ateatro 120.6 Luoghi e mappe Un incontro sui piccoli teatri nelle grandi città di Mimma Gallina
Milano, inverno 2008/2009
Se una notte d’inverno uno spettatore professionale o forse semplicemente curioso, si fermasse per un momento a mettere ordine nelle schede raccolte e nelle immagini mentali, e cercasse di ricostruire la mappa del suo peregrinare attraverso la città, scoprirebbe che le tratte inusuali, le connessioni e le fermate impreviste hanno determinato le impressioni dominanti ben più di quelle usuali e si ritroverebbe stupito.
E’ successo poco a poco, nel giro di qualche anno, poi sempre più velocemente, che i luoghi sacri e quelli più battuti negli anni, hanno circoscritto il proprio posto nel cuore della città teatrale, e una vitalità inattesa e felicemente disordinata ha animato le periferie della città e del sistema. E’in questa nebulosa che si è immerso in inverno lo spettatore.
Come i percorsi, anche gli orari hanno scardinato le abitudini. La domenica sera e il lunedì si può contare su luoghi che raramente deludono e a volte sorprendono. I ragazzi della Contraddizione (rintanati a Porta Romana come una vera antica cantina), o del Guanella (parrocchiale ma accogliente, là fuori mano, verso la 90/91 proseguendo sulla direttrice Out Off), o del Pim (accogliente nel suo piccolo capannone fra piccoli capannoni inghiottiti dalla città dopo la sede provvisoria del Franco Parenti ora deserta) sono attenti e generosi nelle scoperte, poco timorosi del confronto con la propria produzione (quando producono: ma non è solo la produzione che fa di uno spazio un luogo), e si può scoprire qualche gruppo toscano, o romano, o magari straniero ancora ignoto a Milano.
Lo spettatore, riordinando programmi e volantini, vede che è sempre valsa la pena di andare al piccolo Teatro i, raffinato fin nei dettagli e straboccante di spettatori. Non è riuscito invece a dedicare attenzione alla caparbia coerenza del Libero o dell’Olmetto, più o meno altrettanto centrali e frequentati (si rimprovera la distrazione e si ripromette di andarci di più).
E’stato spesso, invece, nel profondo sud della città, dove arriva provvidenziale la linea gialla, sulla via del vecchio Centro di via Dini - che può regalare ancora sorprese - al Ringhiera, casa dell’ATIR da un annetto: lo spazio qui non è piccolo e la periferia da scoprire e conquistare richiederà tutta la famosa energia del gruppo, in scena e fuori. Anche al polo opposto della città, giù al nord verso Niguarda e Sesto, i fratelli maggiori della Cooperativa e del recente spazio Mil, o il nuovo Teatro la Cucina al Paolo Pini deviando per Affori, si trovano a difendere o disegnare la propria identità e combattere la stessa battaglia alla ricerca del pubblico della grande Milano. Le vie per un teatro popolare sono infinite, ma sempre difficili da trovare.
Anche le Moire dopo dieci anni hanno scelto di avere uno spazio proprio: è l’ultimo arrivato e il primo del 2009, una piccola, gradevole sopresa in un quartiere di vecchie case popolari - come poi non se ne sono fatte più - in zona Porpora/Loreto.
Lo spettatore è un animale metropolitano e crede di conoscere la città e i suoi spazi, ma la mappa diventa sempre più complessa e intricata e non gli dispiace scoprire che non è così. Sta nevicando, e un tè caldo lo accoglie a Spazio Zero nel cuore della Bovisa (vicinissimo c’è anche la Scighera, quel circolo Arci così accogliente e anomalo, dove si può recuperare qualche spettacolo di ritorno): non c’era mai stato e fra qualche mese quello spazio che funziona da cinque anni non ci sarà più. Il gruppo e i ragazzi del Beccarla con cui lavora troveranno un’altra collocazione -si spera- e al suo posto sorgerà un grattacielo. Expò!
Il paesaggio di Sironi soccombe alla speculazione, nuovi volumi lo schiacciano e lo spettatore prova un rimpianto irrazionale per la città industriale. Non vorrebbe essere disfattista. Ma come sarà la nuova città?
