ateatro 115.20 Il teatro nell'era della globalizzazone? Anteprima da Mimma Gallina, Organizzare teatro a livello internazionale, Franco Angeli, Milano, 2008 di Oliviero Ponte di Pino
E’ in libreria il nuovo libro di Mimma Gallina, Organizzare teatro a livello internazionale. Linguaggi, politiche, pratiche, tecniche (Franco Angeli, Milano, 2008, 320 pp., euro 26,00, realizzato in collaborazione il Politecnico della Cultura delle Arti delle Lingue), con contributi di Fanny Bouquerel, Giovanna Crisafulli, Andrea Pignatti, Oliviero Ponte di Pino e Alessandra Vinanti.
Il voume verrà presentato venerdì 22 febbraio, ore 18.00, alla Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano alla presenza degli autori.
In anteprima per il lettori di ateatro, un estratto del capitolo iniziale di Oliviero Ponte di Pino.
La città e il carrozzone
Il teatro si muove da sempre tra due poli in apparenza inconciliabili e tuttavia entrambi indispensabili.
Da un lato il teatro è espressione di una comunità, è un’arte civile che presuppone un radicamento nella collettività che è insieme il suo committente e il suo destinatario. Il teatro è dunque un motore di identità, un’occasione attraverso la quale una società si mette in scena, nelle sue varie articolazioni: con la sua cultura, con il suo immaginario, con le sue strutture sociali, con i suoi rapporti di potere, ma anche con le proprie contraddizioni e conflitti.
D’altro canto, fin dai tempi del mitico carro di Tespi il lavoro dell’attore è legato al viaggio. Gli istrioni che nelle piazze, nei mercati e nelle fiere “trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere” (così li definisce il Penitenziale di Tommaso di Cobham, arcivescovo di Canterbury, alla fine del XIII secolo) sono giramondo che fanno parte di una sorta di società parallela, e forse di una fragile utopia. Anche perché spesso la città li emargina, ritenendo i guitti moralmente e politicamente sospetti. Il teatro è dunque incontro con l’altro e con il diverso, è esso stesso esperienza di diversità per attori e pubblico, e diventa dunque momento di scambio e di conoscenza.
La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come una drammatica condizione storica e che il suo tema inquieti i governi e i singoli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che ci divide dagli altri in un velo ricamato, affascinante, attraverso il quale gli altri possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. (...) Per un immigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il teatro è divenuto lo strumento per cercare l’incontro e lo scambio, per superare l’indifferenza reciproca. E’ una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resistere all’omologazione e costruisce ponti.
(Eugenio Barba, discorso in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Plymouth il 27 ottobre 2005)
Paiono così contrapporsi e intrecciarsi un’ideologia urbana che dà al teatro una forte impronta politica, e una mitologia nomade, che sottolinea invece la valenza antropologica dell’incontro teatrale.
Stabili e scavalcamontagne
Ogni spettacolo teatrale nasce all’interno di un contesto che ha determinate connotazioni sociali e politiche, una tradizione culturale ed estetica, e dunque un preciso linguaggio. In questo contesto ha anche, naturalmente, il proprio pubblico, in grado di cogliere e decodificare i segni e i messaggi, le emozioni e le idee che quello spettacolo vuole trasmettere: e naturalmente quel pubblico può reagire con il rifiuto e con lo scandalo, perché il teatro può anche essere provocazione (e anche perché spesso, come recita l’adagio, nemo propheta in patria).
Dopo di che, uno spettacolo, o meglio una compagnia, può viaggiare, al di fuori del contesto in cui è nato e cresciuto. E’ inutile sottolineare l’importanza di questi vagabondaggi. L’esempio canonico riguarda gli attori italiani che nel Cinque e Seicento portarono la Commedia dell’Arte in tutto il continente e, si può dire, crearono il teatro europeo, soprattutto per la straordinaria fortuna che ebbero a Parigi.
Prima di varcare le Alpi in cerca di fortuna, le nostre compagnie di “scavalcamontagne” erano già abituate a viaggiare lungo la penisola, e gli attori italiani continuano a farlo ancor oggi, molto più dei loro colleghi. In questo il teatro italiano è assai particolare, proprio nella sua predisposizione al nomadismo. Anche perché dal punto di vista dello spettacolo il nostro paese non ha mai avuto (e non ha ancora oggi) una capitale. O meglio, ne ha avute tante, di ricchissima tradizione: da Firenze a Ferrara, da Mantova a Venezia, da Napoli a Milano. Nessuna di queste città era però in grado di garantire le lunghe teniture che permettono la sopravvivenza di una compagnia stabile: più precisamente, per una troupe era più redditizio e meno rischioso cambiare città e rinnovare il pubblico. Ancora oggi a Milano e Roma uno spettacolo di richiamo si replica per tre o quattro settimane al massimo, e nelle altre città italiane le permanenze sono molto più brevi. Ogni compagnia tende dunque a produrre un nuovo allestimento all’anno (o addirittura ogni due anni), da far girare nel corso della stagione nelle diverse piazze.
In questo il nostro paese è molto diverso dalla Francia o dall’Inghilterra, dove l’attività teatrale tendeva (e tende) a concentrarsi nella capitale; le tournée in giro per il paese avevano una importanza relativa e l’attività teatrale fuori dalla capitale era ridotta (anche se negli ultimi decenni sono stati fatti seri tentativi di decentramento, soprattutto in Francia). Metropoli come Parigi e Londra, con il loro grande bacino di utenti, consentono oggi agli spettacoli di maggior successo teniture di mesi – o addirittura di anni, come nel caso dei musical, che richiedono enormi investimenti produttivi che si possono ammortizzare solo su tempi lunghi.
Il modello italiano è altresì molto diverso da quello tedesco, dove i teatri erano invece legati originariamente alle diverse corti principesche e ducali, e sono poi diventati teatri municipali caratterizzati da una forte stabilità. Tipicamente in Germania la compagnia della città tiene in repertorio un numero di nuovi allestimenti (anche sei-otto) e di riprese sufficiente a coprire (quasi) tutta la stagione. La compagnia e l’istituzione sono dunque strutturate per rispondere a queste esigenze.
Il problema della lingua: grammelot e sopratitoli
La collettività cui fa riferimento una compagnia può dunque avere orizzonti assai diversi: una piccola città di provincia oppure la metropoli dove hanno sede i centri del potere, o addirittura un’intera nazione dove è necessario trovare le sollecitazioni più adatte per ogni piazza.
Vi è tuttavia un orizzonte cui deve far riferimento ogni compagnia teatrale, ed è quello della sua comunità linguistica.
