ateatro 118.16 Ricominciamo da Leo? In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Mario Martone
In questo settembre mi trovo a Madrid per lavoro. Qualche giorno fa ho ricevuto diversi messaggi di saluto che, facendo riferimento al fatto che fossi lì, sottolineavano quanto l’Italia sia sempre più triste, abbrutita, incattivita: beato te che sei in Spagna!
Oggi ho preso l’aereo per tornare due giorni a Roma, e ho portato con me un po’ di cose da leggere, per ultima un intervento recente del critico teatrale Oliviero Ponte di Pino che si intitola La fine del (nuovo) teatro italiano, un’amara riflessione sul rapporto tra il teatro e il paese: nonostante decenni di slanci vitali gli artisti non sono riusciti a incidere sulla coscienza di un paese che è profondamente involuto culturalmente (e qui per cultura si intende vita, non letteratura).
Finito di leggerlo, l’aereo è atterrato, ho riacceso il telefonino e ho saputo che Leo è morto. Si è dunque conclusa l’ultima vita di Leo, che di vite ne ha avute tante: quella meravigliosa e folle al fianco di Perla Peragallo, quella della disintossicazione dall’alcool, quella dei grandi testi messi in scena integralmente, quella del rinnovato rapporto creativo con la tradizione, (Eduardo come Pirandello), quella dei grandi affreschi storici come Novecento e mille, quella civile da direttore di Santarcangelo, e in ultimo quella dell’improvvisa sospensione, la vita nel coma, una vita misteriosa in cui, nonostante lo stato di incoscienza, il romanzo di Leo è andato avanti fino a fargli rincontrare Perla, tornando a vivere da lei e con lei, Perla che se ne è andata poco più di un anno fa. La famiglia, le persone che lo hanno amato, gli artisti, tanti, che gli devono tutto, non lo hanno mai abbandonato.
A me ha colpito molto il tempo in cui questa ultima vita di Leo si è svolta: un tempo in cui Leo De Berardinis ha fatto pesare il suo silenzio. L’arte di Leo è sempre stata politica, quale fosse la forma che prendeva, altamente politica. Si occupava non di attori, ma di uomini che erano attori, e dunque il suo magistero riguardava l’intera esperienza umana e civile in cui l’arte della recitazione prendeva forma. Tante sono state le sue parole in proposito, ed avrà grande importanza nel prossimo futuro riascoltarle: ma negli ultimi tempi sembravano parole al vento.
Chi fa teatro non è come chi fa pittura, o musica, chi fa teatro deve condividere una lingua con i suoi concittadini, e se questi concittadini si fanno sempre più sordi, l’attore fa risuonare parole senza scambio, senza vita. Leo ha smesso di parlare. Ci ha lasciato per anni e anni in un angosciante e significativo silenzio. Ora è finito anche quello. Leo è stato un grande del Novecento, un paese alla sua altezza dovrebbe ricordarlo con gratitudine e amore. Che bello sarebbe pensare che dalle sue ceneri potesse rinascere il (nuovo) teatro italiano, cioè un paese diverso.
"Il Mattino", settembre 2008
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