ateatro 120.32
Un teatro civile per un paese incivile? Una riflessione
In vista dell'incontro di Tavazzano
di Oliviero Ponte di Pino
 

«Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.»

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari



Lo sappiamo benissimo, qualunque spettacolo è teatro civile. Tuttavia a recuperare l’etichetta e a rivendicarla, alla metà degli anni Novanta, è stato Marco Paolini, che all’epoca stava mettendo a punto il suo Racconto del Vajont.
E’ utile delimitare il contesto in cui è stato rilanciato il concetto. In primo luogo, quando ne parla, Paolini tiene a precisare che il teatro civile è “anfibio, nasce e respira fuori dall’edificio teatral e”: risponde dunque al bisogno di superare i modi produttivi e distributivi – ma anche le censure implicite – del sistema teatrale: il quale non viene rinnegato, ma integrato ad altre possibilità e modalità di comunicazione e circuitazione. Perché il teatro civile si può fare anche dentro i teatri, ma nasce e si fa soprattutto fuori dai teatri, è un work in progress che cresce e si affina grazie al confronto diretto con il pubblico. E’ in qualche modo controinformazione, che cerca di diradare le nebbie dell’oblio e della manipolazione. Si pone come gesto militante, che trova il suo senso più autentico nel vivo del tessuto sociale, dove se ne sente la necessità e l’urgenza, là dove il conflitto – esplicito o latente – deve trovare espressione e linguaggio.
In quel momento storico, pochi anni dopo la caduta del Muro, il “teatro civile” si differenzia dal “teatro politico” che andava per la maggiore negli anni Settanta e che sta vivendo una crisi i rreversibile, così come appaiono in crisi i tradizionali modelli di mobilitazione collettiva. Il teatro politico appare superato per la sua impostazione ideologica e sospettato di essere veicolo di propaganda e indottrinamento, attraverso la trasmissione di una interpretazione del mondo ideologicamente predeterminata, rigida. A essere diversa è la posizione di chi agisce sulla scena: il regista e gli attori di uno spettacolo “politico” si considerano un’avanguardia, perché possiedono una verità che devono presentare al pubblico nella maniera più convincente. Chi fa teatro civile vuole invece porsi allo stesso livello degli spettatori: la sua ricerca della verità è, come lo spettacolo, un work in progress, un percorso sempre in divenire.
Come Pasolini, anche l’artefice del teatro civile può dire di sé: “Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta”: infatti non è uno specia lista, un tecnico o un esperto (nel caso del Vajont, né Paolini né Vacis sono ingegneri o geologi), ma è “uno di noi”, un cittadino comune che si è appassionato a un problema o a un episodio storico, che si è informato e che vuole condividere con il pubblico il proprio sapere, accumulato con pazienza e trasformato in “storia”, in racconto-spettacolo.
Il racconto del Vajont nasce all’interno di quello che sta diventando un genere di successo - il teatro di narrazione - che si è definito proprio in quegli anni grazie al lavoro di Marco Paolini e Marco Baliani. “Teatro di narrazione” (una definizione che evidenzia una caratteristica in primo luogo formale) e “teatro civile” (una definizione che invece riguarda i contenuti e un certo rapporto con il pubblico) non possono essere sinonimi: tuttavia la loro genesi è strettamente intrecciata, tanto da rendere inevitabile nella percezione comune una sovrapposizione almeno parziale tra i due generi.
Anche perché i due spettacoli che hanno definito il teatro di narrazione alle sue origini anticipano alcune caratteristiche che qualificheranno il teatro civile, pur non essendo certo esempi tipici del genere. Il protagonista di Kohlhaas lotta tutta la vita per ristabilire la “verità” e dunque la giustizia (invano, peraltro): è l’atteggiamento che sottende molto teatro civile, quando sviscera le pagine più oscure della nostra storia recente, alla ricerca di verità e giustizia. Gli Album che Marco Paolini dedica all’infanzia sono costruiti sul nesso tra memoria individuale e memoria collettiva, tra esperienza personale e Storia: è l’equilibrio che cerca di ricostruire il teatro civile, riattivando la consapevolezza individuale per poter condividere un sentimento collettivo – e appunto civile.