Purchè questa vitalità non sia troppo disperata.
Piccoli spazi e grandi città
Un incontro opportuno
La rivista “Hystrio” ha promosso giovedì 22 gennaio in collaborazione e presso lo Spazio Tadini il dibattito Roma e Milano: piccoli spazi e grandi città. Confronto tra le più vivaci realtà teatrali del territorio milanese e romano”, a cura di Roberto Rizzente e Claudia Cannella.
“Dislocati sull’intero territorio nazionale, i piccoli teatri trovano a Roma e Milano le capitali di elezione: se ne segnalano una quarantina tra quelli in attività, senza contare le sale di recente formazione. Movendo dal confronto tra i direttori artistici di alcune realtà milanesi e capitoline, coordinati dal direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano, Antonio Calbi, la serata vuole arrivare a definire i punti salienti del fenomeno, indagandone le ragioni storiche e delineando possibili scenari per il futuro, a fronte della sopravvenuta crisi del Welfare State italiano” (dal comunicato stampa).
Questi e altri i motivi di interesse del tema, però la mattina di questo stesso giorno di gennaio a Milano si è sgomberato il Conchetta, e suona un po’ stonato essere lì a parlare con un dirigente comunale della funzione e del futuro degli spazi più vitali della città. Ma Antonio Calbi in premessa stigmatizza e prende le distanze dall’ennesima azione inquietante di questa amministrazione, è lì come buon conoscitore del teatro romano, di quello milanese e operatore momentaneamente prestato alla pubblica amministrazione, uno e trino insomma, un po’ di là un po’di qua dalla barricata, sa dare alle testimonianze una direzione stimolante (e solo lui alla fine avrà ricordato e espresso esplicitamente solidarietà al povero CSOA COX, già piccolo spazio di aggregazione e cultura della grande città).
A partire da un interessante e opportuno inquadramento storico, sociale, urbanistico, demografico e politico-teatrale delle due città e della loro specificità.
Dalla nascita del Piccolo nel ‘47, attraverso la rete delle convenzioni che ha esteso il concetto di teatro pubblico dalla metà degli anni Ottanta, fino all’ultimo recente allargamento delle stesse convenzioni in un assetto totalmente mutato, la città di Milano – anche urbanisticamente più compatta e pianificata - ha saputo creare e sostenere un “sistema” (che a lungo tutto il teatro italiano ha riconosciuto e invidiato), applicando anche al teatro la sua vocazione civile.
Roma, stratificata e dispersa, ben più vasta e popolosa, si è dotata tardi del proprio teatro pubblico, ha espresso effervescenza e mobilità, inventato e cavalcato la politica spettacolo (da Nicolini a Veltroni), ma non ha saputo o voluto creare forme strutturate di sostegno.
Anche Roma, così cialtrona e sottoproletaria col suo panem et circenses, è stata invidiata in un tempo non troppo lontano, per la verità, ma siamo un popolo che tende all’amnesia, teatro incluso. Nel corso delle testimonianze saranno frequenti le critiche alla politica culturale di Veltroni, un po’ ingenerose e tardive: come se proprio niente in quella politica che si è rivelata perdente, ma così spesso esaltata, fosse apprezzabile, come se non avesse sfumature, come se non esistesse anche un volto meneghino, non meno inquietante, della politica-spettacolo.
Il giovane giornalista romano Marco Andreoli riporta alla storia recente e al presente e precisa questo panorama, caratterizzato da un alto tasso di natalità e di mortalità degli innumerevoli piccoli spazi dispersi nell’intero territorio metropolitano, privi di sostegno e nell’ impossibilità di stabilire rapporti istituzionali (quando non apertamente osteggiati, come il CSOA Angelo May, accostato al Conchetta). Contrappone queste esistenze precarie ai teatri decentrati di proprietà comunale, rilanciati non senza demagogia: quello di Tor Bella Monaca in particolare (direzione artistica inizialmente affidata a Michele Placido, gestione a Romauropa), e quello di Quarticciolo, teatri che ha definito “di cartone” privi di anima, e privati anzi di quella che avevano. La perdita di identità dei luoghi di spettacolo è forse uno dei punti più critici e merita riflessione il degrado (anche la volgarità) impresso alla scena romana dall’invasione trasversale dei comici.
