ateatro 117.12
Travestimento, dialetto, classici e diversità. A confronto con “Scena Verticale”
Una conversazione con Saverio La Ruina
di Mariacristina Bertacca
 

Saverio La Ruina è il fondatore – accanto a Dario De Luca – della compagnia Scena Verticale di Castrovillari (CS), della quale è anche regista, drammaturgo e attore. La Ruina mi ha e rilasciato questa intervista il 27 ottobre 2007, presso il Teatro Santandrea di Pisa. Alcuni stralci di tale conversazione sono già apparsi in Mariacristina Bertacca, Si va in “Scena Verticale”, «Atti&Sipari», numero 2, aprile 2008, pp. 34-36.

Un elemento che mi sembra ricorrente nei vostri lavori è quello del travestimento. Nel monologo Dissonorata tu interpreti un personaggio femminile ma, ripercorrendo a ritroso i vostri spettacoli, già in Kitsch Hamlet la madre di Amleto è interpretata da un attore uomo (Rosario Mastrota), e de-viados tratta il tema della transessualità.
Tra l’altro il “travestirsi” è anche una caratteristica del teatro: portarlo sulla scena comporta un inevitabile sdoppiamento tra travestimento come elemento dello spettacolo (nel momento in cui un uomo si presenta sulla scena in abiti femminili, oppure nel momento in cui si parla di trans) e travestimento come peculiarità teatrale (dell’attore che entra nelle vesti del proprio personaggio); in entrambi i casi si assiste infatti ad un cambiamento di identità.


In de-viados il trans rivela proprio il passare entro un’altra identità. Per di più si è trattato di uno spettacolo in cui si è lavorato molto tra l’intimo e il momento pubblico, durante il quale il transessuale in qualche modo si vende: questo è un elemento di grande teatralità, perché il marciapiede diventa davvero la sua scena.
In Kitsch Hamlet si trattò di un travestimento diverso, così come per Dissonorata. Nel primo si ha questo personaggio femminile della madre, interpretato da un uomo. In realtà è stato un procedimento nel quale ci siamo trovati costretti, perché in effetti c’è stata una difficoltà oggettiva di mancanza di figure femminili, di attrici, che fossero disposte a fare questo percorso: molti giovani tra quelli che formavamo, soprattutto donne, erano stati ripresi dalle famiglie e reincanalati. Noi non abbiamo mai voluto forzare questo fenomeno più di tanto, per cui spesso ci siamo trovati obbligati ad interpretare anche ruoli femminili. Però in Kitsch Hamlet c’era anche un’altra spiegazione: la madre (come molte figure parentali, soprattutto nel Sud) è un soggetto che viene comunque spogliato di ogni femminilità e di ogni seduzione. L’unico elemento femminile materno è quello della morbosità, che si rivela attraverso la smania di nutrire e nutrire i figli, quasi servilmente. Proprio per questo abbiamo deciso che venisse interpretata da un uomo. Oltre al fatto che alcune donne di un’epoca passata e contadina, hanno volti non troppo dissimili dai tratti maschili: senza cura, senza trucco, e nei comportamenti non c’è grazia perché il lavoro è simile a quello dell’uomo. In generale sta di fatto che non riesci a pensare all’aspetto sessuale femminile in certe figure...
Il caso di Dissonorata ha uno scarto ulteriore, perché è un personaggio che non vuole essere en travesti. Ci sono anche alcuni elementi femminili: una vestaglietta senza colori sgargianti, umile, dimessa, sotto la quale stanno però un paio di pantaloni che potrebbero essere sia maschili sia femminili, con ciabatte da casa popolari, e questo è tutto. In Dissonorata io non rinuncio all’identità maschile. Verso la fine viene fuori una figura legata alla vita intima della protagonista, che si chiama Saverio come me: lì c’è un desiderio di aderire in prima persona al destino di questa donna, perché in fondo rappresenta, racchiude le donne della mia vita. Ci sono cose che riguardano la vita delle mie nonne, delle mie zie, delle loro amiche, e persino certi aspetti della formazione di mia madre. Si tratta proprio di un mondo che mi è caro: atteggiamenti, modi di pensare, destini, emozioni, pudori, riserbi, che appartengono alla mia memoria affettiva. Allo stesso tempo si narra una condizione femminile che, anche se è specifica, è molto simile a quella di altre donne, e ad esse si può estendere: siamo in un’epoca, quella passata, si tratta di un evento che si ambienta negli anni Sessanta, un periodo in cui la condizione della donna era questa, soprattutto in certi contesti contadini del Meridione. Ma un retaggio simile c’è ancora nel Sud, specie in paesi dell’entroterra: ci sono anche oggi eventi drammatici. Uno è successo proprio nel 2006, il primo giorno di lettura di questo lavoro: un ragazzo di Reggio Calabria ha sparato alla sorella perché era andata a convivere con un uomo a Messina.
Adesso poi, in una realtà così globalizzata, la tua vicina di casa può appartenere ad una famiglia musulmana, con certi comportamenti, riti, abitudini, un costume ben preciso, in stretto legame anche con la religione. Quindi con questi problemi del passato ti ci trovi ad avere a che fare tuttora. Per di più, siccome Pasqualina è vittima di una società maschilista e di una mentalità maschilista, quella del padre e dell’uomo di cui si innamora, io voglio essere tramite e dare voce a queste donne che mi appartengono: mi sembrava bello e anche doveroso.

