ateatro 118.2 Ancora sulla fine del (nuovo) teatro italiano Uno scambio di mail di Gianandrea Piccioli e Oliviero Ponte di Pino
Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: La fine del (nuovo) teatro italiano
Inviato: 25 agosto 2008
R.N.D., 25.VIII.08
Caro Oliviero,
ho letto il tuo pezzone (bello, ma formalmente scritto troppo in fretta, a mio parere). Ottimo nella sintesi storica, esprime uno sconfortato stato di impotenza sul che fare. Uno stato in parte oggettivo (mutamento politico-culturale epocale o comunque non episodico, arroccamento difensivo di chi è arrivato, estraneità a certe “istanze”, come si diceva una volta, da parte del potere politico vincente), in parte anche, mi sembra, soggettivo (che cazzo ci faccio qui col mio sito? che in tanti anni è stato sì meritorio ma dal punto di vista effettuale non è riuscito a incidere sul sistema...).
Sul secondo punto forse pretendi troppo: non è con un sito, per quanto ben fatto e stimolante, che si cambiano le cose. Però il sito ha una funzione, utile e insostituibile, di informazione collegamento e dibattito. Se non ci fosse, saremmo ancora più irrelati gli uni con gli altri. L’ Italia è molto migliore dei suoi politici, sia quelli al potere sia quelli alla soi disante opposizione: il problema è che mancano i relais che facilitino la comunicazione tra le diverse realtà, a volte tra i singoli individui. Un tempo era la politica che organizzava e mediava e metteva in contatto: da anni non è più così, ma avere dei circuiti almeno informativi mi sembra ancora fondamentale.
Sulla situazione oggettiva c’è da disperarsi, figurati, mi ci sono rovinato l’ estate. E non abbiamo ancora toccato il fondo, il peggio sta per arrivare. “Ha da passà a’ nuttata”, come diceva Eduardo. Il guaio è che si ha paura che passiamo prima noi... Però non credo che gli anni precedenti fossero tanto meglio, per il teatro. Il Piccolo di Milano, e con esso tutto il teatro pubblico, ha dovuto lottare per anni prima riuscire ad affermare una poetica e prima di vedersi riconosciuto uno status di cittadinanza, mi ricordo bene le polemiche. E così via, dalle cantine romane a Carmelo Bene, dalle cooperative al teatro di gruppo ecc. ecc. fino a oggi sono sempre state necessarie defatiganti battaglie per conquistarsi spazio e visibilità: nessuno ha mai garantito alcunché, al teatro. Poi i pochi che ce la fanno, e non è detto che siano sempre i migliori, ma in genere sì, si istituzionalizzano, vivono spesso di rendita e si rinserrano nei loro ranch e lo steccato non è un limite per chi sta dentro ma per chi è fuori. Ma le logiche condominiali e corporative sono una conseguenza di un deficit politico prima ancora che di un habitus consortile. Sei sicuro che con la sinistra al potere le cose fossero migliori? Io credo che quello che ci sgomenta oggi, dopo i rischi per l’assetto generale del paese, è la rozzezza subculturale di questi, la sinistra sapeva mascherarsi dietro un più accorto ma illusorio savoir faire; la sostanza, però, non mi sembra poi molto diversa, da parecchi anni a questa parte.
E pensi che la situazione sia molto diversa per la musica? E la censura del mercato in campo editoriale non equivale alla mancanza di circuito per gli spettacoli?
Ovviamente quando la situazione brutta è generale, la diffusione stessa del malessere è un’ aggravante, non una consolazione. Quello che voglio dire è che il vero problema, culturalmente parlando, è un altro. E cioè che la crisi non è solo politica: siamo nel mezzo di un cambiamento di paradigma: quello vecchio reggeva almeno dall’illuminismo, ma la cesura è talmente profonda che prima di manifestarsi chiaramente ha impiegato almeno un secolo, come la famosa luce delle stelle morte. Il nuovo non riusciamo ancora a percepirlo e adesso siamo nel vuoto. E che fai nel vuoto? Cerchi di salvare la dignità personale, continuando a fare ciò che si sa fare e si ritiene opportuno, per sé stessi innanzi tutto, senza illudersi sui risultati concreti. Rinunciando magari a qualche sogno ma non sottovalutando, come mi pare tu faccia, se ho capito bene, il dato che il teatro è in questo momento la cosa più viva e interessante che ci sia in Italia (nell’ ultimo anno anche il cinema). Prima di venire quassù mi son detto che se da un libro mediocre come Gomorra era stato tratto un così bel film e se c’ era in giro uno spettacolo (e soprattutto un testo) come ‘Nzularchia, se cioè dei giovani riuscivano a guardare con tanta lucidità e forza espressiva dentro il cancro del paese, non tutto era perduto.
