazione.
Nel primo saggio pubblicato nel 1996, sul primo numero di Teatri delle diversità (che allora si chiamava Catarsi) dedicato al “teatro del costringimento”, aveva cominciato con queste parole:
“Nella continuità delle storiche anomalie del teatro italiano, come mi è capitato di sottolineare più volte raffrontandolo ad altre realtà, un filone a sé è rappresentato dai teatri del disagio o, come emerge dalla impostazione di questa rivista dai teatri delle diversità; nessuna arte si presta come quella rappresentativa alla riattivazione dell’individuo nelle comunità isolate dalla vita sociale”.
E quindi anche il teatro nelle carceri. avevamo compiuto insieme un giro d’orizzonte sulle attività storiche più interessanti, individuati gli operatori, esaminate le voci del questionario. Ci parlava con un filo di voce, affaticato e minato dal male incombente, ma ebbe la forza di proporsi anche per un rilettura delle risposte dei questionari, riservandosi di scrivere una nota di commento. Non ce l’ha fatta. E noi non ci sentiamo di sostituirci a lui. Pubblicando le risposte così come sono pervenute lasciamo al lettore di esercitarsi nel confrontare opinioni, mutamenti e prospettive. sarà interessante poi pubblicarle, in omaggio a Meldolesi.
Il ringraziamento a chi ha sorretto il nostro lavoro e ha fornito pagine preziose, nasce dal profondo del cuore. Senza i contributi di Duccio Demetrio sul concetto di scrittura in carcere, senza le immagini essenziali di Maurizio Buscarino, per citare soltanto due esempi specifici, e senza le risposte al Questionario, cardine del carotaggio sulle principali attività in atto, e fulcro del volume, non avremmo potuto offrire un ampio e denso panorama.
Non si pretende, ovviamente di essere stati esaustivi, di aver messo un punto fermo. La realtà è in evoluzione (e in certi casi purtroppo in involuzione). Tuttavia, aggiungendo qualche pie¬truzza ai tasselli che molti altri hanno sin qui inserito per comporre un grande e inquietante mosaico - testi importanti sono citati in bibliografia – si spera di contribuire a un risultato: partendo dal particolare, richiamare l’attenzione, soprattutto dei giovani, sui gravi e grandi problemi della giustizia, della libertà che nel carcere, questa istituzione che vorremmo veder scomparire, sostituita da misure più civili, non trovano la giusta luce.
Non sono utopiche speranze: perché i protagonisti di quei problemi, come ha scritto Ghe¬rardo Colombo “non vogliamo siano lontano dalla nostra vita e dalle nostre coscienze”. Lo diciamo sulla base di un’esperienza personale, acquisita, in modi diversi, in più di vent’anni, nei luoghi senza tempo.
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