Restando a Roma, Andrea Felici descrive lucidamente la funzione di un teatro come il Furio Camillo: in grado di intercettare la ricerca – anche per la progressiva incapacità si svolgere questo ruolo delle sedi storicamente deputate - e un pubblico giovane. Una funzione utile, anche alle istituzioni, che tuttavia più che sostenere questi spazi li tengono in vita, nella consapevolezza – da entrambe le parti - che se uno crolla, ne nascerà un altro. La domanda è come -e se- sia possibile rimanere se stessi nell’equilibrismo fra autonomia e dialogo istituzionale.
Altrettanto lucido Graziano Graziani del Rialto Sant’Ambrogio ricorda la storia del Centro, dalla prima sede occupata e autogestita, alla concessione degli attuali spazi da parte del comune, per sei anni. Si tratta di un complesso storico e centrale, articolato in modo da consentire un’attività multidisciplinare e simultanea, che il gruppo di organizzatori-programmatori che lo dirige ha orientato con decisione alla contemporaneità. Il centro ha scelto di non produrre in proprio, ma praticare forme di co-produzione e difende la propria autonomia: in termini economici questo significa fra l’altro che è con le entrate dalla musica e dalle altre attività del centro che si finanzia l’attività teatrale in perdita. *
Il rapporto con la pubblica amministrazione è quindi circoscritto alla concessone dello spazio – che non è poco - e caratterizzato da una sorta di schizofrenia in rapporto alle problematiche dell’agibilità (lo stesso Comune lo ha chiuso a lungo).
Risalendo a Milano, è tutta un’altra economia quella che ha descritto Edoardo Favetti del Pim Spazio Scenico, riferendo (nell’invidia generale e nella sorpresa dei molti che non lo sapevano), che all’origine di questo luogo c’è la scelta di un mecenate di sostenere la creatività di giovani milanesi e non (un mecenate vero: che dà senza voler apparire, per un fine artistico nobile). Pim, che nel giro di un paio d’anni si è ritagliato uno spazio importante, non produce, ma sostiene progetti, ospita, accoglie fra l’altro in residenza la compagnia Animanera, grazie al sostegno della fondazione Cariplo-progetto ETRE (eseprienze teatrali di residenza).
Più lunga e complessa la vicenda di Renzo Martinelli e della sua compagnia, che approda al Teatro ì di Milano dopo alterne vicende organizzative - “ci si è inventati i festival per sopravvivere” - e collaborazioni con altri teatri e oggi, dopo solo due anni, sta stretto in quel piccolo spazio, fra quelli recentemente convenzionati dal Comune di Milano, e si trova a dover progettare e gestire una fase di espansione. La necessità di darsi una missione forte (applicata alla vocazione produttiva ma anche ai modi di relazionarsi con altre realtà e personalità, accoglierle e in qualche caso sostenerle), la scelta e il metodo di programmare per proiezioni triennali, le strategie organizzative: teatro I sembra esprimere in tutto la maturità che ne ha fatto un punto di riferimento nella mappa del teatro di ricerca milanese.
Antonio Calbi traccia le coordinate della rinnovata politica delle convenzioni fra Comune e teatri, che allargando le organizzazioni convenzionate da 14 a 20 (ma non va dimenticato che un primo allargamento – da 9 a 14 - fu operato qualche anno fa’ dall’assessore Carruba), ha riconosciuto un panorama mutato e creato le premesse per il suo consolidamento. Non solo, l’intenzione è quella di aprire ulteriormente, accostando alle due fasce attuali (quella più consolidata – inclusi i teatri storici - e le realtà più giovani o che di recente si sono dotate di spazi) e convenzionando i punti di riferimento di un’area più aperta e meno strutturata, secondo il criterio guida, e il presupposto irrinunciabile, della compresenza di creatività, capacità di aggregazione, esperienza.