Scusa il tono da zio. Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Lo so, la disperazione è un peccato mortale
Inviato: 26 agosto 2008
Caro Gianandrea,
intanto grazie della mail.
E ahimé so bene che la disperazione è peccato mortale... E sai anche che in un pezzo del genere non si può dire “tutto-tutto”. Ma quello che cercavo di dire è che non è sempre stato così, che qualcosa è cambiato dopo le ultime elezioni (e quello che significano).
Grosso modo, mi pare una visione del mondo di sinistra (sulla quale era fondato un certo tipo di teatro) sia collassata, e dunque diventa necessario trovare altre legittimazioni sul piano storico, filosofico e culturale.
Anche perché molti dei filoni che avevano nutrito il teatro pubblico e di ricerca mi paiono creativamente pressoché esauriti.
Invece sul piano pratico, la sinistra ha messo in piedi anche in campo culturale una piccola casta fatta di direttori, funzionari, consigli d’amministrazione eccetera (per poi fare, come noti tu, poconiente).
Quelle posizioni di miserabile potere diventano ora difficilmente difendibili, oltre che sul piano delle decenza, anche sul piano dei rapporti di forza politici (con il maggioritario che spazza l’opposizione) e su quello culturale (vedi sopra). Insomma, mi pare sia drasticamente cambiato il quadro di riferimento: prima c’erano principi “di sinistra” a cui appellarsi e una sinistra magari ipocrita che ci ha costruito su una piccola casta.
Ora i vecchi schemi non funzionano più, e servirebbero nuovi strumenti (per non sprofondare nella disperazione). Ma non riesco a trovarli (però so che la mia filosofia non può contenerle tutte)
Un altro punto è: “A chi parliamo?”. Tu dici: “Agli uomini di buona volontà, che ci sono”. E tuttavia, ammesso che ci siano davvero, è ormai difficilissimo raggiungerli (se non uno alla volta, tra amici e amici degli amici):
mi sembrano tutti un po’ impauriti/storditi (anche per le ragioni di cui sopra) in attesa del peggio che avanza
Insomma, fermo restando che abbiamo sempre vissuto tempi grami, mi pare che qualcosa sia davvero cambiato: forse è un bene, perché fa piazza pulita da molti equivoci. Però continuare ad agire (non individualmente, a livello di testimonianza personale) mi sembra in questo momento assai complicato e difficile, con l’unico vantaggio di una totale libertà mentale (da conquistare) all’interno di una realtà sempre più rigida e schematica.
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Ma non è sempre stato così?
Inviato: 27 agosto 2008
R.N.D., 27.VIII.08
Caro Oliviero,
l’altro giorno ho scritto di getto, preoccupato, oggettivamente e amicalmente, di quella che mi sembrava una disperazione anche personale e quindi forse mi sono spiegato male.