Visto lo stretto legame tra teatro civile e narrazione, vale forse la pena di approfondire le ragioni che hanno portato a reinventare e riattualizzare una forma di comunicazione e di espressione originaria e archetipica come quella del racconto orale (una forma, lo si scoprirà quasi subito, che si adatta alla perfezione alla comunicazione televisiva).
In un teatro dominato dalla regia e dall’immagine (ovvero da un uso dell’attore nel primo caso funzionale a una progettualità esterna; e nel secondo da un utilizzo formalistico e iconico del corpo dell’attore), alcuni giovani autori-attori sentono la necessità di riscattare la parola e la stessa figura dell’attore – l’elemento centrale e indispensabile, insieme allo spettatore, dell’evento teatrale. Si avverte anche l’esigenza di ristabilire un rapporto diretto con il pubblico, al di là di ogni filtro intellettualistico, recuperando una forma di comunicazione immediata come quella del racconto (e che, lo si scoprirà quasi subito, si adatta alla perfezione anche alla comunicazione televisiva).
Per i loro esperimenti, i primi narratori non scrivono testi originali, ma si limitano ad appropriarsi di ready made come il celebre racconto di Kleist per Baliani o le storie del Petit Nicholas di René Goscinny per Adriatico di Paolini; poi, quando i meccanismi comunicativi e performativi saranno rodati, si porrà il problema dei contenuti. A quel punto il teatro di narrazione diventa anche “civile”: nascono Il racconto del Vajont e Corpo di stato. Fondamentale è il recupero della lezione di un maestro come Dario Fo, con i suoi spettacoli militanti (per l’aspetto civile) e con il monologo Mistero buffo (per la forma e il lavoro dell’attore); peraltro anche Fo, come molti narratori, fissa il testo dello spettacolo alla fine del processo creativo, quando è già stato rodato e “aggiustato” dal confronto con il pubblico.
Nel giro di pochi anni si affermano numerosi spettacoli di forte impatto che lanciano nuove generazioni di artisti: Radio Clandestina di Ascanio Celestini sulla strage delle Fosse Ardeatine, I-TIGI Racconto per Ustica di Marco Paolini sul l’abbattimento dell’aereo Itavia, i due lavori di Laura Curino sulle utopie di Camillo e Adriano Olivetti, Mai morti di Renato Sarti con Bebo Storti sui massacri coloniali degli italiani in Etiopia, i bombardamenti della seconda guerra mondiale rivissuti attraverso gli occhi di un bambino a Roma (ancora Ascanio Celestini con Scemo di guerra) e a Palermo (Davide Enia con Maggio ‘43). Poi Reportage Cernobyl di Roberta Biagiarelli sull’incidente nucleare nella centrale ucraina; Daniele Biacchessi sulle morti di Roberto Franceschi, Fausto e Iaio, Peppino Impastato e Luigi Tenco; Ulderico Pesce sulla malagestione dei rifiuti radioattivi (Storie di scorie) e sulle lotte degli operai della Fiat di Melfi (FIATo sul collo); e ancora La strage di Peteano, una fiaba friulana del Teatrino del Rifo; Giulio Cavalli con Linate 8 ottobre 2001: la strage e Do ut des: riti e conviti mafiosi; Mario Gelardi con Gomorra (prima del film di Garrone), Mario Perrotta con i lavori sull’epopea dell ’emigrazione italiana in Belgio (Italiani cìncali e La turnata). Non mancano gli approfondimenti su tematiche economiche, prima e dopo il grande crac: I miserabili di Paolini ma anche Previsioni meteo di Eugenio de' Giorgi sul caso della Banca Antonveneta, senza dimenticare Gente come uno di Elena Lolli con Manuel Ferreira sul crac argentino...
