ateatro 119.4 L'ottimismo di un pessimista nato Un intervento per BP05 di Renato Palazzi
E’ strano che proprio io, pessimista nato, da un po’ di tempo a questa parte sia chiamato a produrmi in spericolati esercizi di ottimismo teatrale. Non ci sono molte alternative: o sto andando completamente fuori strada, o vedo le cose da una prospettiva che forse agli altri sfugge. Ma in fondo non è questo l’importante. L’importante, credo, è rendersi conto che ci troviamo all’interno di una situazione in veloce movimento, e non sottovalutarne i segnali.
Sento, ad esempio, lamentazioni sempre più insistenti sui tagli ai finanziamenti, sulle carenze strutturali, sulla mancanza di mezzi e prospettive: ovviamente è tutto vero, e non da oggi. Ma non mi pare che la vita del teatro nel suo complesso ne risenta gravemente. Non c’è bisogno di citare Kantor o Grotowski per ricordare che le difficoltà materiali non incidono sulla qualità dell’invenzione, anzi spesso la favoriscono.
Mi sembra chiaro che i linguaggi della scena si stanno trasformando per far fronte alle mutate condizioni: sempre più spesso si tende a rinunciare all’apparato, a privarsi del superfluo, a sfrondare, a semplificare, a cercare una comunicazione più diretta e immediata. E’ ovvio che oggi sarebbe impensabile produrre certi spettacoli che si vedevano ai tempi di Visconti: ma non è detto che questo sia necessariamente uno svantaggio. In molti casi, la scelta di uno stile più spoglio ed essenziale è compensata da una maggiore apertura all’incrocio fra le discipline, la recitazione, la danza, le arti visive, da un contatto più stretto con la realtà, da un più urgente bisogno di auto-rappresentazione.
Sento dire che, tolti un paio di maestri, non si trovano più le grandi personalità dell’epoca d’oro della regia italiana, gli Strehler, gli Squarzina, i Trionfo: è vero anche questo, ma ai pochi talenti di spicco si è innegabilmente sostituita una vitalità diffusa. Oggi non abbiamo più quei cinque o sei artisti carismatici che incantavano le platee (quando le incantavano), ma al loro posto si sono accesi cento piccoli fuochi: il problema è soltanto di verificare se ci sono le condizioni perché essi possano confermarsi e durare nel tempo.
Si è attuato, a mio avviso - e di sicuro non è un fatto trascurabile - un significativo processo di democratizzazione dell’accesso al palcoscenico. In passato il monopolio degli strumenti del teatro era saldamente in mano a pochi grandi nomi cresciuti all’interno delle istituzioni: ora le correnti più forti, più innovative vengono da fuori e dal basso, da gruppi nati per impulso spontaneo, del tutto estranei a qualunque idea di formazione tradizionale, attenti solo ad affermare i propri contenuti
Grazie anche ai benefici effetti del Premio Scenario e di altre iniziative ad hoc, assistiamo a un indiscutibile rinnovamento generazionale: oggi i gruppi di punta sono composti da attori e registi poco più che esordienti, che fino a qualche anno fa sarebbero stati condannati alla marginalità e alla ghettizzazione: si può dire, mi sembra, che anche le realtà meno affermate stiano uscendo rapidamente dal circuito ristretto dei festival e delle occasioni “protette”, per conquistare spazi sempre più ampi nella normale programmazione dei teatri.
Parallelamente sta avvenendo un vistoso spostamento degli equilibri artistici dal centro alla periferia, dalle grandi sale metropolitane alle piccole ribalte recuperate e restituite all’uso da comuni con poche migliaia di abitanti. Se le istanze di ricerca più audaci e incisive non vengono ormai da Roma o da Milano, ma da Ravenna, da Cesena, da Forlì, da Messina, da Castiglioncello, da Castrovillari, anche il pubblico più attento e ricettivo lo si incontra oggi a Casalmaggiore, a Fiorenzuola, a Mira, a Schio, insomma in quella che una volta si sarebbe definita la provincia. E per molte realtà della scena contemporanea questo moltiplicarsi di esperienze sul territorio costituisce un indispensabile sbocco, un vero e proprio circuito alternativo.
Infine - ma non da ultimo - vorrei ricordare agli scettici la prepotente ricomparsa della figura dell’autore: in questi ultimi anni, non a caso, è avvenuta sotto i nostri occhi un’autentica fioritura di nuovi drammaturghi, da Letizia Russo a Fausto Paravidino, da Mimmo Borrelli a Sergio Pierattini, da Stefano Massini a Saverio La Ruina, che spesso si sono imposti prima dei trent’anni. E questo ritorno dei giovani alla scrittura non si esaurisce, come per tanti autori anche illustri delle generazioni precedenti, in uno sterile esercizio di frustrante solipsismo: bene o male, i loro copioni vengono puntualmente e adeguatamente rappresentati, gli spettacoli che se ne traggono girano, sono apprezzati, ottengono premi e riconoscimenti.
A mio parere, in conclusione, tutti questi elementi – la penuria di fondi, l’esigenza di operare in uno stato di precarietà, la necessità di rivolgersi a forme di teatro più scarne ed essenziali, l’impetuoso affacciarsi di nuove formazioni, portatrici di un’espressività più frammentata e informale, il loro approdo naturale a spazi più raccolti e appartati, dove si instaura un contatto ravvicinato col pubblico – si intrecciano indissolubilmente, tutti in vario modo concorrono a spostare i confini della creazione teatrale. Non so se daranno luogo a esperienze durature: certo ci consentono di scoprire ogni giorno fenomeni inattesi, che fino a qualche anno fa non ci saremmo neppure sognati. E questo, francamente, non è poco.
12 dicembre 2008
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