ateatro 117.15
Il teatro alla moda
Comica e politica
di Oliviero Ponte di Pino
 
Da «Atti&Sipari», numero 2, aprile 2008, pp. 34-36.

Sono cose da ridere; ma cose che qualche volta mi fan venire la rabbia. Son così, io che sono allevata civilmente, non posso soffrire le male grazie.
Susanna nel Ventaglio di Carlo Goldoni


PROLOGO IN TEATRO

Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: “E insomma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!”
Applausi dal pubblico.
“Con voi e per voi, ecco il mio programma...”
Applausi ancora più fragorosi.


ATTO PRIMO

Scena prima (uno studio televisivo)
Un comico di una certa fama (altrimenti non l’avrebbero chiamato in quella trasmissione) sta preparando uno sketch. Il tema è di quelli che possono far discutere gli italiani: gli infortuni sul lavoro, la gita in Cina di Bettino Craxi e del suo numeroso seguito, il caso Pinelli-Calabresi-Sofri, l’iter giudiziario di Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, il discorso sulla democrazia di Pericle. Le battute sembrano azzeccate: nello studio ridono tutti, anche i fonici. Solo uno, nell’ombra, rimane serio. Anzi, più gli altri ridono, più lui diventa livido.

Scena seconda (un ufficio)
Qualcuno (chi? fate voi: un funzionario pavido, un portaborse diligente, o magari un alto prelato o un importante uomo politico) parla al telefono: “Ma ti rendi conto? Quello ci sta sputtanando a tutti! a spese nostre, per di più.”
Infatti di certi argomenti non bisogna parlarne; e se proprio si deve, non in televisione (nemmeno a mezzanotte e dieci, in programmi di scarsa audience); e se proprio di certe faccende bisogna parlarne in televisione, non è ammissibile che lo faccia un “guitto irresponsabile che cerca solo di farsi pubblicità”.

Scena terza (un altro ufficio)
Il comico e un funzionario. Discutono animatamente. Cercano un accordo.
Il comico deve lavorare, vuol fare il suo sketch, accetta qualche taglio che possa aggirare il divieto, gli scoccia rinunciare al cachet e soprattutto alla platea televisiva. Sa benissimo che se tira troppo la corda finirà nella lista nera.
L’attore è molto popolare, la trasmissione va bene, il funzionario non vorrebbe grane e dunque cerca di spiegare con pazienza perché quella cosa non si può dire e quell’altra non fa ridere. Sa benissimo che se tira troppo la corda scoppierà uno scandalo.
A un certo punto il comico batte il pugno sul tavolo e se ne va. Ora è agitato, telefona: “Ma sai che cazzo mi ha chiesto, quell’ignorante?”
Oppure a un certo punto il funzionario scuote la testa e se ne va. Ora è agitato, telefona: “Ma sai che cazzo mi ha chiesto, quell’ignorante?”


ATTO SECONDO

Scena prima (uno studio radiofonico)
La brava giornalista sta facendo la rassegna stampa. I giornali non parlano d’altro: lo sketch censurato è finito in prima pagina. Che sia andato in onda oppure che il programma sia stato sospeso, è irrilevante: l’importante è lo scandalo. Ne discutono al bar, sugli autobus, in ufficio davanti alla macchinetta del caffé.

Scena seconda (una tavola rotonda sulla satira televisiva: in tv, alla radio, in un auditorium, negli uffici della tv, in uno studio d’avvocato, in un sede di partito)
“No, perché quel buffone ha superato ogni limite. Quella non è satira! E’ troppo volgare! Non fa mica ridere... Tutti quei fluidi corporei, mi veniva vomitare.”
“Ma il vomito non è un fluido corporeo? Che schifo!”

Oppure:

“No, perché quel buffone ha superato ogni limite: quella non è satira, è informazione. Un comico dev’essere divertente. Quello non fa neanche ridere, è solo propaganda... Ma se davvero vuoi fare informazione, allora deve permettere il contraddittorio... Non può mica attaccare chiunque così, senza permettergli di replicare. E’ stato un attacco ignobile!”
“Mi scusi, ma quello che raccontava era vero o no?”


ATTO TERZO

Scena prima (un teatro)
Il comico è sul palco. Sta spiegando che tra poco ripeterà lo sketch che gli è costato il posto in televisione. E’ insieme abbacchiato ed euforico: “Sarà una serata memorabile!”
Il numeroso pubblico si è divertito: “E’ stata una serata memorabile!”