E’ proprio sul presupposto del tuo intervento che ho delle perplessità, forse anche perché abbiamo concezioni leggermente diverse, credo per motivi generazionali, su che cos’è stata la “sinistra”. Ma non voglio discutere di questo, che ci porterebbe troppo lontano e che soprattutto non è qui pertinente. Schematizzando, io distinguerei tra ciò che anima ciascuno di noi, ma un artista in particolare, nel profondo delle motivazioni anche inconsce, nel grumo del proprio dolore e nel groviglio dei propri bisogni, all’ azione sia individuale sia di gruppo (e il teatro è il luogo della relazione per eccellenza, al suo interno e con gli “spettatori”). Altra cosa è invece il quadro di riferimento entro cui uno è costretto a muoversi nel mondo per sopravvivere. Ecco, io ho l’impressione che per i teatranti solo quest’ultimo sia stato di sinistra, nel bene (poco e ai bei tempi), e nel male (molto e più recentemente). Quasi tutti gli intellettuali, dall’illuminismo in poi, sono stati “di sinistra”, ma nel senso generico, più anarchico e libertario che ortodosso, di ricerca dell’autonomia, di fiducia un po’ ingenua nel progresso indefinito, di affermazione dei diritti ecc ecc. Col ‘68 e ancor più col ‘77, che in Italia per il teatro è stato forse più importante, si è sviluppata, a mio parere malauguratamente, l’ideologia della soggettività desiderante, e questa sì ha innervato dall’interno molti importanti percorsi del “nuovo teatro” e incrementato il filone della “diversità”. Ma a parte il fatto che non sarei sicuro che si tratti di un’ideologia di sinistra, funzionale com’è alle esigenze dell’attuale fase economica (e anche tu lo accenni, a un certo punto), questo tipo di esperienze non copre tutta la mappa del teatro contemporaneo. Per il resto, non so se possono essere ascritti alla sinistra un Grotowski, a esempio, o un Barba, accusati proprio dai guardiani dell’ ortodossia di misticismo e irrazionalismo (ricordo l’imbarazzo esitante persino di un eretico come Fortini quando lo portai a vedere Come and the day will be ours e certi articoli di Wanda Monaco su “Rinascita”, mi sembra); o Carmelo Bene, snobbato e bollato di decadentismo prima di diventare un idolo... E le riserve sul Living venivano da sinistra... E Testori, col suo materialismo senza mediazioni e riscattato solo dalla redenzione, lo mettiamo nella sinistra? Altri esempi li puoi fare tu meglio di me. Quello che cerco di dire è che in generale è vero che la sinistra, non solo quella comunista, è finita, tanto che parlavo di cambio di paradigma e di vuoto per tutti noi, e che va reinventato (hai detto un prospero!) ciò che può dare un senso alle nostre vite senza finire sotto il mantellone di Ratzinger: ma questo è il problema e sarà compito lungo e non garantito nei suoi esiti (e in ogni caso superiore alle forze in campo). Però questo crollo epocale (peraltro abbondantemente presagito) non credo influisca più di tanto sull’ “ispirazione” dei teatranti, e non solo dei teatranti, ovviamente. Mentre invece, in Italia, influisce sulle concrete possibilità di sopravvivenza: è venuta a mancare la greppia di casta, o clientelare se preferisci. Ma questa, appunto, non è cosa nuova. E soprattutto è problema politico. E culturale: e qui non c’ è più mica tanta differenza tra destra e sinistra (soi disante). Certo Veltroni è più avveduto di Alemanno, e attento a quello che succede in certi ambiti, ma forse, paradossalmente, più corporativo (pensa alla vicenda dell’”Unità”).
Perciò credo che vada fatta una battaglia anche contro quella che ancora si spaccia per sinistra, o si illude di esserlo (son sicuro che il patetico compitino redatto ieri dalla piccola Concita, e che ha suscitato tanti sconsiderati consensi, è stato scritto assolutamente in buona fede), ma una battaglia politico-amministrativa e politico-culturale.
Poi uno può dire: fattela te, la battaglia. Non posso andar da solo contro i mulini a vento. Qui mi taccio. Ricordo solo quello che disse Einstein a un suo allievo preoccupato per l’avanzata del nazismo: “Non c’è niente da fare, giovanotto. Smetta di prendere i giornali e di ascoltare la radio, e legga Shakespeare”.
Giuro che non voglio impegolarti in un e-mailario teatrale: volevo solo spiegare meglio le mie perplessità e confortarti.
Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Le ideologie della cultura di sinistra
Inviato: 28 agosto 2008
Caro Gianandrea,
credo che grossomodo siamo d’accordo (come quasi sempre) e che dialogando riesco anche a capire meglio quello che penso (e spiegar meglio quello che avevo frettolosamente condensato).
Cercavo molto brevemente (e confusamente, mischiando politica e moralità personali, estetica e opportunismi di casta).
Ma il punto fondamentale, secondo me, é che la sinistra (in senso lato, non solo il PCI, ma anche certo cattolicesimo e certo radicalismo, e i loro mix) hanno prodotto in questi anni diverse “ideologie della cultura” e del teatro: prima il teatro pubblico e gli stabili, poi le avanguardie (libertario-anarco-pacifiste), poi la trasgressione emancipatrice e la poetica della diversità; e ancora il nicolinismo e la sua banalizzazione veltroniana, e l’antiberlusconismo dei comici (figlio del ribellismo di Fo).
Per motivi diversi, questi filoni mi paiono in stallo (a essere generosi): insomma, aldilà delle poetiche personali e di gruppo, c’erano ideologie più o meno esplicite che giustificavano-imponevano l’intervento pubblico/politico del settore, e dettavano le linee guida (che poi nella pratica clientele eccetera prosperassero, ë un altro problema: per la sinistra di derivazione dalla linea corretta, per la destra - e Fumaroli - una perversione inevitabile).
