ateatro 124.17 Dove sta guardando Mimmo Una postfazione per Teatro partecipato di Mimmo Sorrentino di Oliviero Ponte di Pino
A Claudio Meldolesi
La prima volta che ho incrociato il percorso di Mimmo Sorrentino è stato grazie a un video. Per “Scena Prima”, una sorta di censimento-concorso dei giovani gruppi teatrali della Lombardia, credo nel 1996. Era un video bizzarro. Si capiva che Il diluvio non doveva essere un bellissimo spettacolo, ma qualcosa mi colpì in una scena dove si vedevano alcuni attori e un maiale (e forse qualche altro animale da cortile). In quel video, su quella scena, stava succedendo qualcosa di interessante, anche se non riuscivo a capire cosa. O meglio, mi sembrava interessante proprio perché non riuscivo a capire, perché mi imponeva una serie di domande a cui non sapevo rispondere. Gli altri membri della commissione, dotati di maggiore buon senso, mi spiegarono che non potevamo scegliere uno spettacolo dove gli attori recitavano così male. Avevano ragione – ma non era quello l’importante.
L’anno successivo Il messaggio, lo spettacolo di Teatroincontro, la sigla un po’ banale della compagnia di Sorrentino che ha sede a Vigevano, venne selezionato e programmato a Scena Prima: la protagonista del monologo, ispirato a un fatto di cronaca, era una donna che era stata abbandonata dalla sua amante; il giudice le aveva tolto il bambino che aveva concepito con l’inseminazione artificiale. Nello spettacolo si vedeva la protagonista tentare di registrare un videomessaggio alla sua ex amante, per chiederle aiuto per recuperare il figlio. Era per certi aspetti meglio confezionato del Diluvio, si coglieva il desiderio di confrontarsi con il presente, con l’attualità della politica (i temi controversi della fecondazione artificiale e della coppie omosessuali e della loro possibilità di avere figli) e della cronaca, fino alle sue risonanze tragiche. Era anche un lavoro più prevedibile, così come pareva quasi scontato l’elenco dei maestri che si poteva ricavare dalla schedina “autobiografica” del gruppo inserita nel catalogo della rassegna: Pasolini e Brecht, Barba e Brook, De Filippo e Pirandello, e poi i laboratori con Luciano Nattino, Marco Martinelli, Cristina Pezzoli.
Ma in qualche modo il percorso di Mimmo Sorrentino mi aveva agganciato. Continuai ad andare a vedere i suoi spettacoli, quando arrivavano nella periferia Sud di Milano, al Crt-Salone. Storie di ragazzi, storie di quartiere, storie di immigrati, storie di malati, storie di telefonini. Storie di gente vera, la stessa che aveva creato quegli spettacoli con Mimmo a fare da levatrice. Continuavano a piacermi e sorprendermi, e continuavo a chiedermi perché mi incuriosissero. Finalmente mi diedi una spiegazione: per Mimmo Sorrentino il teatro non è il fine, ma solo un mezzo. Vedendo quegli allestimenti, si capisce che ci sono cose più importanti dello spettacolo, con la sua misera finzione.
Tanto per cominciare, la realtà è più importante. Quella realtà – il quartiere, la scuola, gli immigrati, gli handicappati, i malati – che il teatro, ma anche la letteratura, il cinema e la televisione faticano a vedere e non sanno più raccontare. Per un teatro tutto preso da sé stesso, dal proprio linguaggio, dalla propria tradizione, anche quando innova e ricerca, gli allestimenti “sporchi” e poveri di Teatroincontro aprono una finestra indispensabile, salutare. Perché in ogni scena si vede il corpo a corpo con la realtà sociale e politica dei nostri anni. Anche quando usa le nuove tecnologie (quando il vero protagonista è una videocamera, come nel Diluvio, o un telefonino, come in Ave Maria per una gattamorta), il punto di partenza è il loro uso quotidiano, “sociologico”. Guardando quegli spettacoli, tornavo a respirare.
Più importante dello spettacolo è anche la vita delle persone, di ciascuna delle persone che si espongono in scena, che è dunque anche quella di ciascuno di noi. In quegli spettacoli la vita c’era, vibrante, con tutte le sue confuse contraddizioni: destini di individui che respiravano, amavano, soffrivano, sognavano...