Scena seconda (un palazzetto dello sport, una piazza)
Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: “E insomma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!”
Applausi dal pubblico.
“Con voi e per voi, ecco il mio programma...”
Applausi ancora più forti.

BIS! A grande richiesta...
Dopo un periodo di purgatorio, lontano dal piccolo schermo, il bravo comico ritorna finalmente in televisione. Sarà un evento.
Spesso l’iter si ripete: un eccesso d’impertinenza, un eccesso di censura, e il giochetto ricomincia daccapo.


SIPARIO


Dai tempi del caso Fo-Rame, che nel 1962 abbandonarono Canzonissima per le “divergenze artistiche e ideologiche” innescate da uno sketch sugli infortuni sul lavoro, il copione si è ripetuto più o meno identico, con minime varianti. Bastano gli esempi più clamorosi.
Il “terrorista del sabato sera” Beppe Grillo nel 1986 a Fantastico 7 racconta una barzelletta sul viaggio di Craxi e della sua corte in Cina e viene cacciato dalla Rai; non si pente: nel 1993 torna in Rai con un recital dove attacca i pubblicitari, la SIP, Biagio Agnes, l’inquinamento e la stupidità collettiva; raccoglie sedici milioni di spettatori ma si guadagna un’altra scomunica; da allora lo si vede solo sul satellite e sulle pay tv, oltre che dal vivo.
Daniele Luttazzi nel 2001 invita a Satyricon l’impertinente Marco Travaglio, che osa parlare dei processi a Berlusconi: con l’accusa di aver intervistato un giornalista invece di raccontare solo barzellette, Luttazzi viene cacciato all’istante dalla Rai, dove non mette più piede; è un recidivo pure lui: nel 2007 è cacciato anche da La7 per qualche battuta un po’ troppo pesante sul teodem Giuliano Ferrara.
Sabina Guzzanti nel 2003 vede il suo Raiot, in onda in seconda serata, bloccato dopo la prima puntata malgrado l’ottima audience: Mediaset chiede uno strampalato risarcimento da 20 milioni di euro perché le gag della Guzzanti non erano satira ma informazione (una battuta involontaria ma geniale, che dà l’idea di quanto sia ridicola la situazione del nostro paese); la Rai finge di spaventarsi e Raiot non va più in onda.
Paolo Rossi, invitato di Paolo Bonolis nel 2005 a Domenica In, vorrebbe leggere il discorso di Pericle sulla democrazia: non glielo fanno nemmeno iniziare, e per ripicca la Rai pochi giorni dopo non manda in onda nemmeno la seconda parte del suo Questa sera si recita Molière (guarda caso un altro comico con problemi di censura...).
La storia si ripete con varianti minime. Un buffone di successo affronta un tema d’attualità, qualcuno ritiene che la gag sia un po’ troppo impertinente e scatta la reazione: una censura preventiva o l’immediata sospensione della trasmissione incriminata, e la successiva epurazione del reo. Il quale si proclama naturalmente vittima della stupidità del potere e rafforza la propria fama di “uomo (o donna) contro”: “Io sono un artista libero!”. Va peraltro tenuto presente che, nell’Italia dell’inciucio televisivo Rai-invest, farsi cacciare da una trasmissione significa di fatto essere cacciato da tutte le reti televisive, perché l’intero sistema è sotto stretto controllo politico. Per fortuna ci sono le esibizioni live, dove il nostro bravo comico può sfruttare al meglio la propria trasgressiva scomodità: il pubblico – un certo pubblico, ma sufficiente a riempire teatri, piazze e palazzetti dello sport – apprezza proprio questo.
Peraltro la censura non può imporre a chiunque di tacere su qualunque argomento e in qualunque luogo. Solo un imbecille può pensare di stabilire per legge che cosa devono dire i comici. Solo due ingenui come gli avvocati Stefano Previti (figlio d’arte) e Pieremilio Sammanco – che per conto di Mediaset hanno querelato per Raiot Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Studio Uno s.r.l. (la società produttrice) e la Rai – può pretendere di circoscrivere la funzione della satira e di limitare il suo campo d’azione, riducendola a passatempo edificante e consolatorio:

E' noto, in verità, che la satira sorge per l'innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprudenza più volte sul punto ha infatti espresso che “il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l'informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)” (Dir. Inform., 1989, 520).
Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contribuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall’intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell'esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l'arma incruenta del sorriso assolve la funzione di “moderare i potenti”, di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E' allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione.


