ateatro 121.7
Il teatro dell'osservazione partecipata
L'intervento alle Buone Pratiche 2009
di Mimmo Sorrentino
 

La mia pratica teatrale si ispira a una disciplina propria delle scienze sociali, l’“osservazione partecipata”.
Nell’osservazione partecipata il ricercatore prende parte, in misura più o meno intensa e regolare, alle attività di un gruppo, ed è direttamente coinvolto nelle dinamiche decisionali e di cambiamento che la sua ricerca/intervento produce. Nel mio caso, ho coinvolto nella mia ricerca teatrale attori, ma anche studenti, bambini, extracomunitari, tossicodipendenti in recupero, malati terminali, malati di Alzheimer, abitanti di quartieri disagiati, diversamente abili, rom. Persone molto lontane dalle accademie teatrali, come non accademica è la mia formazione. I miei maestri sono stati Norberto Bobbio, Danilo Dolci, Italo Mancini; poi mi sono fatto aiutare nella scrittura di alcuni dei miei testi da altri importanti maestri come Piergiorgio Odifreddi e Vittorino Andreoli. Ma è soprattutto di Danilo Dolci che vi parlerò, anche se in breve, perché Dolci è l’esempio più chiaro di un sociologo, poeta e pedagogo che ha praticato in Italia l’osservazione partecipata.
Sono sicuro che molti di voi già lo conoscono, grazie anche al lavoro teatrale realizzata dal Teatro della Cooperativa, ma mi è indispensabile parlare di Danilo Dolci per spiegare come l’osservazione partecipata possa applicarsi al teatro. Poeta, intellettuale e pedagogo, nato a Trieste nel 1924 e più volte candidato al Premio Nobel per la pace, nel 1952 Dolci si trasferì a Trappeto, uno dei paesi più poveri della Sicilia, con l’obiettivo di emancipare la gente del luogo. Piantò una tenda in un campo e iniziò a lavorare al suo progetto, “senza sapere assolutamente nulla dei problemi del Sud e delle tecniche di lavoro socio economiche”, come dice in Esperienze e riflessioni.
Oltre a denunciare e far pratica di documentazione, si occupò di assistere la parte più bisognosa della popolazione, accogliendo i figli dei tisici e dei carcerati. Il suo sciopero della fame sul letto di un bambino morto per denutrizione scosse la nazione. Fu al fianco dei pescatori che lottavano contro i motopescherecci fuorilegge. Diede vita all’Università Popolare. La prima conversazione culturale fu sul tema “L’educazione per una società libera”. Partecipò tutto il paese. Fu messo in prigione per aver organizzato uno sciopero alla rovescia: portò i contadini a lavorare a una vecchia trazzera che il comune non metteva a posto. Fu il primo a installare una radio libera, in cui diede voce agli abitanti del Belice. Denunciò le collusioni tra politica e mafia.
Ma credo che l’opera più importante che ha realizzato in Sicilia sia stata la diga sul fiume Jato. In una riunione un contadino disse che secondo lui per risolvere il problema dell’acqua ci sarebbe voluto un grande “bacile” che la contenesse: fu così che nacque l’idea di una diga, che Danilo Dolci realizzò con i braccianti della zona, trasformando di fatto l’economia di quella parte della Sicilia orientale. Il ricercatore, l’intellettuale, nel praticare l’osservazione partecipata, traduce in parole le necessità di coloro che non hanno le conoscenze linguistiche per esprimerle: traduce il “bacile” in “diga”. Questo atto è il ponte che permette alla necessità di trasformarsi in progetto.
E’ proprio quello che provo a fare quando incontro i gruppi di persone che vi ho elencato all’inizio: provo a dare voce alle loro necessità e a organizzarle in uno spettacolo teatrale. Lo spettacolo teatrale è la diga che costruisco con loro. Una diga infinitamente più piccola di quella costruita sul fiume Jato da Danilo Dolci, ma comunque una diga, qualcosa che provoca un cambiamento nelle strutture e nelle persone con cui vado ad agire.
A sollecitare il mio intervento di solito sono enti pubblici o privati, che chiedono la mia disponibilità a lavorare con i utenti. Per esempio, un preside di una scuola chiederà che l’offerta teatrale sia rivolta agli studenti, più di rado ai docenti; una fondazione che si occupa di stranieri mi proporrà di lavorare con gli immigrati. Nel primo incontro, cerco di capire se le mie competenze sono adeguate alle esigenze dei comittenti, verifico le strutture che l’ente mette a disposizione e l’offerta economica. Se mi sembra che le condizioni siano accettabili, inizio la fase di preparazione del progetto: studio il contesto; definisco i tempi di realizzazione e gli obiettivi; immagino le ricadute sui partecipanti e sulla struttura; predispongo le modalità con cui il lavoro svolto sarà valutato; verifico i termini economici del contratto. Appena sono pronto, incontro di nuovo il richiedente e discutiamo il progetto: se viene accettato, firmo il contratto.