Ancora, dietro a quei lavori c’era la tensione conoscitiva – etica e politica – di Mimmo. Il suo slancio, la sua fame di verità. Perché lui, pur essendo ormai un uomo fatto, conserva l’entusiasmo, l’energia e la risata di un bambino. E’ salito “su al Nord” da Salerno, dopo essersi laureato a Urbino, nella seconda metà degli anni Ottanta, e si è messo a fare teatro – teatro di ricerca, teatro nelle scuole, teatro di strada, teatro amatoriale – a Vigevano.
In quegli anni Sorrentino, che è regista e autore, e che legge di molte cose diverse, dalla fisica all’antropologia, mette a punto un metodo che definisce “osservazione partecipata”. Il presupposto – mutuato dalla sociologia – è che “il ricercatore non si limita a fotografare l’esistente, ma si compromette con l’oggetto della propria ricerca, al fine di produrre un cambiamento sia in lui, che nel destinatario della ricerca”. C’è dunque la voglia di sporcarsi le mani, di mettersi in gioco. C’è, programmaticamente, il desiderio di andare oltre i luoghi comuni e le banalità diffuse, le verità accettate passivamente. C’è lo stretto rapporto con il territorio, in tutta la sua valenza politica. C’è il lavoro nelle scuole, palestra per molte interessanti esperienze della scena contemporanea (fino al teatro di narrazione, che nasce proprio dal lavoro con i bambini di Marco Paolini e Marco Baliani).
Che il teatro per Mimmo Sorrentino sia un mezzo, e non un fine, vuole anche dire che il suo “teatro partecipato” si inserisce in una tradizione che ha ormai diversi decenni, e che affonda le radici nell’animazione degli anni Settanta ma anche nello psicodramma e nella Gestalt Therapy, e che poi s’intreccia con il teatro della differenza e delle diversità.
Ma cosa vuol dire “osservazione partecipata”? Come lavora Mimmo Sorrentino? Se in questo saggio cercavate una teoria, oppure un metodo, un piano di lavoro con esercizi programmati secondo precise scadenze, da riproporre in laboratori e seminari, sarete rimasti senz’altro delusi. Certo, Mimmo descrive numerosi esercizi: ma non lo fa certo come in un libretto d’istruzioni, affinché quello schema possa essere ripetuto pressoché identico in altre circostanze. Al contrario, li racconta per farci capire come, in quella determinata circostanza, con quel gruppo di persone, in quel momento del percorso comune di Mimmo con i suoi autori-attori, ha scelto di far eseguire quell’esercizio. E sono spesso illuminanti frammenti narrativi: per esempio con “l’educazione allo sguardo” del ragazzino albanese che si imbarazzava a raccontare la propria storia.
Il “teatro partecipato”, e in genere tutto quello che ricade sotto l’etichetta di “teatro delle diversità” o “teatro del disagio”, utilizza un medium antico come il teatro, incastonato alle radici stesse del nostro modo di concepire noi stessi e la collettività in cui viviamo. L’obiettivo è riattivare una serie di meccanismi fondamentali per l’individuo e per la società, in situazioni dove questi ingranaggi comunicativi e affettivi si sono usurati, o si sono distorti, o semplicemente non si sono ancora del tutto formati (vedi il lavoro con gli adolescenti).
Le tecniche teatrali, attraverso una serie di esercizi e di pratiche, permettono di costruire (o ricostruire, o ridefinire) l’identità individuale attraverso il personaggio e la maschera. Possono costruire (o ricostruire, o riattivare) le interazioni e i rapporti tra le persone attraverso il lavoro e gli esercizi di gruppo. E infine, attraverso la rappresentazione pubblica dell’identità individuale e di gruppo sulla scena della città (in teatro o nelle strade), consentono di entrare in relazione con l’intero corpo sociale, con un impatto esplicitamente politico, rendendo visibili alla collettività differenze, emarginazione, conflitti.
Accanto alla forma teatrale - o meglio, per dare una forma drammaturgica alla pratica teatrale - il “metodo Sorrentino” utilizza anche la scrittura, con modalità molto precise. Il punto di partenza è la poesia. Più precisamente – in genere – Mimmo assegna ai diversi soggetti coinvolti nei suoi gruppi un incipit che in qualche modo li invita a esprimere liricamente la propria soggettività, il proprio “io” (che finisca per tradurre in parole un dolore o un sogno, una ferita o una speranza, non fa differenza). Il punto d’arrivo è un racconto: la “storia” che farà da filo conduttore allo spettacolo. E’ lo snodo cruciale: il passaggio da un pulviscolo di soggettività a un racconto che in qualche modo le ricomprenda tutte. E’ una trasformazione alchemica, quella che opera la cucina drammaturgica di Sorrentino: ribalta un testo collettivo, frammentario, dove però si raccontano solo gli “io” (la somma dei singoli contributi) in un testo d’autore (cioè opera di Mimmo Sorrentino). Una narrazione coerente, che ha l’obiettivo di raccontare tutti quegli “io” – e dunque dare loro un senso condiviso e comunicarlo agli altri.