E’ un elenco gravemente lacunoso (già mi scuso con gli assenti, ma il lavoro del centro dovrebbe appunto rimediare le dimenticanze, con l’aiuto prima di tutto degli interessati). Ma fa già intuire l’esplosione di un fenomeno che coinvolge tanti artisti e spettatori. Certo, è meno costoso produrre e far girare un monologo che un “vero” spettacolo; e per di più gli assoli sono molto flessibili e si possono replicare ovunque: nelle piazze e nei circoli politici e culturali, negli appartamenti e negli stadi, nei palazzetti dello sport e nelle stazioni ferroviarie, nelle fabbriche dismesse e nelle fabbriche occupate (ancora una volta, Fo docet). Ma c’è qualcosa di più, a sostenere questo boom, nell’economia della miseria teatrale. Questi spettacoli “poveri” ed essenziali incontrano l’interesse del pubblico e dei media, perché riflettono un bisogno profondo e diffuso di narrazione, di storie e di Storia, di verità, di identità.
Nel moltiplicarsi delle proposte, si differenziano ben presto sottogeneri e contaminazioni.
Per quanto riguarda i sottogeneri, si sono visti spettacoli:
- ispirati a un evento preciso; il modello (o l’archetipo) è la controinformazione dei giornalisti democratici dopo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969;
- che raccontano un momento o un periodo storico (un anno, un decennio); con particolare attenzione agli entusiasmi ribellistici (il brigantaggio, il ’68) e alla Seconda guerra mondiale (utilizzata più come serbatoio di esperienze e vicende umane significative e avventurose, ma attingendo assai men o all’epopea resistenziale, ormai usurata);
- biografici;
- autobiografici (o meglio, monologhi che attraverso l’autobiografia del protagonista-narratore affrontano tematiche civili);
- centrati su un problema o una tematica; possono rientrare in questa categoria gli spettacoli sul tema del lavoro: gli Appunti per un film sulla lotta di classe di Celestini, Fabricas di Ferreira-Lolli, l’indagine di Pesce sulla Fiat, ma anche Braccianti di Armamaxa; un altro sottofilone potrebbe essere dedicato a tematiche “di genere”: Dissonorata di Saverio La Ruina, Racconti di giugno di Pippo Delbono, Nata in casa di Giuliana Musso, e forse anche la controinchiesta Virus di Garabombo Teatro sull’Aids; e magari le Lezioni di sesso per casalinghe inquiete e assicuratori frustrati di Vladmir Luxuria. Certi spettacoli potrebbero ricadere in più di una categoria: per esempio, quella dedicata al lavoro interseca senz’altro quella che affronta le varie sfaccettature della questione meridionale, dal brigantaggio post-unitario (Briganti di Gianfranco Berardi o Il sole del brigante di Alfonso Santagata) all’emigrazione, fino alla dilagante criminalità organizzata (al proposito vedi anche l’interessante progetto sui “teatri della legalità” diretto da Mario Gelardi per I Teatrini di Napoli). Molti di questi temi riecheggiano le denunce della letteratura e del cinema “impegnati” degli anni Sessanta e Settanta (basti pensare alla filmografia di Francesco Rosi); e al tempo stesso paiono rispondere agli appelli “alla Fofi”, quando si invoca un’arte non ombelicale, in presa diretta con la realtà e i suoi conflitti (anche se poi è stato proprio Goffredo Fofi il primo a mettere in guardia dall’alluvione dei narratori che avrebbe invaso le nostre scene).
A completare questa tassonomia vagamente borgesiana, un’ultima voce: altro. Con l’avvertenza che questa fragile cartografia potrebbe offrire un primo schema per catalogare il genere.