Secondo i due avvocati, toccherebbe alle vittime della satira decidere che cosa debba essere la satira. Ovviamente la loro balorda richiesta è stata respinta (anche se a quel punto Raiot ormai non c’era più, colpita e affondata). Per l’estensore della sentenza di archiviazione, Giuliano Turone, procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, le battute della Guzzanti sulla legge Gasparri «scritta da qualcuno molto vicino a Confalonieri», su «Retequattro abusiva», o sul ministro Gasparri («Tutte le volte che si critica la sua legge risponde l’ufficio stampa di Mediaset anziché il suo»), «trovano un riscontro nei contenuti delle due sentenze della Corte Costituzionale e nella memoria dell’Antitrust», oltre che in «fatti, avvenimenti e circostanze» non soltanto «socialmente rilevanti» ma anche «obiettivamente veri nei loro elementi essenziali»: insomma, non solo era diritto del comico affrontare quegli argomenti, ma li ha anche trattati in maniera corretta. Come ha spiegato Beppe Grillo a suo tempo,

Trovo triste abitare in un paese dov’è un comico a dover spiegare la politica in tv o sulla piazze.
(“la Repubblica”, 1° luglio 1994)


Peggio ancora (o ancora più buffo), Grillo è stato chiamato come testimone in diverse indagini in materia economica (di recente anche per il crac Parmalat, che aveva anticipato nei suoi esilaranti comizi-spettacolo):

Possibile che le informazioni ai giudici debba darle un comico?
(“la Repubblica”, 7 febbraio 1995)


Insomma, il problema non sono i comici: il problema sono magistrati che non indagano, sono i giornali e i giornalisti che queste verità non le dicono (o non le possono dire).
Ovviamente i censori non vogliono solo mettere a tacere il loro bersaglio dichiarato: a un livello più generale, cercano di screditare e intimidire tutte le opinioni scomode. Poche sere dopo la cancellazione di Raiot, Sabina Guzzanti ha riproposto le sue gag in una tournée che ha raccolto decine e decine di migliaia di spettatori, sollevando un vero caso politico. A un’artista che ha già costruito la propria immagine artistica e consolidato fama e pubblico, una censura di questo genere pone certamente gravi problemi, ma non distrugge la sua integrità e dignità artistica, se solo ha la forza di resistere alle lusinghe del disimpegno; anzi, lo premia con l’aureola del martirio. Ma per i suoi colleghi più giovani un messaggio del genere (“Se superi certi limiti, ti chiediamo danni per milioni di euro”) ha un effetto intimidatorio, perché spinge a una sistematica autocensura: il problema non è solo la fondatezza della querela, o l’entità del danno, ma anche le spese legali e le ansie che chi “tiene famiglia” dovrà affrontare.
La censura del resto è un meccanismo complesso, che non è possibile ridurre agli episodi più clamorosi ed espliciti. In primo luogo la censura non riguarda solo e tanto la verità che non si può dire: ancora prima, è necessario decidere l’“ordine del discorso”, ovvero gli argomenti di cui è possibile parlare e quelli di cui non si può parlare (i temi che “non sono in agenda”). E poi si tratta di stabilire chi può parlare di un determinato argomento (perché è “autorevole”) e chi invece no: o meglio, si decide che quel tizio, se parla di quell’argomento, spara inevitabili sciocchezze, e dunque è inutile e dannoso rispondere. Perché in subordine si stabilisce che l’effetto di una certa affermazione varia a seconda di chi l’ha fatta (a seconda del momento in cui l’ha detta, e del ruolo che ricopre in quel momento). Persino il papa – dice l’apposito dogma – è infallibile solo quando parla “ex cathedra”, altrimenti è fallibile persino lui. (Curiosamente in Italia esiste un comico “infallibile”, al quale tutti permettono –magari a denti stretti – di dire e fare tutto ciò che vuole: Roberto Benigni, al quale venne perdonato persino un irriverente “Woytlaccio!” al Festival di Sanremo...)
Spesso il buffone non si limita solo a dire una scomoda verità. A volte è addirittura dotato di una certa capacità profetica. Basti pensare a Dario Fo, che nelle sua farse denunciava le tangenti sulle pompe funebri con qualche decennio d’anticipo, o a Paolo Rossi: nel 1983 il “Lenny Bruce dei Navigli” parlava “di tangenti sul pianeta Craxon e dicevano che esageravo”, dieci anni dopo Tangentopoli spingeva il leader socialista alla latitanza.
Peraltro, come abbiamo visto, la denuncia di un comico – anche se vera – in genere non ha alcun effetto pratico,