In effetti una cosa che mi ha colpito è che si porti sulla scena una donna, una voce femminile insomma, attraverso un autore-attore maschile. Nel momento in cui tu come uomo dai voce ad una donna, sia come drammaturgia sia come performatività, mi pare che la denuncia divenga più “eclatante”: l’accusa portata avanti da un uomo, che indossa vesti femminili, in un certo senso può attirare maggiore attenzione, viste le posizioni perlopiù maschiliste del nostro sostrato socio-culturale, e ancora di più dell’ambiente in cui vive Pasqualina.

È comunque qualcosa che mi tocca, perché investe donne che mi riguardano. E infatti volutamente non abdico all’identità maschile. Questa intenzione di salvaguardare la mia identità l’ho avuta fin dall’inizio, però avevo paura di non sapere come fare fino in fondo questa cosa. Io non scompaio come uomo, e infatti non faccio niente di particolare, né nel travestimento né in una caratterizzazione grottesca, che tale diventerebbe se io facessi la donna.

Comunque la compresenza di abiti maschili e abiti femminili, penso che voglia estendere ancora di più la vicenda, senza limitarla alla sola sfera muliebre. Come se questo dramma investisse tutti: uomini e donne, vittime e carnefici.

Sì, anche questo. Anzi, forse riguarda più noi uomini, perché in qualche modo si fa fatica ad accettare l’emancipazione, e si tende a difendere sempre certe posizioni.

Mi sembra che in tanti lavori della compagnia ci sia questo desiderio di voler generalizzare le situazioni. Si parte da un contesto locale, come succede ad esempio in Kitsch Hamlet, e poi si estende la questione.

Tra l’altro Kitsch Hamlet è scritto e rappresentato in dialetto, anche se si tratta di un dialetto molto bastardo, un dialetto dei giovani, per cui ci sono tante parole italiane o mutuate dalla televisione, che permettono una buona comprensione. Molto meno il dialetto di Dissonorata, che è più arcaico, sebbene ci sia stata un’attenzione particolare, una certa cura: a livello di scrittura, ho cercato di creare i presupposti perché tutto si capisca. Tornando a Kitsch Hamlet, esiste anche una versione scritta in lingua: per il “Premio Ugo Betti”, siccome accettavano solo testi scritti in lingua italiana, ho fatto una traduzione molto estemporanea, cercando però di salvaguardare il sapore dialettale. Ad ogni modo c’è qualche difficoltà in meno. Qua ci sono dei giovani calabresi, sì, ma alla fine un po’ tutti i giovani di ogni parte del mondo, proprio a causa della televisione, del trend, hanno molte cose che li legano. Oggi certi fenomeni passano e diventano quasi linguaggio comune, gergo comune: questo è il problema del vuoto generazionale, spirituale, dei giovani. E quindi anche questo alla fine permetteva di avere un microcosmo calabrese, che però potesse far riflettere la vita.

