ateatro 122.12 L'ironia e la pietas Un ricordo di Pina Bausch di Gianandrea Piccioli
La morte di Pina Bausch mi addolora molto più di quanto avrei potuto immaginare. Certo, è stata una grandissima, un genio della scena contemporanea, una luce tra le più intense nella grande galassia teatrale del Novecento. Ha rivoluzionato la danza moderna e ha inciso a fondo anche nella carne scoperta della scena di “prosa”, come si diceva una volta, quando il teatro era diviso per generi (ancora quest’anno ho visto un vitalissimo e giovanissimo gruppo belga, l’Ontroerend Goed, chiaramente tributario dello stile di Wuppertal).
Ma non è solo per questo che la sua scomparsa mi lascia smarrito e con quella depressione tipica degli stati di lutto, cioè con la pena di chi perde qualcuno di caro e qualcosa di personale, che fa parte di sé. Il fatto è che Pina Bausch ha saputo esprimere come nessun altro la solitudine e il bisogno di amore dell’uomo. Stavo per scrivere “contemporaneo”, e mi son fermato non per paura del cliché, ma perché sarebbe sbagliato: era la condizione umana in quanto tale che le premeva, non la determinazione sociologica o l’astrazione ideologica. Queste venivano dopo, erano una conseguenza: la derelizione dell’esistente era per lei strutturale, non storica. Altri grandi artisti del Novecento hanno trattato la solitudine, ma sempre come portato dei tempi o della società, come alienazione, non come pena che viene dall’intimo del nostro essere. Tale condizione universale negli spettacoli si declinava poi individualmente, nei mille rivoli delle storie rappresentate dai suoi attori-danzatori e montate da lei con sguardo freddo e cuore comprensivo. Nessuno come lei, forse nemmeno il grande Beckett, ha saputo indagare così a fondo nel nucleo segreto di ciascuno di noi, della nostra umanità dipendente e insieme frustrata dalla relazione con l’altro. Per questo è stato detto, con ragione, che gli spettacoli della “zia Pina”, come affettuosamente la chiamavano i suoi ammiratori, sono stati l’autocoscienza di almeno due generazioni, senz’altro di quella uscita, come lei, dagli anni della guerra: alle spalle la vergogna e l’orrore e davanti un futuro che si sarebbe rivelato presto delusivo.
Eppure non è sul negativo che si sofferma la Bausch, e qui gioca molto, credo, il suo essere donna. I suoi personaggi sono spesso meschini, frustrati, soli, soprattutto velleitari, ma non c’è mai derisione o condanna, non c’è giudizio: solo ironia temperata dalla pietas. La Bausch non è affascinata dal male, lo costata e cerca di comprenderlo senza lasciarsene irretire. Semmai la sconcerta il mistero della bellezza, la sua assoluta gratuità. Della bellezza vive la seduzione, ne avverte istintivamente la vitalità, la cerca, la trova anche là dove non sembrerebbe esserci, magari perché celata dietro la goffaggine del corpo o l’inconcludenza dell’anima. Sa rendere bello il brutto. Con elegante semplicità riesce sempre a riscattare, attraverso la bellezza, gli stravolgimenti della sofferenza. E questa è la grazia che Pina Bausch ci lascia, con la leggerezza di un elfo.
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