E’ il tramonto di questi schemi che cercavo di evidenziare: è uno dei piani diversi cui accennavi al telefono. ad aggravarlo (secondo piano) e renderlo clamoroso è il tracollo elettorale.
Terzo piano, intrecciato agli altri, come accennato sopra, è quello della casta (di sinistra) e della riformabilità del sistema: non è stata praticata (non mi riferisco tanto alle denunce di ateatro, ma a quelle di Stella & Co. che non hanno avuto alcun effetto pratico).
Poi è vero che ho solo una pars destruens (o meglio, guardo le rovine che avevamo provato a puntellare), ma mi pare un primo necessario passo.
Su questo forse incide anche il mio stato d’animo, ma questo è un altro piano ancora...
cia-o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: La forza della marginalità?
Inviato: 28 agosto 2008
R.N.D., 28.VIII.08
Ma allora non è in crisi il rapporto tra il teatro e la sinistra inesistente e nemmeno più funzionante come greppia, ma sarebbe l’invenzione teatrale incapace ormai di produrre un nuovo sistema? Perché assuefatta al sistema precedente, da lei indotto e poi dialetticamente ribaltatosi in gabbia? E quando la gabbia si sfascia i pulcini soccombono?
Eppure mi sembra di vedere una vitalità e una forza non solo da stella morta... E da quasi un secolo la forza del teatro non sta nella sua marginalità?
Gianandrea
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Sulla categoria della diversità
Inviato: 30 agosto 2008
R.N.D., 3.VIII.08
Sì, impostato così il problema mi è più congeniale... Una sola precisazione: non è la categoria della diversità in quanto tale che mi è sgradita, ma il narcisismo e la pretesa di assolutezza e il mancato riconoscimento dell’anánkē, o se preferisci del limite, che spesso l’accompagnano e che postulano la trasformazione del desiderio in diritto.
Per il resto, hai detto un prospero. Nessuno credo abbia una soluzione: il problema, generale, in Italia assume connotati catastrofici, su cui appunto ti applichi. Ma, ancora una volta, non è da oggi che il consumo si appropria di elementi nati in antitesi e ciò che nasce “rivoluzionario” viene rapidamente riciclato prima dalle sarte e dagli architetti poi dalla pubblicità e poi giù giù fin all’Oviesse, passando attraverso la catena Feltrinelli (pensa al povero Che Guevara). Adorno docet. Bisogna per questo rinunciare? Una volta si teorizzava (e si praticava) la guerriglia culturale: mobile, imprendibile, mimetizzata nel quotidiano ecc. ecc. Io credevo allora e credo ancor di più oggi che nella società contemporanea (ma forse sempre, forse anche nella Ferrara dell’Ariosto, che nascondeva il suo nichilismo e le sue nostalgie dietro un arabesco d’avventura e di fiaba...) chi, a livello individuale o di gruppo, non vuole tradire quel tanto o quel poco di verità su se stesso e sul mondo che crede di aver raggiunto, debba essere marrano. Debba cioè camuffarla, truccarla, questa parziale e soggettiva verità, e sottrarsi nel momento stesso in cui si partecipa. E di questa “marranità” secondo me è stato intriso tutto, o quasi, il rapporto strumentale del teatro con la sinistra. Come sempre, come tutti i guitti, come Molière... il teatro larvatus prodit.
Tu dici: non è solo una questione di uso strumentale: è che certe “istanze” del nuovo teatro sono organicamente, quasi per definizione, collegate a un progetto di sinistra “vera”. Ma è mai esistita questa “sinistra vera”? Non è stato soltanto un altro nome, illusoriamente più empirico e quindi per molti meno sconveniente, dell’utopia? Non è meglio parlare di ideale regolativo cui è possibile solo approssimarsi, come Mosé alla terra promessa? E quelle utopie, o quell’ideale, non potranno assumere altre maschere, servirsi di altri strumenti, inventarsi altri canali? Nei due sensi da te indicati, il teatro sarà ancora più marginale di prima, forse (ma dicono che gli spettatori sono in crescita e in ogni caso è molto più vitale della narrativa, a esempio). I nodi su cui riflettere allora mi sembrano due: come, restando marginali, non farsi chiudere nel ghetto; e come sopravvivere, soprattutto come cominciare (tutti parlano dei circuiti chiusi, dei finanziamenti tagliati ecc., cioè di quanto già esiste: nessuno che pensi a quelli che vogliono cominciare!). Meredith Monk usava il sussidio di disoccupazione; Barba pittava le navi al porto e così via. Non credo ci siano molte altre alternative. E questo vale per chiunque, dal gruppo musicale alla piccola società di servizi (il teatro ha bisogno di più cose, lo so: spazio innanzi tutto, e visibilità; il teatrante, cioè, è già un imprenditore. Ma comunque i problemi sono analoghi). Non ci si può aspettare nulla da nessuno, oggi in Italia. E del resto oggettivamente soldi non ce ne sono, e quei pochi che ci sono li spendono in profumi e balocchi per loro.