Sul fronte delle contaminazioni, d’abitudine il percorso evolutivo prevede in una prima fase l’arricchimento dello one-man-show con un gruppo musicale di supporto: è anche un trucco per superare i cliché del bravo narratore, che si cristallizzano con rapidità, diventando ben presto stucchevoli. Le ibridazioni tra teatro civile e teatro canzone generano a loro volta un ulteriore sottogenere, cui si potrebbero ascrivere Un po’ dopo il piombo di Giangilberto Monti sulla storia d’amore tra Renato Curcio e Mara Cagol, o Formidabili quegli anni con Giulio Casale, ispirato al libro omonimo di Mario Capanna sul ’68 a Milano. Ma anche il teatrodanza può misurarsi con tematiche civili, vedi il Festino di Emma Dante. Un altro innesto praticato di frequente è quello multimediale, con l’inserimento di spezzoni video e di animazioni in stile power point a sostituire l’antica lavagna come supporto didattico.
Naturalmente - e questa è un’altra possibile linea evol utiva - si può ipotizzare la compresenza sulla scena di più di un interprete: ci sono spettacoli di teatro civile che utilizzano, restando peraltro ancorati alla narrazione, cast più ampi, come il trittico dell’ATIR dedicato al ’68 (ancora...), al Che e al 1989.
Tuttavia, in questo proliferare di proposte e contaminazioni, le caratteristiche principali del genere si sono stabilizzate molto presto. Un primo aspetto significativo (e problematico) riguarda la figura, il punto di vista e l’autorevolezza degli interpreti. Si è già accennato al fatto che gli artefici del genere non si pongono come esperti, ma come persone normali che però si sono fatte carico di una funzione informativa e formativa. Non interpretano dunque un personaggio, ma salgono in scena in quanto individui, come cittadini che hanno a cuore l’ethos collettivo: la loro legittimazione, la loro credibilità si fondano proprio su questo “metterci la faccia” e sulla relazione che riescono a instaurare sul pubblico, che misura la loro “verità”, operando un cortocircuito tra la sincerità di chi parla e la verità di ciò che dice. Per esempio, se l’attore che interpreta il barbone Didi in Aspettando Godot passa il suo tempo libero a gironzolare con un motoscafo da 400 cavalli tra Portofino e Porto Cervo, non c’è nessun problema: la distinzione tra attore e personaggio è chiara; se invece si scopre che l’autore-interprete di un monologo “civile” sull’inquinamento e sul rispetto dell’ambiente pratica lo stesso hobby “ecologicamente scorretto”, perde all’instante la sua credibilità. A un regista come Luca Ronconi (che sulle infinite ambiguità del rapporto tra attore e personaggio lavora da sempre), la sovrapposizione tra l’io e la maschera appare truffaldina, quasi oscena. Nell’allestire spettacoli indubbiamente assai “civili” come Il silenzio dei comunisti (basato sullo scambio epistolare tra Miriam Mafai, Alfredo Reichlin e Vittorio Foa) e Lo specchio del diavolo (da un saggio dell’economista Giorgio Ruffolo), e dunque partendo da testi facilmente adattabili agli stilemi del teatro di narrazione, il regista ha scelto di enfatizzare proprio la dimensione teatrale, enfatizzando la cornice e il gioco della finzione. Per incarnare i tre autori dell’epistolario ha scelto – in maniera provocatoria e straniante – tre interpreti fisicamente e anagraficamente molto lontani dai reali autori delle lettere, a evitare ogni possibile confusione. Teatralizzando in chiave quasi di varietà Lo specchio del diavolo, ha esplorato le infinite potenzialità drammaturgiche di un testo saggistico (in apparenza neutrale e impersonale), inventando luoghi e spazi, portando sulla scena personaggi (storici e fittizi) e maschere, e ha dato tridimensionalità alla scrittura estraendo dialoghi e cori, e popolando la scena di simboli e allegorie.
Sotto vari aspetti, i narratori del teatro civile paiono più vicini alle maschere di certi at tori comici che agli interpreti del cosiddetto “teatro di prosa”. Non a caso gli uni e gli altri condividono l’uso di termini e cadenze dialettali. Ecco il veneto di Paolini, il romanesco di Celestini, il siciliano di Enia, il pugliese di Perrotta.... Questa identificazione “etnica” è parte integrante della “persona scenica” e contribuisce a renderla familiare, autentica e credibile: come accade a molti comici, che del retroterra linguistico fanno un punto di forza. Simmetricamente, le incursioni di comici e cabarettisti nel teatro civile non sono un’eccezione: dal Signor Rossi e la Costituzione di e con Paolo Rossi ai Settanta rivissuti da Walter Leonardi.