Vi sono poi però delle questioni solo “meridionali”, come ad esempio i rapporti e gli attaccamenti morbosi nei confronti delle figure parentali.

In realtà, alla fine questo può essere anche un problema molto italiano, o ancora di più umano. Non a caso Freud è partito da lì. Ma effettivamente al Sud questa cosa è ancora più visibile, a volte raggiunge livelli veramente grotteschi. Nel Meridione c’è una certa esagerazione, che porta dunque all’uscita anche in campo artistico, letterario.

Un’altra cosa che mi ha colpito è la ripresa di alcuni grandi classici: Shakespeare (da cui sono stati tratti Hardore di Otello, Amleto ovvero Cara mammina, Kitsch Hamlet), Sofocle, Euripide, Hoffmansthal (ripresi tutti e tre con Elettra).

In effetti certe cose, pensate attraverso il classico, riescono a far emergere in modo più forte questa sottocultura meridionale, nella quale siamo invischiati; e permettono di far emergere una società, quella del Sud e in particolare della Calabria, che è traballante, anche da un punto di vista strettamente architettonico, fisico. Per cui in Hardore di Otello si ha tanta acqua (la Calabria in fondo è un’Isola mancata), che in qualche modo ci aiutava a fare un discorso su una società che “fa acqua da tutte le parti”: letteralmente si portava in scena un appartamento allagato, dove abita questo Otello addolorato per la morte di Desdemona (si parte dalla fine dell’Otello shakespeariano).
Amleto ovvero Cara mammina è legato al rapporto del figlio con la madre, al fatto estremo, come già nell’Amleto shakespeariano in cui la madre si lega allo zio dopo aver ucciso il padre. E quindi riducendo all’osso questo rapporto figlio-madre, essendo Amleto una figura insicura, una figura emblematica, viene portato in scena un cerchio bianco, perché ogni giorno il personaggio rivive, come in un rituale, tutto quello che faceva con la madre, per tenere in vita la presenza della mamma anche nell’immaginario. In questo modo perpetrava circolarmente.
In Kitsch Hamlet addirittura Amleto è chiuso dietro la porta, ma in realtà tutto il centro motore sta in questa sua assenza, che crea invidie e gelosie, perché la madre lo cura, perché la madre parla sempre di lui, e questo fatto, questa assenza fa montare tensione. E in un universo così banale, una figura di grande pensiero sta dietro la porta, al di fuori di quel pezzo di mondo. In generale, nella grande opera shakespeariana, anche le dramatis personae negative sono di grande spessore: persino un personaggio come Claudio dell’Amleto ha poi un momento di pentimento e lucidità, cosicché vedi che c’è uno spessore tragico anche nei personaggi negativi, in contrasto con la banalità di questi ragazzi, di questo vuoto in cui vivono. Alla fine Kitsch Hamlet è estremamente divertente, perché il negativo spesso è talmente cialtrone che si presenta in modo anche più spiritoso. Questi personaggi incredibili che vediamo nei reality sono assolutamente deprecabili, eppure ne facciamo degli eroi, e così questi ragazzi risultano simpatici, il pubblico si affeziona a loro perché comunque sono divertenti. Il problema invece è che bisogna prendere posizione. Ma in Kitsch Hamlet è l’accumulo di banalità che dà “valore poetico” al lavoro.

In effetti vista da lontano la situazione fa ridere, perché ci distanziamo da essa, è come se non facesse parte di noi, mentre in realtà ci viviamo nel mezzo.

Infatti da fuori puoi dire: «Vabbe’, in fondo sono divertenti». Però nella realtà una persona così ti crea esplosioni nel sociale. Fa ridere sul momento, però se non prendi le distanze e non prendi posizione, alla fine gli dai diritto di esistenza.