A volte queste narrazioni possono riflettere e incorporare la storia di quel gruppo e narrare il suo percorso alla scoperta del teatro e di sé stessi. Questa dimensione meta-teatrale, tra l’altro, rende esplicita la necessità che ha il teatro di esperienze come queste, in grado di rigenerarlo, restituendo alla pratica scenica una necessità e un senso. Gli autori-protagonisti di Case popolari si dicono che le loro storie sono così belle che troveranno senz’altro qualcuno per raccontarle. Luisa Allegri, la protagonista di Quesalid, ci dice – facendo correre un brivido – che deve continuare a raccontare la propria malattia: finché si replica lo spettacolo, vuol dire che lei è viva. Certo, per chi partecipa a laboratori come quelli di Teatroincontro, il teatro offre uno strumento: è un mezzo, si è detto, e non un fine. Ma dal punto di vista del teatro, questo uso strumentale diventa indispensabile per ridefinire propria funzione.
Il lavoro sulla scena è occasione di conoscenza e di costruzione di significato anche per gli spettatori, naturalmente: questo teatro in corto circuito con la realtà permette di entrare in contatto ed esplorare nuovi “pezzi di mondo”, e i loro racconti. Ma perché uno spettacolo sia davvero strumento di conoscenza per chi lo fa e chi lo guarda, perché il pubblico venga davvero colpito da quello che vede, a Mimmo Sorrentino non basta che lo spettatore si emozioni o si commuova: vuole che si interroghi, pretende che una domanda lo riattivi, così come riattiva i suoi protagonisti. Non basta aprire la finestra su uno spicchio di realtà che incuriosisce, non basta nemmeno lo specchio dell’“io lirico” che fa scattare l’identificazione, non basta la catena del racconto che cattura l’attenzione: è necessario il lavoro dell’attore.
Perché il “teatro partecipato” affronta i due corni del dilemma della pratica scenica attuale: da un lato quella della drammaturgia, il lavoro di scrittura; dall’altro quello dell’interpretazione, il lavoro dell’attore, il suo corpo, il suo gesto. E lo fa in maniera assai moderna, mettendo l’attore al centro della questione; o meglio, mettendolo all’inizio e alla fine del processo creativo.
Gli attori di Sorrentino non sono certo automi o marionette che devono eseguire un compito prestabilito da un autore e/o da un regista, anzi. Così come accade in molte esperienze chiave della scena contemporanea, l’attore contribuisce in maniera determinante all’elaborazione dello spettacolo: con il proprio vissuto, la propria esperienza, la propria creatività, la propria sensibilità, le proprie invenzioni. In questo caso, non lo fa solo con improvvisazioni “fisiche”, ma anche e soprattutto attraverso il racconto della propria esperienza, del proprio vissuto, e la scrittura: da un certo punto di vista, le “poesie” sono improvvisazioni da cui partire per comporre la drammaturgia. Da lì parte il lavoro di montaggio e composizione, su base narrativa e musicale – con il tema del teatro nel teatro come eventuale contrappunto, come basso continuo.
Allo sciamano Sorrentino, però, la stesura del testo non basta. Le sue parole devono tornare vive sulla scena, nel corpo e nella voce dell’attore. Nel luogo comune il teatro è ripetizione, replica del già agito, ma sulla scena ripetere non basta: ci dev’essere una tensione dinamica, un’azione – l’attore è etimologicamente “colui che agisce” – e non la meccanica ripetizione di una forma già data. Il “trucco” che adotta Mimmo è molto simile a quello “scoperto” e praticato da Barba (che in qualche riprende le “azioni fisiche” di Stanislavskij).
Il cervello umano è programmato per pre-vedere, per prefigurare lo svolgimento di un’azione e anticipare il percorso e la fine. Vedendo l’inizio di un’azione, il cervello balza alla sua conclusione. (...) Questa previsione è dovuta al senso cenestetico, la sensazione grazie alla quale percepiamo le posizioni corporali, le tensioni muscolari e i movimenti.
Eugenio Barba, Bruciare la casa, Ubulibri, Milano, 2009, pp. 123-124.