La satira diretta ai potenti ha mostrato di non provocare reazioni. La controparte è immobile.
(Altan, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 marzo 1992)


Però quando le persone “autorevoli” tacciono, o parlano in modo da non farsi capire, qualcuno (forse meno autorevole) pensa bene di prendere la parola. In questi mesi per esempio sono numerosi i buffoni che nei loro monologhi affrontano i temi (serissimi e riservati agli esperti) dell’economia e del lavoro, con particolare attenzione al precariato: Marco Paolini (con I Miserabili – Io e Margaret Thatcher), Paola Cortellesi (con Gli ultimi saranno ultimi), Ascanio Celestini (con Appunti per un film sulla lotta di classe), meritandosi a volte i rimbrotti dei critici perché osano occuparsi di argomenti sui quali sono impreparati: vedi la recensione di Renato Palazzi ai Miserabili di Marco Paolini sul “Sole 24-Ore” (guarda caso il quotidiano della Confindustria).
Certo, la censura è prima di tutto un problema di avvocati, di querele e tribunali, dei consigli d’amministrazione dei vari media e dei teatri, delle commissioni parlamentari e delle interrogazioni parlamentari. Ma il campo viene delimitato, per così dire, da molti altri attori: programmatori di teatri e programmisti-registi radiotelevisivi che possono ammettere o escludere uno spettacolo o uno sketch, critici, intellettuali, professori ed editorialisti che possono difendere o attaccare il guitto sotto accusa, giornali e case editrici che possono pubblicare e promuovere testi e autori scomodi. Senza dimenticare il ruolo del pubblico, che decretando il successo di un comico difende anche la propria libertà. E naturalmente ha un peso anche la battaglia per la sopravvivenza (e il successo) dei comici medesimi, che con il loro coraggio e le loro paure, i loro opportunismi e le loro astuzie cercano di salvaguardare (tra l’altro) il proprio posto di lavoro.
Del resto, il comico ama da sempre giocare con il potere, tanto che si è sedimentata una vera e propria mitologia. Inutile ricordare il bambino che punta il dito, “Il re è nudo”, diventando il santo patrono della satira politica. Altrettanto inutile ricordare la figura del buffone di corte, il Fool che trova nel Re Lear di William Shakespeare la sua incarnazione più esemplare e poetica. Rispetto alle epoche barbariche dove regnava Lear, bisogna precisare che in questi nostri tempi moderni, segnati dal trionfo della democrazia e dalla morte di Dio, il ruolo e i limiti della satira sono assai cambiati. Da un lato, la satira ha avuto un ruolo fondamentale nell’abbattere disuguaglianze, idoli e superstizioni: basti pensare a Voltaire e al suo Micromega. Se la satira ai suoi inizi - vedi Aristofane - era tendenzialmente moralistica, e dunque in sostanza conservatrice, con l’illuminismo razionalista ha assunto invece una funzione dissacrante e potenzialmente progressista.

Come giullare di corte della società moderna, l’intellettuale ha il dovere di dubitare di tutto ciò che è ovvio, di considerare relativa qualsiasi forma di autorità, e di porre tutte quelle domande che gli altri non osano fare... La verità del buffone quindi non è mai troppo seria poiché le manca l’importante avallo della responsabilità (e anche, naturalmente, del potere). Ma questo non diminuisce il suo valore e dimostra che è tanto più irragionevole affrontarlo con l’artiglieria pesante del sospetto pubblico e della denigrazione. Il mondo in cui una società accetta gli intellettuali giullari di corte, che mettono criticamente in discussione le sue istituzioni, ci dà la misura della sua autorità e della sua solidità.
(Ralf Dahrendorf , “Die Welt”, 1953)