Quello della lingua in teatro è un confine difficile da superare. E’ chiaro che lo spettacolo non è solo il testo drammatico: è anche mimica e gestualità, suono e spazio, luce e movimento. In tradizioni teatrali dove la lingua e la recitazione sono state maggiormente codificate (basti pensare all’Inghilterra da Shakespeare in poi, o alla Francia da Corneille e Racine alla Comédie Française), la voce e la dizione hanno un peso determinante; gli attori italiani sono invece apprezzati da sempre soprattutto per la loro capacità di “recitare con il corpo”, un’abilità che ha aiutato a superare la barriera della lingua e a ottenere straordinari successi all’estero: un recente clamoroso esempio è la fama planetaria di Roberto Benigni, con la sua fisicità esplosiva e liberatoria.
Un’altra antica abilità degli attori italiani, ripresa e rilanciata da Dario Fo, è il grammelot: “una serie di suoni senza senso apparente ma talmente onomatopeici e allusivi nelle cadenze e nelle inflessioni da lasciar intuire il senso del discorso” (Le commedie di Dario Fo, vol. II, p. 133), “un gioco onomatopeico di suoni, dove le parole effettive sono limitate al dieci per cento e tutte le altre sono sbrodolamenti apparentemente sconclusionati che, invece, arrivano a indicare il significato delle situazioni” (Il mestiere dell’attore, p. 67). Lo stesso Fo fa risalire l’invenzione del grammelot ai comici dell’arte che, ai tempi della Controriforma, utilizzavano questo trucco per sfuggire alla censura ecclesiastica e politica, attenta soprattutto ai testi e ai loro messaggi, e lo avrebbero poi usato per farsi capire all’estero.
Per limitare le difficoltà determinate per il pubblico dall’uso di una lingua straniera, si possono utilizzare altri accorgimenti. A partire da quello cui ricorre lo stesso Fo prima di esibirsi in un brano in grammelot: lo fa precedere da un breve prologo-didascalia in cui vengono sommariamente anticipati la situazione iniziale e lo sviluppo drammaturgico di quello che verrà poi recitato. E’ anche possibile distribuire agli spettatori una breve sinossi scritta che descriva la sequenza delle scene dello spettacolo. In alternativa, grazie alle moderne tecnologie, si possono predisporre una traduzione simultanea con cuffie (che però sovrasta la voce degli attori) o i sopratitoli proiettati su appositi schermi al di sopra o ai lati del boccascena. E naturalmente gli attori sanno da sempre che è molto più facile seguire uno spettacolo di cui si conosce già lo sviluppo, almeno a grandi linee, come nel caso dei grandi classici del teatro, dai tragici greci a Shakespeare.
Ma al di là di questi ausili, è risaputo che alcuni spettacoli “viaggiano” all’estero più facilmente di altri: sono quelli dove gli aspetti testuali hanno minore importanza, e dove invece viene enfatizzata la scrittura scenica, ovvero l’insieme di tutti gli elementi che concorrono all’evento spettacolare, “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione” (Giuseppe Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, p. 325). Sono così favoriti la danza e il mimo, e gli spettacoli musicali; ancora, le diverse forme di teatrodanza e il nouveau cirque. Ma anche l’avanguardia che – proprio lavorando sulla pratica della scrittura scenica – a partire dagli anni Sessanta e Settanta ha valorizzato il corpo e l’immagine, e poi ha usato sulla scena le nuove tecnologie.
Incontri sconvolgenti
Oggi, nell’era della mondializzazione, quando il destinatario di ogni nostro gesto o messaggio è (almeno potenzialmente) l’intero pianeta, diventa sempre più difficile trovare l’equilibrio tra globale e locale, tra la comunità in cui si è nati e cresciuti e un pubblico il cui gusto è plasmato da artisti e celebrities che invadono la mediasfera, tra la fedeltà alle proprie radici e la proiezione su una platea pressoché infinita. Nel “qui e ora” planetario della CNN e di internet, la città e il viaggio sembrano aver perso il loro senso. Dopo l’esplosione delle comunicazioni di massa, il teatro appare una forma d’arte e comunicazione pateticamente élitaria: qualunque mediocre trasmissione televisiva raggiunge un pubblico molto più vasto dello spettacolo di maggior successo. Tuttavia proprio questa diversa e più antica misura nel rapporto con lo spettatore può aiutarci a indicare una strada: quello che può dare il teatro non sono i grandi numeri, ma l’intensità della presenza e la profondità dell’esperienza.
E’ stata proprio l’intensità sconvolgente di alcune presenze a cambiare in più di un’occasione la storia del teatro. Anche qui gli esempi potrebbero essere numerosi, ma bastano due episodi chiave della storia del teatro del Novecento.
Le apparizioni moscovite di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini – che come molti altri grandi attori italiani, dai tempi degli Andreini “Comici Gelosi” e di Tristano Martinelli, straordinario Arlecchino nella Parigi di Maria de’ Medici, a quelli della Duse, vennero acclamati in tutta Europa – ebbero un effetto folgorante sui teatranti russi: proprio ammirando il Romeo di Rossi e l’Otello di Salvini e riflettendo sulla loro arte, Konstantin Stanislavskij diede un impulso decisivo a una riflessione destinata a fondare la regia e la recitazione moderni.
Qualche decennio più tardi, all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, Antonin Artaud assistette per la prima volta a uno spettacolo balinese: quell’incontro fece scattare un’altra scintilla destinata a rivoluzionare il teatro contemporaneo, fino ad approdare alle teorizzazioni del Teatro della Crudeltà. Probabilmente quello che Artaud vide (o credette di vedere) non corrisponde a quello che è effettivamente il teatro balinese, e oltretutto il contesto in cui venne presentato quello spettacolo appare oggi politicamente ambiguo: ma l’importante è che la visione di un teatro “altro” e sconosciuto ebbe l’impatto di una rivelazione.
Lo scambio tra culture e tradizioni diverse è un’esperienza che può arricchire entrambi. Chi viaggia, portando la propria arte in nuovi mondi e offrendosi a nuovi sguardi, può utilizzare questa esperienza per aggiungere altri colori alla propria tavolozza e alle proprie tecniche di promozione: già nel Cinquecento Tristano Martinelli seppe imporsi sulla difficile piazza di Parigi dopo una complessa riflessione su di sé e sulla maschera di Arlecchino, e grazie a un conseguente e adeguato marketing.
Per lo spettatore, la visione dell’altro, l’immersione in un universo inesplorato, può avere un impatto dirompente e destabilizzare il suo immaginario (anche se spesso le novità “esotiche” vengono progettate e diffuse proprio per confermare e lusingare i luoghi comuni più prevedibili).
Non è un caso, allora, che Faust e don Giovanni – probabilmente i due unici miti moderni, i soli eroi tragici che negli ultimi secoli siamo stati in grado di aggiungere alle ricchissime mitologie antiche e classiche – abbiano viaggiato a lungo tra diverse tradizioni.