Ma allora come evitare che le azioni dell’attore diventino prevedibili allo sguardo dello spettatore? Perché l’attore non rinchiuda i suoi materiali in un senso univoco e prestabilito, Barba chiede all’attore di lavorare su “un riferimento intimo che permette alla scena di raggiungere una profondità e di essere alimentata e anche contraddetta da un’eco profonda”. Sono quelle che Barba chiama “le sorgenti”, e che per gli studiosi di letteratura costituiscono il sottotesto – ovvero l’inconscio del testo, per usare una terminologia cara a Sorrentino. Quando agisce, in prova o in scena, l’attore lavora così su un doppio binario: nega l’azione compiendola; e qui si potrebbe avvertire un’affinità con il grottesco di Mejerchol’d, lo straniamento di Brecht, la dialettica di apoteosi e derisione di Grotowski, ma anche con certe recenti ipotesi delle neuroscienze. Fa così emergere gli ossimori che permettono di “ingannare l’aspettativa cenestetica” e la prevedibilità delle concatenazioni narrative, i paradossi che bloccano il meccanismo della “pre-visione (...), la premessa per arrivare alla visione”. Così si rimette in moto la tensione conoscitiva dello spettatore.
Il “metodo Sorrentino”, la sua consegna paradossale, va in questa stessa direzione: per riattivare la forma chiusa della drammaturgia, faticosamente raggiunta attraverso il processo di scrittura e montaggio, è necessario che l’attore – professionista o no – lavori su un duplice registro: uno esterno, esplicito (il testo) e l’altro interiore, segreto, in grado di mettere in moto l’inconscio dell’attore e quello dello spettatore. E’ per questo che, applicato sugli allievi drammaturghi e attori, questo metodo funziona anche nella “normale” pratica teatrale, aprendo nuove possibilità di “portare in scena la realtà”. Lo dimostrano i risultati del laboratorio tenuto alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, dove Mimmo è approdato nel 2009 (vent’anni prima era stato bocciato all’esame d’ammissione: come dice la pubblicità, certe soddisfazioni non hanno prezzo...)
Forse è proprio questo il vero miracolo che compie Mimmo Sorrentino con i suoi spettacoli, il prodigio che compiono i veri registi. Guardare in più direzioni allo stesso tempo, oltre l’orizzonte del teatro. Vedere quello che gli altri non vedono, dentro l’anima dell’attore e renderlo visibile a tutti. Con una lucidità e una sincerità commoventi.
Mimmo parte da un fortissimo dato di realtà, e da una commissione esterna spesso zavorrata di burocrazia. Lavora in genere con persone che hanno drammatici e urgenti problemi quotidiani. Partendo da questo grado zero, il suo intervento “produce inconscio”, sia in chi gli spettacoli li crea, insieme a lui, sia in chi quegli spettacoli li vede, seduto tra il pubblico.
Con la sua “osservazione partecipata”, anno dopo anno, laboratorio dopo laboratorio, Mimmo Sorrentino sta tracciando una inedita cartografia profonda della società italiana: là dove c’era il disagio (e l’Es) ora c’è il teatro, là dove c’era una differenza, un potenziale conflitto, ora ci sono personaggi e racconti. Quelle di Teatroincontro sono piccole azioni e pratiche che cambiano le persone, fanno affiorare piccole isole di utopia dove fioriscono identità e relazioni – e che per contrasto rendono opaca e dolorosa la realtà che le circonda, e dunque possono mettere in moto meccanismi di emancipazione. Queste sono le motivazioni e insieme gli effetti percepibili, oggettivi, spettacolari, di un progetto che dura orma da vent’anni. In questo sta il valore politico di un’attività che naturalmente inquieta subito i custodi dello status quo. Che infatti può suscitare – analogamente a quanto accade con i fenomeni fisici – “una reazione uguale e contraria”, come spiega lucidamente lo stesso Sorrentino.
Per concludere, però, varrebbe forse la pena di farsi una domanda su Mimmo Sorrentino. Dove sta guardando? Qual è la “consegna paradossale”, segreta, che si è assegnato? Cambia ogni volta, o è sempre la stessa? Dove si tradisce il suo inconscio? Ma questa sarebbe un’altra storia e forse un altro spettacolo, tutto diverso da quelli che Mimmo ha creato finora. O un altro libro, tutto diverso da questo Teatro partecipato.
Questo testo è pubblicato in Mimmo Sorrentino, Teatro partecipato, postfazione di Oliviero Ponte di Pino, Titivillus, Corazzano,120 pp., 14,00 €.
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