ateatro 120.33
La seduzione della voce
Una intervista con Chiara Guidi in occasione de soggiorno milanese della Stoa
di Davide Pansera
 

Chiara Guidi, fondatrice nel 1981 della Socìetas Raffaello Sanzio con Romeo e Claudia Castellucci, ha curato il ritmo drammatico e la vocalità di quasi tutti gli spettacoli della compagnia. Con Scott Gibbons ha avviato nel 1998 un percorso di composizione sonora e musicale ed è didatta della voce.
Nel suo lavoro la voce diventa la leva di tutto il resto, non è più veicolo di senso, ma ha una forma specifica, perde di importanza il “cosa” si pronuncia a favore del “come”.
Tra i suoi ultimi lavori The Cryonic Chants, con la musica di Scott Gibbons e Madrigale appena narrabile, spettacolo che nasce dall’attività laboratoriale con cui la Guidi sta attraversando l’Italia e che vede una prossima tappa presso la Scuola Paolo Grassi a Milano.


La tua carriera artistica è segnata in profondità dal lavoro sulla voce che, nel corso degli anni, hai sviluppato in diversi modi e contesti. Il laboratorio che terrai alla Scuola Paolo Grassi i primi giorni di aprile 2009 è un’ulteriore tappa di questo percorso. Da dove viene questa esigenza? come si sviluppa? Come si svolgono i tuoi laboratori?

Il laboratorio nasce dalla necessità di incontrare dei toni e dei timbri e capire com’è possibile restituire l’unità dell’attore attraverso la potenza di molte voci. Ogni voce ha un limite e questo limite va individuato attraverso un lavoro di plasticità nei confronti della propria voce; è necessario sentire tutto il peso specifico della voce, come una sorta di plastilina che si può modellare, imprimere, comprimere con tutte le tecniche necessarie. Tutto questo per raggiungere un limite espressivo che solo quella voce può dare, dopodiché vedere come è possibile l’unione di tante voci in una concertazione che ricostruisca l’unità.
Parto dal presupposto che un attore non può fare tutto, non può coprire tutta la gamma vocale e musicale delle voci ma ha bisogno di altre voci per ricomporre l’intero.
Le voci le scelgo in base a un andamento di seduzione, non mi rivolgo alle capacità, alle abilità nel momento in cui scelgo le persone che partecipano al laboratorio. Mi rivolgo ad alcune voci perché mi seducono, perché hanno una gamma sonora che in qualche modo mi afferra e mi permette di fermarmi, di registrarle e di entrare dentro di esse perché già contengono l’idea di narrazione che sospende il testo ma che solo la loro voce può manifestare. Il laboratorio è un lavoro di scarto attraverso i toni e i timbri che mi hanno sedotta e che mi hanno fatto percepire qualcosa che però non è dato e inseguo questa forma che non si è fatta vedere. E’ un grande lavoro di pratica e di esercizio, di proposizioni lanciate al mattino e poi seguite attraverso gli esercizi nel corso della giornata.
Parallelamente faccio entrare questi giovani nel vivo di un lavoro pratico che stiamo facendo: dare voce ad un’animazione con la quale sto cercando di sospendere un’idea di narrazione cioè di una voce che si appoggia su un testo narrante, di modo che la voce possa essere essa stessa narrazione. Rilancio alle persone che incontro il desiderio di andare in quel posto in cui la voce ha preceduto la formulazione della parola. E’ un tentativo assurdo, è come andare ad una filologia dell’azione prima ancora che diventasse parola.
Non faccio un laboratorio perché ho qualcosa da insegnare ma perché faccio entrare dentro ad un processo artistico in atto delle persone che vado a cogliere in un momento particolare della loro esistenza, la mia preoccupazione è quella di farle entrare nel nervo scoperto di una ricerca.

Quali sono i punti di approdo che hanno costellato questo tuo percorso sulla voce?