Il dottor Johannes Faust, medico e negromante tedesco, amico di Lutero e Melantone, divenne figura leggendaria in Germania grazie a vari Volksbücher (come quello di Johann Spiess, pubblicato nel 1587) per approdare nel 1592, grazie a una traduzione anonima, in Inghilterra e diventare l’anno successivo protagonista del capolavoro di Christopher Marlowe; tornato in Germania attraverso gli spettacoli di burattini, venne ripreso da Goethe nel 1772 in una riflessione creativa che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Il seduttore di Siviglia (come ha raccontato magistralmente Giovanni Macchia in Vita, avventure e morte di Don Giovanni), partito nel 1630 dalla Spagna di Tirso de Molina, arriva attraverso le compagnie dei comici italiani dal Regno di Napoli fino alla Parigi di Molière e alla Vienna di Mozart.
La capacità di adattamento di Faust e don Giovanni è probabilmente la prova della loro forza archetipica. O forse, più precisamente, le loro figure si sono andate arricchendo e affinando proprio attraverso i viaggi e le peregrinazioni da una cultura all’altra, fino a diventare patrimonio condiviso.
La nascita del teatro moderno: dal grande attore alla regia
Fino a pochi decenni fa l’Italia era un paese piuttosto povero, e dunque poco attraente per chi avesse voluto far fortuna esibendosi al di qua delle Alpi. Inoltre, come abbiamo accennato, il nostro paese è portatore di una ricchissima tradizione teatrale, che affonda le radici da un lato in una realtà antropologica e sociale assai varia, articolata in mille particolarità e tradizioni linguistiche (in primo luogo i dialetti) e culturali (basti pensare alle maschere, a cominciare ovviamente da Arlecchino e Pulcinella); e questa tradizione ha saputo mantenere un filo diretto con la straordinaria fioritura culturale delle corti rinascimentali. Il nostro è dunque un teatro insieme colto e popolare, dove da sempre s’intrecciano alto e basso, la corte e le campagne: basti pensare al Ruzante, apprezzato nel contado padovano e nei palazzi veneziani.
La bilancia commerciale del settore teatrale per l’Italia è stata dunque per secoli tendenzialmente in attivo. Si è già accennato alle fortune straniere dei Comici dell’Arte e dei grandi attori dell’Ottocento e dei primi del Novecento, i quali potevano oltretutto contare sull’affettuosa attenzione delle comunità italiane residenti soprattutto in Argentina, Brasile e Stati Uniti.
La situazione cambia con l’imporsi della drammaturgia ottocentesca, nelle sue punte artisticamente più elevate, ma soprattutto con i copioni del teatro di boulevard, assai apprezzato dal pubblico borghese dell’epoca; e ancora di più con la rivoluzione teatrale novecentesca e con l’avvento della regia. Sulle nostre scene, mentre la tradizione del grande attore e quella del teatro dei ruoli a esso legato si avviano all’inevitabile tramonto, i nuovi modelli stranieri arrivano con un certo ritardo.
La cultura europea combatte feroci battaglie culturali a favore del naturalismo e dei nuovi autori. Alla svolta del secolo il giudizio su Henrik Ibsen diventa il discrimine tra modernizzatori e conservatori, così come era accaduto poco prima per il teatro musicale con Richard Wagner (che nel 1876 crea il primo e più longevo festival moderno, quello di Bayreuth). Mentre gli ultimi grandi attori italiani trionfano nelle loro tournée in tutto il mondo, sul terreno della drammaturgia l’Italia può mettere in campo il decadentismo di Gabriele D’Annunzio, con un certo successo soprattutto parigino: nel 1898 Sarah Bernhardt interpreta La città morta, qualche anno dopo Claude Débussy musica Le martyre de Saint Sébastien.
Ma all’inizio del Novecento il clima culturale sta cambiando. Il divismo trova nuovo sfogo nel cinema, il naturalismo del palcoscenico non può competere con la riproduzione della realtà sulla pellicola, l’illusionismo scenotecnico non può rivaleggiare con i trucchi di un Meliès. Ad attrarre verso le poltrone dei teatri il pubblico più sofisticato delle capitali culturali non è più l’ammirazione per il grande interprete, in grado di trasmettere potenti emozioni, quanto l’aggiornamento culturale sul quale si appoggiano la regia e la sua evoluzione. Ora gli spettacoli si muovono spesso in seguito a inviti, che sono il risultato delle scelte operate da intellettuali e funzionari chiamati a progettare e dirigere le diverse manifestazioni culturali, rivolgendosi direttamente alle compagnie oppure utilizzando le agenzie che le rappresentano all’estero. Il modello non è più quello della tournée organizzata e gestita da capocomici alla ricerca di facili guadagni. Se prima ad animare il mercato internazionale era tendenzialmente l’offerta di un impresario che investiva nel progettare la tournée e sperava di incontrare il favore del pubblico nei diversi paesi visitati dalla star straniera, ora a far muovere uno spettacolo è piuttosto la domanda di organizzatori che selezionano dalla scena internazionale le esperienze più interessanti da proporre nello scenario culturale del proprio paese.
Tra le due guerre in Italia – dove il teatro resta ancorato ai vecchi modi del capocomicato – a svolgere questo compito di aggiornamento culturale sono in particolare le rassegne legate a due grandi istituzioni culturali come il Maggio Musicale Fiorentino e la Biennale di Venezia. In queste lussuose vetrine, che per il regime fascista rappresentano insieme un fiore all’occhiello e uno stimolo alla modernizzazione della vita culturale nazionale, approdano alcuni maestri della regia: tra gli altri, nel 1933 alla prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino partecipano l’austriaco Max Reinhardt, che allestisce ai Giardini di Boboli con una compagnia d’attori italiani Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, il suo spettacolo-manifesto, destinato poco dopo a diventare un kolossal hollywoodiano; e Jacques Copeau, con La rappresentazione di Santa Uliva nel secondo chiostro di Santa Croce; il regista francese tornerà a Firenze nel 1935 per il Savonarola in piazza della Signoria e tre anni dopo per allestire un altro testo di Shakespeare, Come vi garba (ovvero As you like it), nel cortile del Bacchino.
La stagione dei festival
Le speranze e il fervore culturale che seguono la fine della Seconda guerra mondiale si concretizzano anche nei grandi festival con vocazione internazionale. Nel 1947 nascono il Festival di Avignone e quello di Edimburgo, nel 1948 quello di Aix-en-Provence. Viene rilanciato nel 1945 il Festival di Salisburgo, inaugurato da Felix Mottl nel 1887 e rilanciato da Max Reinhardt nel 1903. La Biennale di Venezia, nata nel 1895, riapre i battenti per la prosa nel 1947 e nel 1954 porta per la prima volta in Europa il teatro No. Nel 1958 il compositore Gian Carlo Menotti dà vita al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che pochi anni più tardi fornirà lo sfondo a uno dei grandi romanzi italiani del dopoguerra, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino.