Inventarsi un nuovo sistema teatrale è impossibile, in questa situazione e finché chi è già arrivato si chiude nella propria baracchina e, quando va bene, ci fa entrare solo gli amichetti sua.
Sarò ingenuo, ma non si potrebbe forse cominciare a discutere, e a far discutere, a favore della defiscalizzazione degli introiti, almeno del teatro “di ricerca” o “giovane” o chiamalo come ti pare, stabilendo dei tetti, e per ottenere dagli enti locali spazi in comodato (ci sono sale di ogni genere inutilizzate, per non parlar di quelle dei preti, ma loro sono peggio degli assessori, da questo punto di vista)?
Per ora ti saluto, che domattina mi alzo presto per una scarpinata
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Nell’era di Facebook
Inviato: 30 agosto 2008
Perfettamente d’accordo sul rapporto fecondo teatro-marginalità nel Novecento.
Ma era una marginalità rispetto a che cosa? Direi in due direzioni (a volte incrociate).
Da un lato una marginalità sociologica (culturale, sessuale, linguistica, fisica, psicologica, criminale...) rispetto al mainstream (la diversità, insomma, anche se la categoria non ti piace): e la marginalità dei teatranti e del loro microcosmo utopico vi si rispecchiava).
E dall’altro una marginalità estetico-culturale (quella delle avanguardie, in parte coinvolte e travolte dalla fine delle avanguardie politiche).
Mi pare che queste marginalità, senza una sinistra “vera”, vengano neutralizzate: nullificate da un pensiero unico oppure dall’altro riassorbite nel consumo.
Un sintomo. Le grandi multinazionali dell’abbigliamento usano da anni il look il linguaggio eccetera dei ribelli rap dei ghetti usa, marginali politico+estetici x eccellenza.
allora credo che ci dobbiamo chiedere se la categoria “marginalità” ancora funzioni (o ancora funzioni così);
e quale percorso debba poi fare questa marginalità. Se restare nel ghetto e difenderlo, o se integrare la marginalità per arricchire l’insieme (ma al tempo stesso azzerando la differenza).
(qui andrebbe aperta una parentesi sulla marginalità irriducibile del singolo, nell’era di Facebook, ma andremmo troppo lontano).
Insomma credo ci sia da pensare (e da inventare) qualcosa di nuovo tra politica ed estetica, x uscirne.
Ma qui per ora mi fermo.
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: In difesa della zona franca del teatro
Inviato: 31 agosto 2008
R.N.D., 31.VIII.08
Causa nuvole basse e rischio pioggina la scarpinata, che esigeva una radiosa per poter godere il panorama finale dopo una salita lunga e aspra, è stata rinviata. Ne approfitto per una postilla chiarificatrice, spero, su come la penso (si fa per dire) circa il nesso tra marginalità, diversità e teatro.
Nella tradizione europea il teatro, fin dai tempi delle condanne di Tertulliano e per la sua ineliminabile e antiplatonica corporeità (e nonostante l’incarnazione cristiana), è stato il luogo elettivo dell’anomia, la zona franca in cui ogni sorta di diversità, anche semplicemente intellettuale, poteva esprimersi, più o meno larvatamente, senza andare immediatamente sul rogo. Una zona ufficialmente condannata e ufficiosamente frequentata. (Con uno statuto analogo a quello dell’aborto, affidato alla sfera ufficiosa per definizione, quella femminile esclusa dal potere ma sovrana nei misteri del corpo.) Nel corso dei secoli i roghi sono scomparsi, ma lo stigma è rimasto. Questo ha consentito quell’effervescenza non solo creativa ma anche di sperimentazione sociale in vitro tipica del teatro.