Un altro aspetto centrale – e ugualmente problematico – è il rapporto con la storia e la memoria. Al centro di molto teatro civile c’è una pagina di storia recente che è necessario portare – e a volte riportare – alla consapevolezza collettiva: perché è stata dimenticata, perché la verità è stata in qualche modo occultata o distorta. Questo atteggiamento presuppone la conoscibilità della storia di un popolo, di una nazione (o di una classe) da parte del soggetto individuale e collettivo che ne è insieme protagonista e destinatario; e implica il dovere civile di conoscerla.
Nell’ispirazione degli artefici del teatro civile riecheggia anche qualcosa del gesto di Antigone, che non può lasciare i suoi morti insepolti: i cadaveri senza giustizia non possono trovare pace e dunque continuano a turbare le nostre vite.
Il boom del genere fa tuttavia affiorare un sospetto: forse chi avrebbe avuto il compito di farci conoscere e condividere la nostra Storia (gli storici, la scuola, i mass media) non ha fatto bene il suo lavoro. Peraltro è diffusa la convinzione che la recente storia italiana sia alla fine inconoscibile, punteggiata com’è di omissis, buchi neri, misteri, trame, sette segrete e poteri occulti. Basta curiosare in qualunque libreria per averne la conferma: gli scaffali traboccano di libri su quello che non sappiamo, ma pochi si preoccupano di mettere in ordine quello che sappiamo e dobbiamo sapere per orientarci in questo convulso presente. Il rischio è ovviamente quello di cedere alla tentazione paranoide del “complottismo” o a quella urlata dello scandalismo, rinunciando a una ricostruzione scientifica e a una interpretazione razionale dei processi storici.
In questi anni il teatro civile ha provato a sciogliere alcuni di questi misteri, a far riemergere il rimosso. Spettacolo dopo spettacolo, ha così iniziato a scriversi una Storia – o forse una controStoria – dell’Italia contemporanea. Che ci fosse questa potenzialità se n’era accorto molto presto Carlo Freccero, all’epoca direttore di RaiDue, quando alla fine degli anni Novanta iniziò a inserire in palinsesto alcuni esempi di teatro civile, a partire dal clamoroso successo del Vajont.
Anche se non risponde ai requisiti della ricerca accademi ca (e magari proprio per questo), l’idea della storia patria che emerge dal teatro civile è certamente rivelatrice: sintomatica almeno dell’atteggiamento di autori e pubblico, e forse anche di qualche carattere nazionale, vero o presunto.
Per cominciare a orientarsi in questa “controstoria narrativa”, potrebbe essere opportuno (e questa è un’altra chiave di catalogazione) mettere in parallelo una cronologia della recente storia italiana con la sequenza degli eventi che hanno ispirato i nostri narratori, per vedere su quali momenti e fasi s’addensa il loro interesse. Questa “storia d’Italia civile e teatrale” non segue un percorso organico: rispecchia le curiosità e le necessità dei suoi artefici, e dunque si ricompone per frammenti, zoomate, approfondimenti. Per lo più è fatta – su un costante sottofondo di soprusi e menzogne, o assordanti silenzi – di eventi tragici, a cominciare dalle stragi che hanno segnato l’immaginario collettivo, dagli agg uati e dagli amazzamenti vigliacchi (una costante della storia e del melodramma italici). Spesso sono eventi difficili da interpretare a causa di interessi economici, politici, militari, malavitosi (singolarmente o intrecciati tra loro – magari in un qualche complotto...).
S’è già ribadita la funzione di supplenza svolta dal teatro civile. Certo, se la scuola, l’informazione, la storiografia e la politica avessero fatto il loro dovere, se nel nostro paese esistessero luoghi e momenti della memoria condivisi, sarebbero meno avvertite la necessità e l’urgenza di spettacoli-lezione sul nostro passato prossimo.