Ogni estate, da decenni, Avignone e Edimburgo diventano vere e proprie “città-festival”, dove accanto alla rassegna ufficiale, ospitata nei teatri e negli spazi più prestigiosi, proliferano in tutti gli anfratti disponibili gli spettacoli indipendenti e autoprodotti: sono l’off di Avignone e il fringe di Edimburgo, che presentano centinaia di proposte, spesso al limite del dilettantismo; un feroce processo di selezione lancia autori, attori, gruppi, fenomeni e mode.
Per i festival internazionali l’età dell’oro sono probabilmente gli anni Settanta: l’esplosione creativa, iniziata nel decennio precedente con l’emergere della regia critica e dell’avanguardia del nuovo teatro, tocca il culmine. Le novità e le rivelazioni si susseguono, con personalità artistiche di straordinario livello che allestiscono spettacoli-capolavoro. Possono bastare due esempi: la Rassegna dei Teatri Stabili di Firenze, dove nel 1973 si ammirano tra l’altro le nuove messiscene di Ingmar Bergman (Sonata di fantasmi) e Peter Stein (Il principe di Homburg con Bruno Ganz), sancisce l’egemonia del teatro di regia; e la Biennale veneziana diretta nel 1975 da Luca Ronconi, diventato una star grazie al successo mondiale dell’Orlando furioso nel 1969, che chiama a raccolta l’avanguardia internazionale: nel giro di poche settimane in laguna è possibile scoprire i lavori – tra gli altri – di Eugenio Barba, Peter Brook, Jerzy Grotowski, Living Theatre, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, Memè Perlini, Giuliano Scabia, Andrei Serban, Robert Wilson, tutti all’apice della loro creatività. Quella Biennale è insieme una straordinaria vetrina e un grande laboratorio, così come lo era stato poco prima anni il Festival di Nancy creato da Jack Lang, che tra gli anni Sessanta e i Settanta aveva lanciato Jerzy Grotowski, il Bread and Puppett, Bob Wilson, Pina Bausch e Tadeusz Kantor.
A mettere in crisi quel tipo di manifestazione sono da un lato l’affievolirsi delle spinte innovative, dall’altro l’aumento dei costi da sostenere per far circolare le produzioni dei grandi teatri e dei nuovi maestri della scena. Se non vogliono diventare costosi musei, i festival devono dunque trovare motivazioni diverse e nuove formule.
Una prima soluzione consiste nel progettare delle rassegne di tendenza, in grado di identificare filoni emergenti o di portare all’attenzione di critica e pubblico nuove generazioni teatrali. Nel 1985 la Biennale Venezia diretta da Franco Quadri (dopo l’edizione del 1984 dedicata ai maestri Barba, Bausch, Castri, Serban, Wilson, quasi a ricollegarsi a quella ronconiana di un decennio prima, cui lo stesso Quadri aveva collaborato), presenta i gruppi del nuovo teatro italiano, facendo debuttare i lavori di Carrozzone-Magazzini, Giorgio Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, Santagata & Morganti, Marco Solari e Alessandra Vanzi, Andrea Taddei-Padiglione Italia e Teatro della Valdoca.
Nel decennio successivo Teatri 90, a cura di Antonio Calbi, presenta in tre successive edizioni una nuova onda di gruppi italiani, tra cui Motus, Fanny & Alexander, Masque, Teatro degli Artefatti.
Festival di tendenza (con alcune aperture internazionali) è quello di Santarcangelo, che da trent’anni esplora le frontiere del nuovo e ne consolida la tradizione. Rassegne come questa – così come il Kunsten Festival des Arts di Bruxelles – si sono assunte il compito di scoprire e valorizzare i talenti emergenti, e dunque attraggono critici e operatori stranieri, che fungono da talent scout in grado poi di far circolare i lavori più interessanti. Ma, anche in questo caso, la formula (o forse gli artefici-autori della manifestazione) dà periodicamente segni di stanchezza e impone costanti aggiornamenti.
Un’altra alternativa alle grandi e costose vetrine è rappresentata dalle rassegne tematiche. Le più antiche sono quelle dedicate al teatro classico, anche se in genere la loro apertura internazionale è scarsa. In Italia innanzitutto a Siracusa: la prima edizione del Ciclo di Spettacoli Classici risale addirittura al 1914. In Grecia (dopo una Elettra con Katina Paxinou nel 1938 a Epidauro), sia Atene sia Epidauro danno vita nel 1955 al loro Festival del Teatro Antico (rilanciando l’attività pionieristica di Eva Palmer-Sikelianos, che nel 1927 aveva allestito a Delfi il Prometeo accompagnato da un’esibizione di ginnasti).
Hanno grande tradizione anche le manifestazioni shakespeariane. La città natale, Stratford-upon-Avon, presenta da tempo spettacoli legati a Shakespeare: fin dal 1769, quando David Garrick organizza una prima rassegna (dove peraltro non è presente alcun testo shakespeariano); dalle rappresentazioni di Stratford nasce nel 1961 la Royal Shakespeare Company. A Stratford, nell’Ontario, Alec Guinness, protagonista di Riccardo III, inaugura nel 1953 uno dei più prestigiosi festival shakespeariani. Cinque anni più tardi, a Verona la prima edizione del Festival Shakespeariano si apre naturalmente con Romeo e Giulietta, tradotto da Salvatore Quasimodo e affidato alla regia di Renato Simoni e Giorgio Strehler. Ma sono sempre più numerose le “personali” dedicate a uno scrittore, magari in occasione di qualche anniversario (da Henrik Ibsen a Samuel Beckett, da Bertolt Brecht e Heiner Müller a Hans Christian Andersen), a un regista (per esempio Pina Bausch alla Biennale del 1984, o Eimunatas Nekrosius) o a una compagnia o a un gruppo (come l’Odin Teatret o la Socìetas Raffaello Sanzio), presentando tre-quattro spettacoli con contorno di incontri e seminari.
Un’altra formula interessante è quella adottata da Intercity, la rassegna creata a Sesto Fiorentino da Barbara Nativi, che dedica monograficamente ogni edizione a una diversa capitale teatrale internazionale.
Malgrado i segnali di crisi e le difficoltà a rinnovare formule spesso estenuate, festival e rassegne sono ormai entrati stabilmente nel panorama culturale, e anzi si moltiplicano, senza necessariamente coinvolgere le ospitalità internazionali che danno solitamente lustro a iniziative di questo genere, o concentrandosi su un nome di grande richiamo. Il format finisce per compenetrarsi alle “normali” stagioni dei teatri cittadini, che contano sull’appeal della formula per dare una struttura al loro progetto (e magari per attirare ulteriore pubblico), anche se non si tratta magari di un autentico festival ma solo di un intenso weekend, o di due o tre spettacoli accomunati da un qualche elemento comune.