Ma quando la diversità si socialdemocratizza e pretende le pantofole del pensionato e in parallelo la società letteralmente consuma la trasgressione come i decadenti d’antan l’assenzio, che ne è della zona franca del teatro? Non è questa, per la sua sopravvivenza, una minaccia più grave di qualunque tracollo della sinistra?
Un abbraccio
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Re: In difesa della zona franca del teatro
Inviato: 31 agosto 2008
Il tema del mio intervento era proprio quello, diciamo così, del buffone e del re - con un re che è cambiato.
E questo impone una riflessione, anche perché la marginalità del buffone non è mai assoluta: c’è il pubblico, e c’è un sovrano che controlla, a volte censura e a volte finanzia e spesso fa un mix dei due (almeno in Europa, negli Usa è leggermente diverso).
Poi è ovvio che ci sono costanti e strade che si possono ancora seguire e scavare (la marginalità, il corpo, ma anche la costruzione e “resistenza” dell’individuo/soggetto, la sperimentazione di nuove tecnologie/maschere, eccetera),
Però in un quadro cambiato: anche la parola socialdemocrazia rischia di perdere senso (anche perché i rivoluzionari pretendono la pensione!!!), e così per certi aspetti anche la marginalità (in un mondo tutto precarizzato...)
In fondo, credo che il teatro stia scontando la fine della polis e della politica, di cui era stato un elemento chiave - in quanto “civile”. Nel globalismo mediatico e populista (e nella spettacolarizzazione dell’io all’epoca del Grande Fratello e di Facebook) il teatro può ancora avere una funzione, ma la deve reinventare (e come sempre sarà un po’ antica e un po’ nuova) anche se non so se saprò vederla
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: Verso il gembo di tutti i mali d’Italia
Inviato: 1° settembre 2008
R.N.D., 1.IX.08
Domani scendo a Milano per pochissimi giorni. Non ne ho nessuna voglia, la detesto e la vivo anche un po’ paranoicamente come il grembo ahimé fecondo di tutti i mali d’Italia, da Mussolini a Berlusconi... Ma a parte questo, è che qui ti lasci irretire dai ritmi della natura e del paesello, vivi in altro modo il passo del tempo. Comincia, nelle luci, nella qualità dell’aria, nei colori, nelle ombre che si allungano, un sentore di autunno: doloroso e dolcissimo insieme, senti il tempo che ti scivola via dal corpo, come il sangue da una ferita...
Forse per questo, pur concordando con alcune tue preoccupazioni, sono meno epocale o palingenetico e più ciclico. Il teatro vive di corporeità in atto e di relazione diretta, anche “pedagogica” se vuoi (nel senso di Barba o di Salmon o di Copeau o di Brecht o di Stanislavskij: gli esempi possibili sono vari e costellano tutta la vicenda da fine Ottocento in avanti); e, almeno dal Novecento, di sperimentazione sociale protetta dalla sua stessa marginalità. Magari sarà perché son vecchio e mi illudo di procurarmi vita dalla continuità degli amori, ma credo che siano bisogni ben vivi anche nella società di oggi. Anzi, quanto più sei sommerso dall’illusorietà da castello di Atlante e dall’esibizionismo di massa elettronici, quanto più nel tessuto sociale le relazioni sono esclusivamente funzionali e persino l’eros si basa sul principio di prestazione, tanto più, almeno per pochi irriducibili, sarà necessaria l’ espressione teatrale. Che forme assumerà, lo ignoro; ma già oggi ci sono tanti diversi modi di fare quello che chiamiamo “teatro”: gli elementi di base sono quelli di sempre, anche se di volta in volta, nei secoli, cambiano la miscela e la funzione.