A quel punto, si parte con il lavoro. La prima fase consiste nel motivare il gruppo: infatti non mi rivolgo a persone che hanno scelto di fare teatro, ma a un gruppo a cui viene proposto di fare teatro da chi si occupa di loro: nel caso di una scuola, a chiamarmi non sono gli studenti ma il dirigente scolastico; nel caso di giovani che frequentano un centro giovanile comunale, sono l’assessore o i dirigenti di settore. Nella fase di motivazione spiego al gruppo perché faccio teatro e che cosa vuol dire per me fare teatro: lo faccio proponendo loro alcuni esercizi teatrali, perché sono convinto che la pratica sia una buona modalità per spiegare qualcosa a qualcuno. In questo modo comunico loro che per me il teatro vuol dire imparare a dare il meglio di sé; inoltre il teatro offre uno strumento che permette di leggere il comportamento umano soprattutto per quel che riguarda il suo modo di comunicare; e permette di imparare a conoscersi meglio. Quindi il teatro è un mezzo attraverso cui le persone scoprono qualcosa che non sanno e che li riguarda.
Una volta motivato e organizzato il gruppo, passo alla seconda fase: faccio scrivere dei testi o intervisto i membri del gruppo. Sia nel primo caso sia nel secondo, a interessarmi non è tanto la storia che mi raccontano, ma il modo in cui viene raccontata. Faccio mia una intuizione di Lacan che, al contrario di Freud, più che al sogno in sé era interessato a come veniva raccontato: mi concentro molto su ciò che le persone dicono o scrivono, ma non sanno di aver detto o scritto. Raccolgo tutto questo materiale e lo trasduco, cioè lo faccio diventare testo. Questa operazione funziona solo se vuoi bene alle persone che hai di fronte, anche se sono delinquenti, spacciatori, studenti insopportabili, persone con cui non usciresti mai a cena. Gli devo voler bene, perché altrimenti non posso scrivere di loro. Io voglio e ho voluto bene anche ai personaggi più orribili che ho portato in scena.
Ritorno dal gruppo e leggo ciò che ho scritto a partire dai loro racconti e scritti. Se il lavoro piace, si passa alla fase successiva: portare il testo redatto a spettacolo. Innanzitutto chiedo al gruppo, ovvero l’utenza, se sono interessati a recitarlo. Se la risposta è positiva, verifico se il numero degli attori è già sufficiente, altrimenti mi rivolgo ad acuni attori. E se il testo scritto mi convince, anche quando il gruppo di lavoro decide di non recitare mi rivolgo a degli attori: è successo con Case popolari, perché le casalinghe che mi avevano raccontato le storie non se la sentivano di salire sul palco; e in Ave Maria per una gattamorta, perché ai ragazzi che mi avevano raccontato le storie non è stato permesso di portarle in scena.
A quel punto, si parte con le prove. Definisco il mio metodo di lavoro “consegna paradossale”: l’ho elaborato a partire dagli studi di Palo Alto, da testi di Gregory Bateson e Paul Wazlawitch, oltre che dalla teoria sistemica applicata alla famiglia a transazione schizofrenica elaborata dalla dottoressa Selvini Palazzoli. Spiegare questo sistema sarebbe in questa occasione troppo lungo e complesso, ma posso dirvi perché lo uso. Lavorando con attori non professionisti, ma in verità anche lavorando con attori professionisti, ho spesso trovato persone che, quando salivano in scena, nel migliore dei casi si preoccupavano di spiegare le parole che dicevano, e nel peggiore di non dimenticarsi le battute. Nel primo caso, quando l’attore è sicuro in scena, ciò che rappresenta è l’ostentazione del suo apparente benessere nello stare sul palco e quindi di trovarsi a suo agio nella prestazione; nell’altro caso porta in scena la paura di sbagliare. Ma a me non interessa il loro inconscio, mi interessa quello dei personaggi. Ecco, con il mio metodo faccio in modo che in scena ci sia l’inconscio dei personaggi e non quello degli attori.