Nessuno sa quanti siano esattamente i festival e le rassegne made in Italy, ma siamo certamente nell’ordine delle migliaia, anche se le manifestazioni di una qualche risonanza sono molto poche. E nessuno sa quanto possa costare questa “Festivalia” (il termine è un’invenzione di Ennio Flaiano), ma certamente il suo fatturato complessivo ammonta almeno a diverse decine di milioni di euro (in grandissima parte denaro pubblico).
Le difficoltà dei capostipiti sembrano solo aver liberato la fantasia dei più piccoli (e giovani): dunque rassegne monografiche o schieramenti di tendenza, omaggi a grandi uomini, generi o capolavori del passato e del presente, contaminazioni con altre discipline, media, perversioni, religioni... Con la possibilità, sempre più ambita, di uscire dai teatri (soprattutto d’estate) e tracimare in altri spazi, metropolitani o eccentrici: sferisteri e catacombe, carceri e conventi, mense e capannoni, stalle e stazioni...
Quella dei piccoli festival è una forma leggera, flessibile, inventiva, che permette a realtà agili e innovative di aggirare i vincoli di un sistema teatrale bloccato e bolso. Offre spazi di sperimentazione e ricerca, anche nel rapporto con il pubblico e con lo spazio (oltre che migliori possibilità di contrattazione con i funzionari degli enti locali). Sono molti i gruppi e le compagnie che in questi anni producono i loro lavori grazie al sostegno di festival e rassegne. Naturalmente questa allegra sarabanda finisce per essere piuttosto dispersiva, sia sul versante delle risorse sia su quello dell’attenzione.
L’altra strada è quella della cosiddetta “eventizzazione”, ovvero la creazione di spettacoli per qualche motivo eccezionali (a cominciare dai costi), e dunque in grado di catturare l’attenzione dei media (e dunque, si presume, del pubblico opportunamente informato e incuriosito). E’ una strada che hanno seguito e seguono diversi festival, oltre che molti enti pubblici e istituzioni culturali. Ha tuttavia diverse controindicazioni. In primo luogo il “grande evento” concentra le risorse su iniziative effimere che si consumano immediatamente, senza effetti strutturali. Molto spesso l’evento viene consumato anticipatamente dai media, a prescindere dall’effettiva qualità artistica e dal rapporto che costruisce con il pubblico. Inoltre l’eventizzazione (e in parte anche la festivalizzazione) sposta l’accento dalla dimensione “feriale”, civile e politica, del teatro, e insomma dalle stagioni “normali”, che hanno impatto più profondo sul tessuto culturale. Puntare su pochi eventi “straordinari” offre grande e rapida visibilità a chi lo promuove (politici e sponsor tra tutti), ma può anche servire a nascondere le lacune della normale attività.
Oltre i festival
Questi sono alcuni degli elementi che hanno portato a sviluppare nel corso degli ultimi decenni altre modalità di circolazione internazionale degli spettacoli e dei talenti, e che vanno oltre la semplice ospitalità di prestigio e gli scambi.
Capita sempre più spesso che un teatro scritturi un regista straniero per curare uno spettacolo: al di là della presenza del nome di richiamo in cartellone (sperando magari di incrementare gli abbonamenti, come capita alle squadre di calcio che ingaggiano un campione straniero), l’obbiettivo è spesso anche quello di rivitalizzare la situazione locale attraverso il confronto con un’esperienza inedita, e con un’altra tradizione artistica e produttiva. Sono inoltre sempre più diffuse le formule di coproduzione, che consentono a un teatro di presentare una compagnia straniera all’interno della propria stagione.
Da diversi decenni l’aspetto pedagogico – o meglio autopedagogico – ha assunto un ruolo centrale: dunque si sono moltiplicate residenze con stage, corsi e seminari (ora magari ribattezzati pomposamente master o masterclass), che possono portare alla creazione di uno spettacolo-saggio: esemplari in questo senso le attività degli statunitensi Living Theatre e Bread & Puppett, che dagli anni Settanta hanno iniziato al gesto teatrale generazioni di appassionati.
Sul fronte della pedagogia, va segnalata la formula dell’Ecole des Maîtres, il corso internazionale di perfezionamento teatrale ideato e diretto da Franco Quadri, che dal 1990 permette ai giovani teatranti di diversi paesi europei di seguire un percorso formativo con i grandi maestri della scena, spesso destinato a sfociare in spettacoli-saggio.
Spettacoli da esportazione: lo show globale e la grande tradizione
In questo scenario diventa più facile individuare i filoni che possono avere un mercato internazionale – magari dopo aver consultato sulle ultime edizioni del Patalogo (l’annuario del teatro edito da Ubulibri) la sezione dedicata ai festival, assai ricca di notizie.
Va premesso che molto difficilmente all’estero gira lo spettacolo medio, quello forse più tipico della produzione nazionale ma proprio per questo meno interessante per il pubblico straniero: anche perché spesso il prodotto medio finisce ormai per essere molto simile da un paese all’altro, e per di più con adattamenti ai gusti locali che ne diminuiscono ulteriormente l’attrattiva.
Paradossalmente, riescono a circolare più facilmente, anche se magari in condizioni avventurose e precarie, alcuni spettacoli “poveri” e dunque poco costosi, che appartengono a generi in grado di superare con maggiore facilità le barriere linguistiche: esempi tipici sono la clownerie e il teatro di strada, che godono di un ampio seguito nei paesi nordici. Ma anche il teatro per ragazzi può trovare occasioni di circuitazione.
Sul versante dell’intrattenimento, e dunque dell’immediato gradimento del botteghino (visto che difficilmente può contare sul sostegno pubblico), ha grande fortuna anche quello che possiamo definire “show globale”, una forma di spettacolo in grado di essere compresa e apprezzata dalle platee del mondo intero per la sua forza comunicativa ma anche per la facilità o la semplicità dei suoi codici espressivi: i musical di Broadway e del West End londinese, con le loro mirabolanti macchine spettacolari; gli show centrati sul tango e sul flamenco; il nouveau cirque, a partire da quello straordinario fenomeno planetario (e anche economico) che è il canadese Cirque du Soleil. Possono rientrare in questo filone anche esperienze nate ai margini della scena ufficiale o addirittura nell’avanguardia, come i Momix o le virtuosistiche percussioni di Stomp, il butoh giapponese o le ultime stagioni del gruppo catalano Fura dels Baus (magari sostenuto da qualche sponsor prestigioso).
Hanno qualche affinità con questa categoria anche le grande animazioni spettacolari che accompagnano le cerimonie di apertura e chiusura di grandi eventi internazionali come le Olimpiadi e le Expo, nel loro linguaggio semplificato, nelle loro simbologie elementari, nei loro effetti speciali.
