ateatro 124.22
Stanislavskij borghese e rivoluzionario
La nuova edizione di La mia vita nell'arte
di Gianandrea Piccioli
 

Nel 1922 Konstantin Stanislavskij, il padre del teatro novecentesco, la cui influenza dura tuttora, a 59 anni lascia una Russia stremata dalla guerra civile e parte con un gruppo di attori del mitico Teatro d’Arte di Mosca, da lui fondato con Nemirovič–Dančenko nel 1898, per una lunghissima tournée in Europa e in America: sessanta persone e otto vagoni di materiali, in repertorio spettacoli ormai collaudati da anni e anni di repliche, da Čechov a Gor’kij. E’ all’apice della carriera, è famoso in tutto il mondo, alla sua scuola si sono già formati registi che fanno storia, la tournée, nonostante i disagi economici, è un trionfo: a New York Stanislavskij incontra Lee Strasberg, un giovane attore che, folgorato dalle lezioni del maestro russo, nel 1947 fonderà l’Actor’s Studio; in Russia, nonostante non condivida le idee dei bolscevichi, è rispettato dal nuovo regime.
Eppure da oltreoceano scrive all’amico Nemirovič:

“Bisogna abituarsi all’idea che il Teatro d’Arte non esiste più. (…) Durante il viaggio tutto si è chiarito in modo inequivocabile. Nessuno ha più idee, grandi obiettivi. E senza idee, senza obiettivi non può esistere la nostra impresa. (…) Non ho nessuno a cui trasmettere ciò che vorrei.”

Per fortuna Stanislavskij continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1938, e il suo interesse si rivolse sempre di più al lavoro sull’attore e a un’attività di ricerca, da teatro laboratorio. Da quella tournée nacque inoltre il suo libro più famoso, La mia vita nell’arte, una specie di autobiografia artistica o “romanzo pedagogico” come è stato acutamente definito da Fausto Malcovati. Ad esso seguirono altri libri fondamentali, più “tecnici”, e gravidi di sviluppi per la ricerca teatrale contemporanea: Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio.
Tra i tanti allievi di Stanislavskij il più geniale fu Vsevolod Mejerchol’d, che presto si ribellò ai suoi insegnamenti, ritenuti obsoleti e funzionali a un teatro borghese, ne divenne addirittura un antagonista, anche politico (aveva proclamato con entusiasmo l’“Ottobre teatrale”), oltre che teorico (l’attore “biomeccanico” è agli antipodi dell’idea di attore sostenuta e praticata da Stanislavskij), e, pur continuando a manifestare grande rispetto per il maestro, non esitò ad attaccarlo anche pubblicamente, accusandolo di fare un teatro morto. Eppure quando, nel gennaio 1938, il Teatro di Mejerchol’d venne chiuso d’imperio governativo e si promossero comizi contro di lui in tutti i teatri dell’Unione Sovietica, proprio l’anziano e malato Stanislavskij organizzò per lui un ricevimento trionfale nel proprio Studio e poco dopo lo assunse al Teatro d’Opera Stanislavskij, mettendolo così momentaneamente al riparo da ulteriori persecuzioni. Pochi mesi dopo la morte del grande maestro, infatti, Mejerchol’d venne catturato dagli scherani di Stalin, deportato, torturato e fucilato; sua moglie, l’attrice Zinaida Rajch, fu trovata sgozzata nella cucina di casa; le sue urla disperate furono scambiate dai vicini (così dissero) per un esercizio vocale dell’attrice.
Due soli episodi, ma che rivelano l’uomo: pronto a rimettersi in questione nel momento di maggior successo e pronto a rischiare per proteggere un rivale di genio.
Ora dalla Casa Usher è uscita una nuova edizione della Mia vita nell’arte: splendido volume, arricchito da un prezioso apparato iconografico e da molto materiale inedito; ottima traduzione, di Raffaella Vassena; appassionante e simpatetica introduzione di Fausto Malcovati, grande slavista e un maestro della storiografia teatrale della Russia e dell’Unione Sovietica. Unica pecca, abbastanza stupefacente: la mancanza di una cronologia per orientarsi negli eventi di una vita così ricca di opere e incontri e di un’epoca così fiammeggiante, utopica e disperata.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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