ateatro 120.12 La vocazione suicida della cultura italiana Rispondendo alla proposta di Baricco di azzerare i fondi statali per il teatro di Andrea Balzola
Condivido la risposta di Franco D’Ippolito già pubblicata su ateatro e quella di Scalfari su "Repubblica", non ribadirò dunque i loro argomenti, che sottoscrivo, ma vorrei aggiungerne alcuni altri. Sulle stesse pagine di “Repubblica” che ospitavano l’articolone di Baricco erano pubblicati alcuni dati che parlavano da soli: l’Italia spende lo 0,16 % del Prodotto Interno Lordo per la cultura, a fronte del già scandaloso 1,34% della media europea (ma se si vanno a vedere le percentuali di Germania, Spagna, Francia, Inghilterra, Scandinavia, i dati si alzano parecchio). Una cifra che già si avvicina allo zero, un dato di cui vergognarsi profondamente e sul quale aprire una vertenza politica – da noi ci vorrebbe anche un forte sindacato della cultura - soprattutto per un paese che ha il patrimonio artistico più cospicuo del mondo e che deve moltissimo alla sua tradizione culturale, non solo in termini di prestigio e di identità nazionale ma in termini economici, attraverso il turismo ma anche attraverso il mercato. Vogliamo scendere ancora in questo penoso record negativo?
Un paese come il nostro che non è più capace di produrre cultura non solo vede emigrare tutti i propri talenti artistici e intellettuali (sarà utile forse ricordare che già adesso molte compagnie del migliore teatro di ricerca italiano sopravvivono grazie a produzioni od ospitalità straniere), ma impoverisce progressivamente il proprio patrimonio, corrode l’eredità da lasciare alle generazioni future. Strano davvero che uno degli esponenti più noti della cultura italiana, per di più di sinistra, non solo si rassegni ma addirittura assecondi questo trend negativo degli investimenti e di fatto, pur con intenzioni opposte, dia una sponda alla politica anticulturale del governo. Certo, lo fa con finalità “illuministiche” e motivazioni apparentemente razionali – poiché i soldi non ci sono, togliamoli al calderone deficitario del teatro e investiamoli nella formazione culturale che possono fornire la scuola e la televisione in modo più efficace e più diffuso del teatro e affidiamo le sorti del teatro al mercato che opererà su di esso una selezione darwiniana – ma poiché negli obbiettivi di questo governo la scuola pubblica è da ridurre ai minimi termini a vantaggio di quella privata, e poiché la televisione dipende sempre più dai poteri dominanti, con una preponderanza delle televisioni commerciali e con una perdita progressiva e inesorabile della funzione pubblica e conseguente restrizione quanto mai evidente degli spazi di programmazione culturale (non parliamo poi del teatro), poiché, infine, il mercato – nei tempi delle vacche magre – seleziona in modo feroce i prodotti di più vasto e sicuro consumo, la proposta di Baricco risulta, nell’attuale realtà italiana, quanto meno ingenua, se non deliberatamente suicida. Uno spirito suicida e masochista che evidentemente sta da tempo contagiando come un virus la sinistra italiana e da cui non si riesce ad uscire, come se diventando più realisti del re, più pro mercato dei mercanti, più moderati dei moderati e più ragionevoli della ragione si potesse ritrovare il consenso perduto. Come dice un commentatore americano delle recenti vicende italiane: “Noi proprio non riusciamo a capirvi, avete un premier al centro di scandali, processi, conflitti d’interesse e istituzionali e invece di dimettersi lui si dimette il capo dell’opposizione?” Il paradosso farebbe ridere, se non ci fosse da piangere ogni giorno per le sue conseguenze. La risposta indiretta è venuta dallo stesso premier compiaciuto: “Ho fatto fuori otto leader della sinistra, ora sono pronto a far fuori il nono”. L’attuale governo non può che plaudire a proposte come quelle di Baricco (che non a caso ha avuto molta risonanza sui notiziari gestiti dal centro-destra), perché si prestano alle strumentalizzazioni dei liberisti (ora diventati no-global) che governano la nostra economia. Lasciare il sostegno del teatro ai privati significa far perdere allo Stato la funzione, sia pure corruttibile e imperfetta, di garante di un minimo contributo che consente la sopravvivenza di molte onorevolissime compagnie. Parliamo piuttosto di trasparenza dei bilanci delle grandi istituzioni teatrali, parliamo di apparati amministrativi che erodono fondi alle produzioni, parliamo di una redistribuzione più attenta ed equanime dei fondi per il teatro, a vantaggio della qualità e dell’innovazione e non solo delle glorie passate, parliamo di un maggior sostegno necessario al teatro e alla cultura in una fase recessiva dove i privati riducono o annullano i loro investimenti nei settori a rischio. Il dibattito e la vertenza che oggi dovremmo aprire dovrebbe quindi andare nella direzione opposta a quella proposta da Baricco, se da una parte è giusta l’idea di agevolare i privati per indurli a investire nella cultura, nello stesso tempo lo Stato (e anche gli enti pubblici locali) non può tirarsi indietro nella sua funzione di arbitro delle risorse. Ed è questa una funzione che dobbiamo difendere dalla corruzione, dai nepotismi e dagli sprechi, ma non certo cancellare.
>
|
© copyright ateatro 2001, 2010
|
Se cerchi (e se vuoi comprare) su ibs un libro o un autore di cui si parla in questa pagina
|
|
|
|