Nel caso dei kolossal teatrali, l’elemento chiave è ovviamente l’incasso al botteghino che garantisce un prodotto che ha notevoli costi di allestimento, viaggi e soggiorno, cachet: sono dunque necessari (oltre a un’accorta programmazione finanziaria e logistica) un adeguato sostegno di marketing (perché il pubblico non può limitarsi ai frequentatori abituali del teatro) e sale molto capienti (compresi teatri tenda e palazzetti dello sport).
Hanno un’ampia circuitazione internazionale anche le punte qualitativamente più alte della produzione teatrale, a cominciare dai maggiori teatri nazionali: per l’Europa la Royal Shakespeare Company e il National Theatre britannici, oltre alla Comédie Française. Per l’Italia nel dopoguerra il ruolo di teatro nazionale – almeno all’estero – l’ha svolto il Piccolo Teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler: il suo Arlecchino servitore dei due padroni (1947), magistrale e vitalissima reinvenzione della Commedia dell’Arte, è stato a partire dal 1952 un infallibile biglietto da visita all’estero. Ma il magistero di Strehler, apprezzato dai critici di tutto il mondo, ha favorito l’esportazione di altri spettacoli del Piccolo Teatro (su testi di Brecht, Shakespeare, Goldoni, Pirandello), mentre lo stesso regista firmava importanti regie a Vienna e Parigi. Anche altri stabili hanno organizzato tournée, soprattutto il Teatro di Genova, il Teatro di Roma e lo Stabile di Torino.
Hanno un mercato internazionale anche i rappresentanti delle grandi scuole della tradizione orientale: dal No e dal Kabuki giapponese al Kathakhali e alle diverse forme del teatro e della danza indiani, dall’Opera di Pechino al teatro balinese. Spesso possono circolare anche altri generi di spettacolo considerati tipici, più o meno legati al folclore, con tour a volte finanziati direttamente dai governi dei paesi d’origine. In questi casi, la motivazione centrale è il valore culturale dello spettacolo, che però non è disgiunta dalla sua valenza politica: quello che viene fatto circolare è il patrimonio teatrale condiviso di una nazione, il suo fiore all’occhiello, o meglio l’immagine che essa vuole dare del proprio patrimonio. Anche il nostro paese negli ultimi anni ha sostenuto vetrine teatrali all’estero (soprattutto a New York e Parigi): non sono mancate accuse di sprechi e clientelismo, oltre che di casualità nelle scelte culturali.
La drammaturgia italiana all’estero
Nel dopoguerra la drammaturgia italiana è stata poco amata e valorizzata in patria dai registi e dalle avanguardie. In effetti le lamentele sulla mancanza di testi di qualità (o sul poco spazio che il nostro teatro ha riservato alla drammaturgia contemporanea) sono ricorrenti, ma è curioso notare che ben due dei Premi Nobel per la Letteratura italiani (su sei) sono soprattutto uomini di teatro: nel 1936 Luigi Pirandello, dopo l’impatto delle messinscene dei Sei personaggi di Pitöeff a Parigi nel 1923 e di Max Reinhardt a Berlino l’anno successivo; e nel 1997 Dario Fo.
Proprio Pirandello e Fo, con Eduardo De Filippo, sono nel dopoguerra tra gli autori italiani più tradotti e rappresentati nel mondo. L’autore-attore napoletano, già apprezzato per i suoi film, va spesso all’estero in tournée. E la sua Filumena Marturano trova interpreti straordinarie come Valentine Teisser, a Parigi negli anni Cinquanta; e Joan Plowright (che aveva già interpretato Sabato, domenica e lunedì nel 1973) a Londra nel 1977 e poi a Broadway, con la regia di Laurence Olivier.
I testi di Dario Fo cominciano a essere tradotti e rappresentati all’estero all’inizio degli anni Sessanta. Sono ormai centinaia le messinscene dei suoi testi i tutti i paesi del mondo, come documenta il suo sito: una notorietà che porta a una sua prima candidatura al Nobel nel 1975 (e a una collezione di lauree honoris causa). Negli anni Sessanta Dario Fo e Franca Rame iniziano anche a esibirsi in tournée all’estero (ma per ottenere il visto per gli Stati Uniti, non concesso per motivi politici, dovranno attendere il 1980).
Per il resto le messinscene di autori italiani contemporanei all’estero appaiono piuttosto casuali, e riflettono in questo le difficoltà della scrittura drammaturgica nel nostro paese (fatta salva la banale constatazione che le traduzioni sono più numerose nei paesi dove è egemone il teatro di parola, e che dunque hanno bisogno di molti testi da “consumare”).
Il fronte del nuovo
Un ulteriore filone della circuitazione internazionale – quello forse più stimolante – interessa invece le esperienze più innovative, portatrici di una poetica e di un’idea forte di teatro. Il pubblico che segue gli spettacoli internazionali (e soprattutto i frequentatori dei festival) è il più preparato e sofisticato, in grado dunque di apprezzare proprio questo genere di proposta. I nuovi linguaggi della scena incuriosiscono e offrono un’occasione di riflessione sulle necessità sociali e culturali che li ispirano.
Anche l’interesse per il nuovo a tutti i costi può presentare alcune controindicazioni. Ci sono “spettacoli da festival” che diventano oggetto di vere e proprie mode: non è raro vedere uno “spettacolo rivelazione”, magari sostenuto da una potente agenzia – spesso ormai in veste di co-produttore – che ne fa un must per i direttori di festival, girare nel corso di due o tre anni tutte le maggiori rassegne internazionali (anche in questo caso la consultazione della sezione Festival del Patalogo è assai istruttiva). Ed esistono “registi da festival”, particolarmente apprezzati dal pubblico anche per la loro capacità di provocazione: sotto certi aspetti, Rodrigo García ne potrebbe essere un esempio. Secondo il regista tedesco Peter Stein, il moltiplicarsi dei festival porta alla creazione di
spettacoli banalizzati e formattati, pensati per girare da un capo all’altro d’Europa; i festival teatrali in genere stanno diventando empori, mercati, e molti registi si specializzano in questi prodotti insipidi che piazzano poi un po’ dappertutto. Di fronte al fenomeno della globalizzazione, è indispensabile che il regista rispetti le caratteristiche di un luogo e di un pubblico.
(Peter Stein, “Le Monde”, 5 luglio 2001)
Su fronte del nuovo, il teatro italiano (insieme a quello di “piccoli paesi” come Belgio, Olanda o Slovenia, dove la scena giovanile è assai vivace) gode da tempo di una certa reputazione e ottiene successi sorprendenti. A partire dalla fine degli anni Settanta, Carlo Quartucci e Carla Tatò girano soprattutto nei paesi di lingua tedesca, mentre la Parigi del Féstival d’Automne apprezza Leo & Perla e soprattutto gli Shakespeare di Carmelo Bene, come testimoniano le pagine che il filosofo Gilles Deleuze ha dedicato al suo Riccardo III (che l’impatto sia duraturo, lo dimostra la retrospettiva dedicata a Bene dal Féstival d’Automne nel 2004).