Ma ora che i valori della critica si sono affermati (forse irreversibilmente), qualcuno sostiene che il comico avrebbe perso la sua funzione: dopo il trionfo del nichilismo razionalista, abbattuti gli ultimi idoli, non ci sarebbe più niente di cui ridere.
Dall’altro, in una società gerarchica in cui ciascuno aveva un ruolo prestabilito, al quale corrispondevano precisi diritti e doveri, il fool aveva totale libertà di parola proprio perché non ricopriva alcun ruolo preciso (correva peraltro qualche rischio: se davvero esagerava, il buffone di corte non perdeva solo il lavoro, ma anche la testa...). Ora che siamo tutti uguali di fronte alla legge, e che i ruoli sociali si sono indeboliti, tutti possono ridere di tutto. Ecco un paradosso: potremmo ridere di tutto, anche se non c’è più niente da ridere. Infatti i comici dilagano, mettendo in ridicolo il mondo intero. E noi continuiamo a ridere con loro di tutto, ma con un riso un po’ forzato.
Il Novecento che ci siamo lasciati alle spalle è stato un secolo terribile, segnato da guerre atroci e stragi insensate: non c’era letteralmente niente da ridere, e tuttavia tra le grandi creazioni dello spirito umano di quel periodo ci sono la fioritura dell’umorismo ebraico, che non si è fermato nemmeno davanti alla camere a gas; e la proliferazione delle irresistibili barzellette sul regime sovietico. Se proprio bisogna aver fede nell’essere umano, questa libertà di sghignazzo di fronte all’orrore potrebbe essere una buona motivazione.
Di più: un tempo c’era chi poteva ridere e chi no, perché per lui non era dignitoso. In compenso, c’erano momenti – come il Carnevale – in cui era “obbligatorio” ridere, anche perché in quel periodo il mondo funzionava all’incontrario e il buffone diventava sovrano – il Re di Carnevale (ma anche qui, almeno anticamente, rischiava una brutta fine). Oggi, in una società dove è d’obbligo “divertirsi da morire” (e dove i politici sono più a loro agio nelle barzellette e nei tribunali che in Parlamento, quando non diventano essi stessi barzellettieri), possiamo e dobbiamo ridere sempre. Per questo oggi il Re di Carnevale può autorevolmente candidarsi alle elezioni. L’aveva fatto in Italia del dopoguerra il commediografo Guglielmo Giannini, l’eroe dell’Uomo Qualunque. L’ha fatto un genio dello sberleffo politicamente scorretto come Coluche, che all’inizio degli anni Ottanta si candidò alle presidenziali francesi con lo slogan “Per rompere le palle alla destra fino a sinistra”: nei sondaggi ottenne un tale successo che venne obbligato a ritirarsi. Inutile aggiungere che gli italici “comici-candidati” sono solo pallide imitazioni di Coluche: basta citare alcune delle sue memorabili battute:

· Mi permetto solo di far notare agli uomini politici che mi prendono per un buffone che non sono stato io a cominciare.
· Tutti gli uomini politici di tanto in tanto fanno i comici. Io su di loro ho un vantaggio: sono un professionista.
· La destra ha vinto le elezioni. La sinistra ha vinto le elezioni. Ma la Francia quando vince?
· Fare il politico è un mestiere difficile? Mica vero! Bastano cinque anni di diritto e tutto il resto di traverso.
· Il 50% degli uomini politici sono dei buoni a nulla. L’altro 50%? Sono pronti a tutto.
(Coluche, Pensées et anecdotes, le cherche midi, Paris, 1995)


Grillo-Masaniello si muove sulla scia di Coluche, adattandola alla realtà italiana. Può essere stato espulso dal piccolo schermo per leso Craxi e lesa pubblicità, ma intanto può continuare a riempire i palazzetti e i teatri di tutta Italia, e vende decine di migliaia di copie dei suoi libri e dei suoi video. E può organizzare manifestazioni politiche (o anti-politiche) come il “Vaffa Day” che nel settembre 2007 ha riempito le piazze d’Italia.
Ovviamente Grillo può avere più successo come politico che come buffone solo se i politici sono più efficaci come buffoni che come comici. Il Re del Carnevale diventa autorevole solo se il Re ha perso credibilità. Il buffone può aspirare al trono solo se la politica del sovrano non è riuscita a dare risposte soddisfacenti.
Da questo punto di vista, la censura è un problema di rapporti di forze e di conflitti di potere. Così il critico televisivo del più autorevole quotidiano italiano può cercare di rimettere in riga i comici

che nel frattempo sono diventati maestri di pensiero, piccoli guru, guide spirituali. Non fanno più ridere ma in compenso si atteggiano a intellettuali, scrivono pensosi editoriali e, in video o al cinema, fanno prediche. (...) Molti comici si sono trasformati in professionisti della comunicazione.
(Aldo Grasso, “Corriere della Sera”, 15 marzo 2008)