Il fatto che io abbia sempre avuto attenzione all’uso della voce è estremamente legato a un’idea di drammaturgia. Fare un lavoro sulla materia della voce comporta un processo di montaggio. Lo studio filologico dei testi che abbiamo trattato è sempre stato fatto con una perizia tale per cui tutto doveva essere conosciuto e assorbito ma subito dopo dimenticato perché la voce non deve portare dentro il peso delle parole. A un tratto lo studio che si è fatto deve sospendersi. La voce è linguaggio di per se stessa. Se pensiamo all’infanzia, è una nostra caratteristica quella di aver anche fatto lavori sull’infanzia, è in realtà uno specchio che si collega moltissimo alla voce. Infanzia significa, etimologicamente, prima del linguaggio. La voce ci porta in uno spazio che ancor prima della parola può commuovere o innervosire, basti pensare a quando una persona è malata e lo avvertiamo già dal timbro e dal tono della voce. C’è una sorta di linguaggio che la voce può portare a prescindere dalle parole, alla luce di ciò come governare il suono della voce? come montarlo? come articolarlo? L’ultima mia ricerca mi porta a dire che la figura dell’attore è possibile ricomporla attraverso dieci voci; all’origine quando abbiamo toccato il problema della parola ci siamo posti il problema della retorica perché è l’arte del dire, una tecnica che ti permette di ottenere dall’uditore un risultato al di la delle parole che dici. L’uditore si ritrova a fare delle affermazioni che tu vuoi che lui faccia ma che lui pensa di aver fatto da solo, perché tu hai dato una musica all’interno della tua voce tale che lui si trova a pensare delle cose e sostiene che quelle cose le abbia pensate da solo. Questa è anche la grande possibilità della musica. Quando ascoltiamo un montaggio musicale fatto di note, di punti minimi, io posso vedere attraverso l’ascolto, e così è per la voce: io posso vedere a prescindere dalle parole, così come faceva Carmelo Bene nella sua linea di teatro. Spettacoli fondamentali per la Raffaello Sanzio sono stati, in questo senso, Giulio Cesare e anche Buchettino; non ultimo, gli episodi della Tragedia Engdogonidia che sono partiti da un laboratorio sulla voce e sulla luce, materie impalpabili ma che attraverso la conoscenza profonda della tecnica ti permettono di manifestare un’onda emotiva ancor prima di capire di cosa si sta parlando, ed è questa la scommessa: si può commuovere senza far capire, o meglio utilizzando una comprensione che scorre al di sotto del ragionamento, usando una voce che non si pone di fronte all’oggetto per darne una logica comprensione; ma una voce capace di penetrare l’oggetto, di scavarlo e di trovare all’interno di quell’oggetto una narrazione nascosta.
Uno degli esercizi che faccio con i ragazzi solitamente è quello di portarli ad ascoltare i suoni della città e dico loro di scrivere una piccola partitura che hanno ricavato dall’ascolto, dall’osservazione della realtà, una sorta di antica origine del fare arte che era l’imitazione del vero. Nel momento in cui vado a scrivere: “passa la bicicletta in primo piano e dopo cinque battute passa la macchina in secondo piano” e cerco di immaginarmi questa situazione mi accordo che proprio dai rumori della vita quotidiana già emerge un dramma, un’azione, il pathos. Il problema sta nel creare, con la possibilità della tecnica teatrale che è l’arte della vita perché coincide con il tempo reale, un andamento emotivo che ti permette di dire “ho compiuto un’esperienza e la posso raccontare”. Ma la posso raccontare dopo un po’ di giorni perché prima devo raccogliere quella brace che brucia al di sotto di una cenere che è quello che resta dopo un’esperienza molto forte.

Stai affrontando la sfida della direzione artistica del Festival di Santarcangelo. Cosa sarà questo festival?

E’ un festival che ho intrecciato con un’idea di drammaturgia musicale, è possibile vedere attraverso il suono, è possibile ritornare ad un teatro delle origini, è possibile ritornare ad un’idea di voce che era il cuore nevralgico del teatro delle origini, dove però il problema non era il testo in se ma la partitura del testo, la ritmica che sezionava, tagliava, come una macelleria. E non è un caso che sia la macelleria il modo per conoscere la bestia e sapere quali parti di quella bestia si possono mangiare. Una metrica come conoscenza del testo, la musica sulle parole come conoscenza delle parole che si vanno a pronunciare non per ribadirle con un andamento psicologico che fa una cattiva retorica, esprime il concetto due volte, ha un aspetto consolatorio nei confronti di chi ascolta che dice “vi spiego tutto, state tranquilli, facciamo qualcosa che sia comprensibile” non è questo il mio modo di rapportarmi adesso al teatro. Il mio modo è quello di vedere se è possibile, attraverso una partitura metrica-musicale, un andamento emotivo, un’idea di montaggio, con un’idea di teatro spogliato dall’apparato scenico, andare li dove esce la voce, nella bocca dell’attore e vedere se la sua voce ha questa forza emotiva, propria della musica, capace di coinvolgermi in un solco che si rivolge più all’origine che allo scopo finale che devo ottenere. Quindi un’idea di teatro come fondamento, qualcosa che mi seduce e mi ferma in quel punto e la preoccupazione è stare dentro quel punto che mi ha sedotto, non tanto sapere dove andrò e seguire un’idea di trama che ha un inizio e una fine ma un’idea musicale di festival che avrà una costruzione drammaturgica. Quindi le presenze all’interno si richiamano e le figure scelte non sono tanto degli elementi all’interno di un contenitore in base ad un tema, ma sono presenze che creano il festival nel loro punto di contatto proprio come un montaggio musicale. Perché al creazione musicale nasce tra le note, scelgo una nota, ne scelgo un’altra, e il problema è la connessione tra le due note, cosa ci sta nel mezzo. E’ un festival d’invenzione che i gruppi stessi accolgono nel momento in cui decidono di stare dentro a questa grande partitura drammaturgica che spero possa essere questa idea di festival.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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