Negli anni Ottanta, a incuriosire le platee internazionali sono il Carrozzone-Magazzini (la loro partecipazione al Theater der Welt di Colonia è testimoniata dal film di Rainer Werner Fassbinder Theater in Trance, 1981, mentre il loro Artaud debutta a Kassel nel 1987 nell’ambito di Dokumenta); e la Gaia Scienza (una tournée berlinese del gruppo ispirerà a Franco Cordelli il romanzo Pinkerton, 1986): da allora Giorgio Barberio Corsetti ha lavorato spesso all’estero, soprattutto in Portogallo (al Teatro Nacional S. Joao di Oporto) e in Francia (al Théâtre National de Strasbourg).
In tempi più recenti, tra i gruppi italiani più apprezzati all’estero, la compagnia di Pippo Delbono (che porta nel 2002 al Féstival d’Avignon una personale con Il silenzio, La guerra e Rabbia, e si esibisce oltre che in vari paesi europei anche in America del Sud e del Nord, Australia, Giappone); e la Socìetas Raffaello Sanzio: i suoi lavori sono presenti nei programmi di molti festival internazionali; in particolare il gruppo cesenate è protagonista al Festival d’Automne di Parigi nel 2000 e nel 2001 (dove la compagnia Scipione-Sframeli presenta in dittico Bar e La festa) e al Féstival d’Avignon nel 2002 e nel 2004, e l’anno successivo è al Féstival des Amériques di Montréal con Genesi. La Tragedia Endogonidia, il progetto più ambizioso e complesso della Socìetas Raffaello Sanzio, tocca nove città europee: oltre alle già citate Avignone e Parigi, Berlino, Bruxelles, Bergen, Roma, Strasburgo, Londra e Marsiglia, per concludersi a Cesena nell’ottobre 2004. Un metodo analogo – che prevede una sorta di feedback creativo tra committenza e artista – l’ha seguito in questi anni Pina Bausch, con spettacoli commissionati e ispirati da varie città, come Palermo (Palermo, Palermo, 1989), Roma (Dido), 1999), San Paolo (Aqua, 2001). Su scala più ridotta, il progetto West di Kinkaleri tocca nel 2004 diverse capitali, tra cui Parigi, Roma e Amsterdam.
Anche altri gruppi giovani trovano ottima accoglienza all’estero: Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino e Motus, che dopo diverse fortunate apparizioni internazionali, hanno l’opportunità di realizzare un loro importante spettacolo in Francia. L’ospite, liberamente ispirato a Teorema di Pier Paolo Pasolini, debutta nell’aprile 2004 a Rennes, dopo una lunga residenza per la parte conclusiva delle prove nella città francese, con Théâtre National de Bretagne come co-produttore.
Si stanno dunque aprendo spazi per forme di collaborazione innovative, dove ha grande ruolo anche la creatività degli organizzatori.
Le nuove internazionali del teatro
In generale, mentre si moltiplicano gli scambi e le occasioni di viaggio, sta probabilmente cambiando l’atteggiamento dei teatranti e del teatro di fronte al problema delle frontiere, delle lingue e delle culture: sono sempre più numerosi le compagnie o i progetti che raccolgono al loro interno artisti di diverse nazionalità. Progetti di questo genere sono facilitati dalla presenza di attori bilingui. Il fenomeno non è certo nuovo: basti pensare alla gloriosa parabola di Alexander Moissi (1879-1935), attore italo-albanese in grado di recitare in tedesco, italiano, francese, inglese, greco e spagnolo.
Parallelamente si moltiplicano le reti internazionali tra teatri. Tra queste ultime, la più nota è l’Unione dei Teatri d’Europa, che nasce nel 1990 da un’intuizione di Jack Lang e di Giorgio Strehler, uno dei rari uomini di teatro italiani con un’autentica proiezione internazionale, all’epoca direttore del parigino Théâtre de l’Odéon-Théâtre de l’Europe. Di fronte a una integrazione europea condotta quasi unicamente sulla base di criteri finanziari ed economici, il regista avverte la necessità di dare maggiore spessore culturale a questo processo, proprio partendo da una forma artistica tipicamente europea come il teatro.
È mia convinzione che fino a che una possibile unità europea non metterà l’evento culturale, il suo patrimonio di cultura e d’arte al primo posto della sua costruzione, essa sarà destinata al fallimento, anche se strutturalmente riuscisse in qualche modo a costituirsi.
La prima realtà in atto, concreta, che non ha bisogno di “soluzioni politiche” ma solo “pratiche” ed organizzative, è l’unitarietà della cultura europea. (...) In questo mondo della cultura e della creazione d’arte ha il teatro una ragione e una possibilità di esistere? Io penso che ha il dovere di esistere ed operare concretamente per una idea più alta dell’Europa, assai più alta di quella da noi oggi vissuta. (...)
Certo un “teatro europeo” esiste. Ogni Nazione del nostro continente possiede un suo sistema teatrale ed ogni sera i sipari si aprono si chiudono in innumerevoli città europee. L’organizzazione della teatralità in Europa ha molti caratteri comuni. Le preoccupazioni degli artefici dei differenti paesi sono molto simili e tutto questo mondo teatrale si articola sugli elementi eternamente costitutivi del Teatro. Ovunque attrici ed attori “recitano” testi di autori drammatici, ovunque spettatori assistono agli spettacoli che sono loro offerti, ovunque registi, scenografi, costumisti, musicisti e tecnici della scena compiono il medesimo mestiere.
E qui non parlo dei diversi livelli artistici su cui i vari avvenimenti teatrali si verificano. Né dei problemi stilistici che sono presenti nei singoli spettacoli. Direi che dal punto di vista del “fare teatro” l’Europa mostra una evidente unitarietà. Persino nella determinazione dei propri repertori. Esiste un ampio scambio di testi rappresentati nei teatri dell’Europa e a parte le esperienze più nazionali, appaiono evidenti anno per anno correnti di scelte comuni. Gli stessi autori, con gli stessi testi, vengono rappresentati in tutti i teatri europei in edizioni evidentemente diverse. E ciò vale anche per la riproposta di alcuni classici che compaiono sulle scene europee con maggiore frequenza. (...)
C’è una tradizione europea di scambi teatrali certamente straordinari che percorre tutte le nazioni europee tra il 1900 ed oggi e gli incontri dei pubblici stranieri con attori stranieri sono avvenuti con una certa continuità anche se si è trattato di “avvenimenti eccezionali”. (...)