Calbi precisa questa politica introducendo Marco Maria Linzi del Teatro della Contraddizione, che – unico, e fedele al nome della sua organizzazione - sembra mantenere qualche riserva verso l’istituzione. Anomalo per scelta, questo teatro integra l’attività produttiva (programmaticamente contenuta), con ospitalità meditate, anche internazionali, l’organizzazione di una scuola (per la sopravvivenza, ma non solo): ha insomma costruito un proprio percorso coerente, una credibilità, una economia dura ma autosufficiente, e non intende farsi istituzionalizzare.
Ma il dialogo è comunque possibile. Sempre che l’evoluzione prospettata da Calbi si attui. Lui stesso ha ricordato l’alternarsi di assessori e la difficoltà di disegnare politiche culturali di respiro e potrebbero esserci non pochi ostacoli anche per una volontà convinta. Le critiche al nuovo sistema di convenzioni (paremetri, quantificazioni etc.), e alle modalità di un ulteriore allargamento sono estese fra i teatranti milanesi e sembrerebbero anche tecnicamente motivate se non le rendesse sospette il provenire dagli stessi ambienti che hanno avallato o beneficiato per due decenni della cupola, del club chiuso dei teatri convenzionati che ha ingessato il sistema cittadino (i “poteri forti” del teatro). Le risorse poi sono poche e restano sbilanciate e risucchiate da altro, per scelta e non. Penso anche che possa essere un errore orientarsi sulla convenzione come unica forma possibile per dare solidità e relative certezze a una realtà in evoluzione, alla sua area in movimento, difficile da imbrigliare, credo che si debbano pensare e introdurre forme nuove di sostegno, dirette o indirette.
L’autonomia non è solo una necessità economica e organizzativa, è anche un modo di essere, da salvaguardare, da rispettare (anche da sostenere: e non è un paradosso), e le convenzioni forse non si addicono all’autonomia. Può essere una condizione scomoda, ma che stimola la creatività anche organizzativa, come sembra indicare in conclusione Daniele Timpano (del Consorzio Ubusettete di Roma): progettare rassegne, consorziarsi, mettere in comune servizi (è un’esperienza raccontata nelle ultime Buone Pratiche e su cui c’è ampia documentazione nel sito www.ateatro.it).
Lascio l’accogliente spazio creato e animato dai fratelli Tadini e da un gruppo di amici e intellettuali milanesi nel ricordo del padre, con l’impressione che si sia avviata una riflessione importante, ma che non si sia toccato un nodo del problema: la necessità, o la possibilità, o l’opportunità di disegnare nelle città come Roma e Milano “piani regolatori” delle mappe teatrali, che cerchino di conciliare la creatività diffusa e l’imprenditorialità che genera spazi, con la sostenibilità, la complementarietà delle missioni, la necessità di razionalizzare la diffusione e con la funzione del teatro e dei teatri nella città che cambia, col suo pubblico vecchio e nuovo.
Si è trattato del primo di una serie di incontri, che si prospettano altrettanto stimolanti. I prossimi, che “Hystrio” promuove, sempre in collaborazione con lo spazio Tadini, saranno
16 febbraio: Teatro in dvd, una nuova vita oltre la scena?
9 marzo: Liberi tutti: quale teatro per uscire dalla marginalità?
Dibattito con alcune realtà milanesi attive nel campo del teatro sociale (carcere, handicap, integrazione, disagio giovanile ecc.) e testimonianze del loro “lavoro sul campo”.
Aprile (data da definire): Fotografare il teatro.
Mostra - proiezione di fotografi dello spettacolo dal vivo.
Maggio (data da definire): Per fare teatro serve andare a scuola?
(*) Sui Centri Sociali vedi “Il teatro nei centri sociali fra alternativa e nuovo mercato. Milano e Roma a confronto”, di Anna Chiara Altieri e Erika Manni con la collaborazione di Mimma Gallina in Il teatro possibile. Linee organizzative e tendenze del teatro italiano, di Mimma Gallina, Franco Angeli 2005. Il primo capitolo del libro, “L’organizzazione del teatro italiano. Foto di gruppo e album metropolitano”, analizza la trasformazione delle città italiane e del loro teatro fra il 2000 e il 2004.
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