Differente (ma mi sembra che tu tendi a incrociare troppo i piani, quello della “morte dell’Arte” e quello organizzativo-finanziario) è il problema della configurazione del “sistema”, cioè come garantire l’ esistenza concreta, il circuito, la continuità in una società distratta o, letteralmente, affamata. Dove il 50% della popolazione pare si faccia di droghe di ogni genere. Dove la scuola è quello che è e figurati quello che sarà con la Gelmini; dove c’è un allarmante analfabetismo di ritorno, ma folle si ammassano a Sarzana, a Torino, a Mantova, a Parma, alle mostre di Brescia... E dove una zona come la Sabina rigurgita di filodrammatiche, come si chiamavano una volta, e a Poggio Mirteto invitano Iben Nagel Rasmussen e a Castiglioncello fanno in pineta rassegne che si fatica a vedere a Milano, e credo che il Sud proponga più cose di quante riesca ad assorbire. Non so se è fruttuoso costruire ipotesi e teorie su una realtà così contraddittoria. Utile mi sembra comunque quello che ti scrivevo l’altro giorno e che era anche uno dei tanti scopi del tuo appello, credo: invitare i teatranti alla consapevolezza, ad abbandonare quella che la Renata [Molinari] chiama giustamente “la logica condominiale”, a dibattere su proposte concrete e con qualche possibilità operativa anche nella nuova situazione. Io credo abbia ragione il vecchio Monicelli: l’Italia sta naufragando, ma non so dove. Forse bisognerà cominciare a pensare in termini di mera sopravvivenza. Ma almeno tentare una sorta di stati generali forse vale la pena. Ma su questo non so proprio che dire nemmeno io che sono un chiacchierone...
Un abbraccio e buona Mantova
Gianandrea
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: L’ultimo baluardo del vecchio umanesimo?
Inviato: 5 settembre 2008
R.N.D., 5.IX.08
E se invece, dopo la morte di tutte le altre arti (penso a come gira a vuoto la musica e a come sia autoreferenziale l’arte figurativa), il teatro fosse ancora l’ultimo baluardo del vecchio umanesimo? Una difesa/rivolta verso la disumanità incombente? L’ unico luogo in cui il corpo ha ancora un significato proprio: non colonizzato, non artefatto, non tecnologizzato (salvo che in certe forme di “cyberteatro”, se così si può definire); in cui il narcisisimo trova una forma per affermarsi negandosi (nel momento della comunicazione)? Il luogo in cui è possibile individuarsi non in base alle esigenze della società e del potere ma in base ai nostri bisogni vitali? Lo spazio della trasformazione “alchemica” della nostra pluralità interiore in uno scambio comunicativo tra l’attore, il suo personaggio e il coro di chi assiste partecipe, facendosi così carico della verità di quanto accade sotto i suoi occhi? L’unico spazio, ormai, in cui è ancora possibile esercitare il giudizio, senza rinviare il senso a un domani sempre veniente? Allora, nella sua residualità marginale, il teatro non è l’ultima linea di resistenza possibile? Non più utopie, dunque, ma tenacia da sentinella nella notte. Una tenacia e una resistenza non “di sinistra” contro lo strapotere della “destra”, ma semplicemente dell’umano contro la barbarie ormai generalizzata, a destra e a sinistra. Suona retorico, lo so, ma solo nella consapevolezza di una battaglia in cui ci si gioca tutto forse il teatro può sopravvivere, anche da noi, anche Berlusconi regnante.
Buon Ronconi.
Gianandrea
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Da: Oliviero Ponte di Pino
A: Gianandrea Piccioli
Ogg: Per un teatro disumano?
Inviato: 15 settembre 2008
Caro Gianandrea,
eccomi con un po’ di ritardo, ma tra l’ufficio e la gita a ny (e relativo fuso) mi sono un po’ perso.
Provo a rispondere ora brevemente.
Certo una posizione generosamente (ma anche un po’ genericamente) “umanista” è culturalmente ed eticamente nobile e sostenibile. Era peraltro l’ipotesi di lavoro di Strehler, quando intitolava il suo libro Per un teatro umano (e magari noi, dopo aver letto Foucault & Deleuze, Beckett e Genet, storcevamo il naso).
Così come è legittimo fare teatro per conservare il patrimonio culturale del paese, oppure provare a far interagire teatro e nuove tecnologie, oppure esibire il virtuosismo degli attori (e si può ragionevolmente sostenere che tutte queste forme di teatro meritano d’essere sostenute dai poteri pubblici). Di destra come di sinistra.
Ma proprio questo è il punto. Non dico certo che il teatro sia morto, o che non verrà più sovvenzionato. Voglio semplicemente dire che gli schemi tradizionali della sinistra in campo culturale non tengono più, e che dobbiamo trovarne di nuovi. Partendo dal generico presupposto che la cultura sia un valore (e magari sottolineando che sulla cultura si fonda l’umanità dell’uomo, contrapposta alla disumanizzazione implicita in un’ideologia tecnologico-economicistica), si potrà sempre fare del teatro (magari ottimo, ma forse più spesso infradiciato di buone intenzioni) e giustificare il mecenatismo pubblico nei suoi confronti.