Peraltro la convergenza tra il giornalismo d’inchiesta e la drammaturgia civile è già in atto: basti pensare al percorso di Daniele Biacchessi, che dal giornalismo è approdato alla scena; ai prologhi commissionati a Marco Paolini da Report, come prologo alle inchieste-denuncia della redazione guidata da Milena Gabanelli; e soprattutto a Promemoria di Marco Travaglio, efficacissimo esempio, insieme, di giornalismo d’inchiesta, satira politica e teatro civile. Affrontando di petto il problema, anche il filone del teatro-giornale (Gigi Gherzi) e in generale del “teatro informazione” si muove lungo questa lunghezza d’onda. Al proposito, si può aggiungere che uno degli obiettivi di un centro di documentazione sul teatro civile, al di là della creazione di un archivio sugli spettacoli con annessa catalogazione, dovrebbe consistere proprio nel mettere in contatto chi ha storie interessanti da far conoscere (i giornalisti d’inchiesta) e chi invece cerca storie interessanti da raccontare (i teatranti).
Ma la Storia (quella con la S maiuscola) non la scrivono i giornalisti con le loro inchieste, e nemmeno i giudici con le sentenze. Ancor meno la possono scrivere i guitti con le loro esibizioni. Tuttavia resiste il bisogno delle loro trovate, della loro capacità di raccontarci a noi stessi. C’è, in primo luogo, la natura “civile” del teatro, di tutto il teatro: perché quella pagina di storia viene rivissuta di fronte a una collettività e offerta a una riflessione che coinvolge almeno potenzialmente l’intera polis (o tutto il popolo). Il rito laico della rappresentazione diventa un momento di ricostruzione dell’identità e dell’emozione collettiva (anche questo era la catarsi) e lo spazio teatrale si trasforma così in luogo della memoria.
Ma per svolgere davvero questa funzione, forse il “teatro civile” dovrebbe porsi con maggiore urgenza la questione della propria specificità e della propria poetica. Quasi tutti gli spettacoli che abbiamo citato usano la forma del racconto. Sono dunque prosa: buone intenzioni, attenta ricostruzione dei fatti, ostinata ricerca della verità, inevitabile indignazione... Forse quello che manca a molto teatro civile – e che alla lunga lo inaridisce in una formula – è la mancanza di poesia, di visionarietà. Basta ripensare ad alcuni spettacol i davvero civili di questi ultimi anni, alla loro capacità di trascendere i fatti per aprirsi a una prospettiva poetica, storica, filosofica. Alcuni esempi molti diversi tra loro, presi quasi a caso: Novecento e Mille di Leo De Berardinis, Dorothy di Fanny & Alexander, La menzogna di Pippo Delbono.
Un’ultima annotazione: la maggioranza degli spettacoli di ispirazione civile è animata da una tensione militante. Perché non basta informarsi, ricordare, commuoversi, condividere, indignarsi. Dopo tutto questo sommovimento interiore, resi finalmente consapevoli, bisognerebbe poi in qualche modo mobilitarsi, testimoniare, agire nella realtà politica e sociale per trasformarla. Per chi li fa e per chi lui applaude, questi spettacoli non dovrebbero essere solo l’occasione per mettersi a posto la coscienza di cittadini esemplari e politicamente corretti. Invece, come molte irresistibili denunce dei satirici, come molte documentate inchieste giornalistiche, come molte esemplari con danne passate in giudicato dopo rigorose indagini giudiziarie, questa faticosa ricerca della verità sembra poi avere scarsissimi effetti pratici, o pare addirittura controproducente. Resta inefficace rispetto all’obiettivo immediato – raddrizzare quello scandalo, denunciare quel “malamente”. Resta inefficace anche su un orizzonte più ampio, quello della creazione di una coscienza civile più matura. Anche su questo vale la pena di meditare.


 
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