Dopo che abbiamo allestito lo spettacolo, si passa alla verifica. Nel caso di un produttore teatrale, la verifica è semplice: certo, lo spettacolo gli interessa, ma gli interessano di più il numero e il gradimento degli spettatori e il parere della critica: il soggetto a cui si rivolge un produttore è il pubblico. Spesso però il produttore non fa una stima di quanto pubblico si aspetta: invece è importante chiedergli di fare una proiezione ed è possibile farla. Bisogna prendere in esame il numero di spettatori che di solito frequentano il teatro che ti ospita e la tua posizione sul mercato. Se per esempio sei al primo spettacolo e non hai vinto il Premio Scenario, allora è probabile che la quantità di tuo pubblico dipenda essenzialmente dalla quantità di relazioni che ha intessuto il gruppo di lavoro e dal possibile passaparola; da quanto si è investito in pubblicità; e se e quanto il teatro che ti ospita è frequentato dai critici. Così alla fine delle repliche puoi valutare se hai otenuto il risultato che ti aspettavi oppure no. Nel mio, nel nostro caso, ci sono voluti otto anni perché da un pubblico basato su relazioni personali si passasse a un pubblico generico.
Nel caso in cui il richiedente sia un ente pubblico o privato, la verifica più che sul pubblico riguarda la soddisfazione avuta dal gruppo di lavoro e dall’impatto sul contesto di riferimento: nel caso di una scuola, i suoi studenti, i docenti, i familiari; nel caso di un comune o di un quartiere, i suoi abitanti. Si può condurre questa verifica con un questionario che è bene redigere insieme ai responsabili dell’ente richiedente, in modo che la valutazione sia condivisa.
La differenza tra un produttore teatrale e un ente pubblico o privato è che, qualora si siano raggiunti gli obiettivi, con il produttore di solito il lavoro continua, mentre con l’ente pubblico o privato questo non sempre accade. Con il produttore teatrale la relazione si interrompe essenzialmente quando il produttore cambia progetto, e quell’attività non rientra più nei suoi obiettivi. Nel secondo caso invece avero raggiunti i risultati prefissati non implica necessariamente che la collaborazione continui. Per capire perché, basta un esempio. Una scuola ti chiede di motivare gli immotivati, tu li motivi e gi studenti si esprimono; restano tutti meravigliati perché ragazzi che non hanno nessun interesse per la scuola e hanno atteggiamenti al limite del bullismo, ora studiano, collaborano e si prendono delle responsabilità. Allora i docenti, non tutti ma i più sensibili, diciamo, fanno il mea culpa: “Forse è colpa nostra se questi ragazzi non amano la scuola”. A pelle, verrebbe da rispondere che è proprio così, ma sarebbe una risposta superficiale. Studenti e professori sono in relazione tra di loro, sono un sistema ed è ovvio che per produrre un cambiamento bisogna agire su entrambi: tuttavia la richiesta era di motivare gli studenti, non l’intera struttura.
La richiesta è paradossale in origine, perché non si può ottenere un cambiamento reale se non si lavora sull’intera struttura. Quando si presenta un progetto, bisognerebbe spiegare al committente che non è pensabile ottenere un cambiamento di una parte del sistema se non si agisce sull’intero sistema: purtroppo mettere in chiaro questo aspetto vuol dire non arrivare alla firma del contratto, e tuttava secondo me vale la pena non firmare, perché firmare, a giudicare dalla mia esperienza, significa alla fine aggiungere conflitti a conflitti e lavorare crea depressione. Meglio spendere molto tempo prima per dimostrare al committente che da questo cambiamento hanno tutti da guadagnare, perché se ti chiamano significa che c’è malessere nel sistema: nel caso delle scuole, c’è malessere tra gli studenti, ma anche tra i professori, e anche tra i bidelli. E’ proprio per questo che viene fatta un’offerta del genere: per lavorare su questo malessere del sistema. Se non lavori sull’intera struttura, ma solo su una parte, in realtà si fa animazione; e per un’animazione, anche ben fatta, non c’è bisogno di rivolgersi a registi o drammaturghi, è più utile ed economico rivolgersi agli animatori: se ben fatto, il loro lavoro ha una sua utilità, anche se l’obiettivo ha un profilo più basso.
C’è però un altro aspetto per me fondamentale: non è corretto pensare che, solo perché tu sei nel giusto, solo perché hai motivato gli immotivati, allora hai il diritto di continuare il tuo lavoro e che coloro che te lo impediscono sono brutti e cattivi. Perché non basta aver ragione: bisogna anche riuscire a dimostrare al richiedente che gli conviene lavorare con te, e se sei capace di dimostrarglielo perché non dovrebbe farti lavorare? Se riesci a raggiungere gli obiettivi proposti, a quel punto è ovvio che ti fa continuare. Se il progetto finisce è perché non sei stato capace di dimostrare al richiedente che gli conveniva lavorare con te. Solo per questo.
In verità, io faccio fatica a dimostrarglielo, perché quando mi trovo a parlare con presidi, assessori eccetera, non riesco a volergli bene e quindi non riesco a scrivere e a parlare di loro e con loro.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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