Un altro punto importante, che in parte è già emerso è l’uso del dialetto. È bello riportare in teatro il dialetto e rendere più viva la scena. I dialetti meridionali poi hanno grande musicalità e sono portatori di emozioni. Però d’altro canto si tratta di una scelta difficile, perché il dialetto in quanto tale può non essere comprensibile e immediatamente accessibile a tutti. E la scelta è ancora più ardua quando si tratta di un monologo di denuncia (come nel caso di Dissonorata), in cui la comprensione delle parole è molto importante. Dunque come ci si pone nel momento in cui si decide di usare il dialetto: su cosa si gioca per permettere a tutti di avere, se non altro, una comprensione generale?

Il dialetto in effetti ha una marcia in più, perché riesce a veicolare sentimenti ed emozioni più forti rispetto alla lingua italiana. Ed è portatore in parte di squarci antropologici. E poi se posso incidere così direttamente, perché sfruttare la mediazione della lingua italiana? Ne faccio a meno. In uno spettacolo come Kitsch Hamlet hai un tipo di scena talmente precisa, riferimenti e situazioni chiari, che non c’è nessun problema che ci possa essere qualche fraintendimento. In Dissonorata in effetti può esserci più pericolo, ma anche in questo caso è necessario l’uso del dialetto, perché lei – Pasqualina – è una donna contadina, che non ha studiato, che parla la lingua della terra, e quindi c’è l’esigenza di farla parlare nella sua lingua.
Quanto alla comprensione di Dissonorata, se uno spettatore si chiude fin dall’inizio al dialetto, e il pregiudizio ti chiude, non capisci veramente niente. Se invece confidi, ti lasci andare, alcune cose magari continui a non capirle (ci sono certe espressioni che non le capiscono neanche in Calabria), ma il resto sì, e hai così una comprensione generale. E anche quando non capisci, il dialetto può comunque raccontare l’essenza di quella persona. Perché poi c’è una costruzione che non è casuale, bensì ritmico-musicale, per quanto mi sia riuscito di dargli anche una struttura ritmico-musicale, che in parte riconoscevo dentro l’oralità di queste donne; e infine c’è l’elemento della ripetizione. È una donna che ha nel suo modo di parlare il ripetere, il ripetersi, e dà più volte informazioni, termini, dando l’opportunità di una maggiore comprensione.

Nel teatro contemporaneo c’è molto uso del dialetto, penso a Enzo Moscato, Emma Dante, Davide Enia, Spiro Scimone, Vincenzo Pirrotta...

Con Emma Dante hai delle situazioni forti, dei corpi. Pure lei – Pasqualina – ha una sua fisicità, ma non c’è il lavoro sul corpo che, anche laddove non si capisce la parola, esprime qualcosa con le danze dei corpi: questo è il teatro di Emma Dante. Essendo questo un monologo ti pone una difficoltà in più.

Un altro elemento che mi sembra preponderante è quello della diversità, soprattutto il cercare di dare voce ai più deboli: donne, transessuali... Si parla di diversità sessuale (le donne o i trans), ma anche mentale, come quella della pazzia di Ofelia in Kitsch Hamlet. È come se ci fosse un reale bisogno di dare una voce che li sostenga. Portarli in scena è come riabilitarli, toglierli dall’emarginazione nella quale sono confinati.

Sì, infatti. Fino ad un certo punto si tratta di una scelta quasi più a posteriori. Poi ad un certo punto comincia la consapevolezza. Anche in Dissonorata c’è proprio il desiderio di dare una voce a Pasqualina, un linguaggio suo. Il linguaggio di questa donna diventa anche poeticamente interessante, per quel tanto che riesce ad esserla. E qua c’è anche la soddisfazione di essere riuscito a dare una lingua ad una figura emarginata, umile, povera, di darle una dignità linguistica. E in effetti questo è un mondo che mi richiama sempre più, un mondo al quale dare voce. Mi piacerebbe anzi portare avanti una riflessione più approfondita su questo, perché alcune scelte sono state inconsce, inconsapevoli. Ci sono autori che hanno già dato voce a personaggi umili, poveri, emarginati. Ma nel mio caso si tratta di dare voce a chi ha difficoltà anche con la parola, sebbene Pasqualina abbia una sua bella vitalità, un suo bel candore.


 
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