Ma non era certo questo il postulato della cultura di sinistra, direi. E forse questo postulato non ci basta più, da tempo. Ma trovarne altri, non è facile...
o.
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Da: Gianandrea Piccioli
A: Oliviero Ponte di Pino
Ogg: C’è umanesimo e umanesimo
Inviato: 24 settembre 2008
R.N.D., 24.IX.08
Caro Oliviero,
scrivo ancora torpido di raclette e barbaresco goduti ieri sera a casa del mio amico capoguardia e di sua moglie psicobiologa: tutto, colesterolo compreso, a livello di eccellenza estrema. Però, nonostante i postumi della serata, sono perfettamente consapevole, e non da oggi, che un certo umanesimo è morto: ricordi quante volte abbiam parlato, cercando invano di farne fare un libro, della frattura nella trasmissione culturale? Cioè del fatto che, per la prima volta nella storia dell’Occidente, si è interrotta la continuità di una paideia da una generazione all’altra? (Io personalmente, poi, posso anche cercare, nel mio piccolissimo, di continuare a sostenere valori che so defunti per sempre, in una sorta di “nobiltà della sconfitta” ispirata a Giuliano l’Apostata più che a Mishima...). E sono anche consapevole (ma chi non lo è?) di vivere non in un’ epoca di grandi cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca, come ha detto non ricordo più chi (un qualche intellettuale sudamericano, mi sembra).
Questo per dire: reazionario sì, ma non così ingenuo da usare il termine “umanesimo” in chiave essenzialmente culturale. Mi interessano limitatamente l’umanesimo socialisteggiante di Strehler (anche se, coi tempi che corrono, avercene!) o le valenze culturali del teatro (ma, anche a questo proposito, non butterei via il museo). Né, scusa se mi ripeto ma tutto questo nostro emailaggio è partito da qui, so dire fino a che punto il teatro del Novecento sia stato ispirato a schemi culturali di sinistra (se non nel senso generico che dall’ Illuminismo in giù tutta la cultura è stata prevalentemente “progressista”, egualitaria, libertaria ecc ecc. Ma gli scrittori più grandi e amati sono stati quasi sempre conservatori... e anche i filosofi... e anche tanti artisti...).
Quello che intendo per “umanesimo”, in questo contesto, è, per così dire, un’ ultima resistenza dell’umano, una pertinace ricerca delle ragioni delle scommesse ultime sulla nostra esistenza ben più che dei suoi fondamenti. Tu puoi obiettare: non cambia molto, sposti solo la barra più in là. Per come la vedo io, no.
Non ho una concezione metafisica dell’ uomo, e da Musil ho imparato più che da Foucault e Deleuze. Credo però nell’apertura della storia, nella sua assoluta e non necessariamente provvidenzialistica imprevedibilità. E quindi nella necessità dell’estote parati, nella continuità stoica della formica, del ragno, della lumaca... Per questo, pur agitandomi come mai in vita mia per quanto sta succedendo, pur vivendo nell’amarezza e nell’astio (sentimenti che solitamente mi sono estranei e che metto in conto, con molto altro, ad Al Tappone), pur sapendo che morirò in un’Italia brianzolizzata (e fin che posso cerco di scapparne), continuo a pensare che non perciò finisce il mondo.
E che proprio in questo deserto, o negli interstizi del mutamento, il teatro ha più opportunità di altre forme di vita (uso consapevolmente questa espressione), se non altro perché, come il calcio, lo puoi “giocare” dappertutto: nei grandi stadi metropolitani, ma anche in una favela o, se non ti ammazzano, a Castevolturno. E si può continuare a “usare”, da bravi marrani, come sempre i teatranti. La cultura, l’arte, i valori, anche l’utopia: tutte balle. Ma necessarie, sempre. Indispensabili paraventi per contrabbandare l’anomia, i propri bisogni non accettati né accettabili dal contesto, la propria voglia di sperimentarsi sperimentando, in vitro, un’esistenza sociale altrimenti impraticabile. Per liberare il corpo dalle proprie angosce e dagli asservimenti esterni. Per incontrare l’altro, in un gioco di riconoscimento reciproco che produce nuova realtà.
Sono assi ideologici di sinistra, questi, destinati a inabissarsi con lei? Se sì, vuol dire che, come il borghese di Molière, faccio della prosa senza saperlo...
Gianandrea
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