Anche se in questo hanno avuto certamente un “aiutino”:

Ormai i giornali mi chiedono l’opinione anche sulla proporzionale, si vede che in un momento di vuoto politico la politica la dettano i comici.
(“il manifesto”, 16 dicembre 1992)


Tuttavia la faccenda non è così semplice. Perché dietro la maschera del comico si nascondono – e tuttavia si avvertono – altre due risate. La prima è quella del diavolo: nella risata c’è una forza destabilizzante, liberatoria e sovversiva. Per i Padri della Chiesa l’ebbrezza del riso è addirittura un’arma diabolica. Sant’Ambrogio ammoniva:

Anche se le battute e gli scherzi possono essere moralmente belli e gradevoli, essi tuttavia ripugnano alla disciplina ecclesiastica, poiché di ciò che non abbiamo trovato nelle Scritture, come possiamo farne buon uso? In effetti dobbiamo evitarli, anche nelle conversazioni, per timore che sviliscano la dignità di un progetto di vita più austero. “Maledetti voi che ridete, perché piangerete”, dice il Signore; e noi, noi cerchiamo cose di cui ridere, in modo che, ridendo qui in basso, piangeremo là sopra!
(De officiis, I, 23, 102-103)


Dietro la risata, c’è sempre il rischio che riaffiori il demoniaco – anche se non possiamo più credere né al demonio né all’inferno. Dunque temiamo il riso e ne siamo affascinati. Per Baudelaire, che arriva molti secoli dopo i Padri della Chiesa, quando la comicità e il demonio si sono evoluti, “il riso è satanico, e dunque profondamente umano” (De l’essence du rire).
La tradizione conosce anche un altro riso, a questo paradossalmente apparentato: è quello terribile di Dio, che ride delle disgrazie e delle miserie degli esseri umani. Ora che Dio è morto, non possiamo nemmeno più sentirlo ridere di noi. E dunque a noi umani tocca tocca un difficile compito: ridere di noi stessi. Non è un caso che dopo la democratizzazione dell’ironia, dopo il trionfo di uno scetticismo che azzera nella risata ogni valore, ora dilaghi l’autoironia: ormai dobbiamo ridere di noi stessi.
Il riso non è solo problema politico, una questione di controllo ideologico o sociale. Adesso che ridiamo di tutto proprio perché non c’è più niente da ridere, il comico può tornare a essere, per un breve istante, quasi per sbaglio, una voragine filosofica e metafisica. Come se la nostra risata, a un certo punto, tradisse la nostalgia della risata del diavolo e di quella di Dio... Come se, in questa società polverizzata in mille individui-consumatori, dove anche la risata diventa spesso bene di consumo piacevole e consolatorio, potesse resuscitare il fantasma della sovversione totale, e dunque anche quello di una società di cui sovvertire regole e gerarchie. Ma questa nostalgia del trascendente si perde e si brucia tutta subito, nell’immanente: nel “qui e ora” della risata, nel suo scoppio fragoroso e gratuito.
Ecco, forse l’ansia e l’angoscia segreta dei censori è questa: fare in modo che la risata non dilaghi, non diventi contagiosa – come in quelle epidemie di fou rire idiota e insensato che ci colpivano quando eravamo adolescenti, e ci chiudevano in una piccola bolla fuori dal tempo e dallo spazio, irrecuperabili da diritti e doveri. come se non potessimo né volessimo più tornare indietro, dentro questa storia, dentro questa realtà.

Io sono soltanto una cosa, e nient’altro che quella: un clown. Questo mi mette a un livello superiore a qualsiasi uomo politico.
(Charlie Chaplin, “The Observer”, 17 giugno 1960)



 
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