È dal 1982 che si inizia una vera politica europea per il Teatro anche se realizzata in mezzo a mille assenze, indifferenze e difficoltà. Ciò che caratterizza questa nuova fase è innanzitutto la continuità non l’esibizione effimera di una o due sere in un certo teatro europeo da parte di un teatro europeo. Il numero di recite diventa consistente, fa parte di un piano di sviluppo, di una politica per un teatro europeo. L’eliminazione della traduzione simultanea è una delle conquiste di questa politica, né il permanere qua e là della stessa in certe occasioni, o quella ancora peggiore dei sottotitoli scritti per essere proiettati come talvolta ancora avviene, muta una situazione che sta evolvendosi continuamente. In sostanza si è arrivati a capire che l’avvenimento teatrale, quando è valido, poetico, soprattutto quando è chiaro, ben recitato, oltrepassa quella soglia linguistica pur fondamentale nel teatro. I folgoranti successi pubblici di decine e decine di spettacoli contemporanei in nazioni straniere, la loro permanenza nei programmi dei teatri nazionali, sembrano ormai essere una cosa normale e finiscono per essere parte di un nuovo costume. Un costume europeo appunto.
(Giorgio Strehler, Il teatro nella prospettiva di un’Europa Unita, novembre 1993)
L’Unione dei Teatri d’Europa (che nel frattempo si è allargata, accettando nuovi soci) favorisce la circolazione degli spettacoli, organizza ogni anno in una città diversa l’importante Festival dei Teatri d’Europa e sostiene il Premio Europa per il Teatro. Un’iniziativa del genere sposta l’accento sulla cooperazione e sulla creazione di reti tra teatri, anche se non va sottovalutato il rischio di “chiudere” la rete, fino a creare una sorta di club.
Si avvertono anche cambiamenti più profondi, che vanno alla radice stessa dell’esperienza teatrale – e addirittura della comunicazione umana.
Pionieristica è l’esperienza di Peter Brook e del suo Centre International de Recherches Théâtrales, fondato a Parigi nel 1970, con una compagnia di attori di tutto il mondo selezionati tra 150 candidati. Nel 1972 il regista e la sua compagnia partono per un lungo viaggio in Africa, recitando (e quasi sempre improvvisando) su un tappeto nelle piazze, nelle moschee, nei mercati, agli angoli delle strade.
I componenti del Centre vengono dal Giappone, dall’Africa, dalla Germania, dalla Francia, dall’America. Per un gruppo internazionale non può porsi il problema della parola. Quando delle persone che giungono da diverse parti del mondo si riuniscono, bisogna trovare un modo di relazione. Non si può lavorare veramente nel campo verbale senza dare la preferenza a una lingua piuttosto che a un’altra, e se si usa in prevalenza una certa lingua, si nota che certe persone non possono aprirsi con una lingua straniera. La forma del teatro fondata su una lingua è stata quindi totalmente eliminata (...) Cerchiamo ciò che anima una cultura. Piuttosto che prendere la forma culturale in sé, cerchiamo di scoprire ciò che la anima. E’ necessario che l’attore cerchi di uscire dalla sua cultura e, più in là, dai suoi stereotipi. Ogni istante della vita affibbia all’africano più intelligente e più docile una immagine di africano e al giapponese quella di giapponese; il fenomeno si riproduce anche all’interno di un gruppo in cui a ogni istante l’ammirazione dei compagni può per esempio rafforzare uno dei membri in una serie di ruoli. Il nostro primo impegno è dunque cercare di uscirne, non certo in nome della ricerca della neutralità, ma con una finalità assolutamente opposta. Spogliandosi dei tic etnici, il giapponese diventa più giapponese e l’africano più africano, e si raggiunge uno stadio in cui le forme sono più fissate: appare una situazione nuova, che permette a persone di origine differente un nuovo atto di creazione; possono creare insieme, e ciò che creano assume una colorazione diversa. (...) Nel microcosmo del nostro piccolo gruppo esiste una possibilità di contatto a un livello molto più profondo. (...) Si può arrivarci solo se coesistono alcune condizioni: una certa concentrazione, una certa sincerità, una certa creatività.
(da Lungo viaggio verso la percezione. Intervista con Peter Brook di Denis Bablet, in Peter Brook o il teatro necessario, a cura di Franco Quadri, Edizioni de La Biennale, Venezia, 1976)
Il risultato finora più alto di Brook e del suo CIRT è il Mahabharata (1987), kolossal teatrale della durata di nove ore (con la drammaturgia di Jean-Claude Carrière), in cui il grande poema epico indiano viene restituito alla vita da una troupe multinazionale di attori straordinari: il giapponese Yoshi Oida, il maliano Sotigui Kouyaté, l’inglese Bruce Myers, il francese Pierre Bénichou, il senegalese Mamadou Dioume, l’italiano Vittorio Mezzogiorno, il polacco Ryszrad Cieslak...
Un’altra esperienza chiave è quella dell’Odin Teatet di Eugenio Barba. Nel 1964 un giovane regista italiano emigrato in Scandinavia, reduce da un soggiorno a Opole, in Polonia, dove ha visto all’opera Jerzy Grotowski e il suo Teatr Laboratorium, e da un viaggio in India, fonda un gruppo teatrale con giovani aspiranti attori che arrivano da paesi (e da retroterra linguistici) diversi: norvegesi, danesi, svedesi... Due anni dopo l’Odin Teatret si trasferisce nella cittadina danese di Holstebro, che aveva offerto al gruppo una sede e un minimo sostegno economico. Entreranno via via a far parte del gruppo attori di altri paesi e continenti. Negli stessi anni, l’Odin si confronta con le diverse tradizioni teatrali dell’Oriente e dell’Occidente: a Holstebro arrivano Jerzy Grotowski, Etienne Decroux, Jacques Lecoq, Dario Fo, Jean-Louis Barrault, Joseph Chaikin, Judith Malina e Julian Beck, ma anche artisti giavanesi e balinesi (Sarno, I Made Pasek Tempo, I Made Djiamat), del teatro giapponese No, Kyogen, Kabuki e Singeki (Hisao e Hideo Kanze, Masnnojo Nomura, Sawamura Sojuro, Shuji Terayama) e le più importani forme classiche del teatrodanza dell’India: Kathak, Bharatanatyam, Odissi, Chhau e Kathakali. Da questo confronto, che è insieme pratico e teorico, nasce nel 1979 l’ISTA (International School for Theatre Anthropology), attraverso il quale Barba mette a punto i principi dell’antropologia teatrale, ovvero la ricerca degli elementi che differenziano l’atteggiamento quotidiano dalla presenza scenica.
L’antropologia teatrale studia il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione. Diversi attori, in luoghi e epoche diverse, fra i molti principi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese, si sono serviti anche di alcuni principi simili. Rintracciare questi “principi-che-ritornano” è il primo compito dell’antropologia teatrale. I “principi-che-ritornano” non sono prove dell’esistenza di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali; sono consigli particolarmente buoni, indicazioni che hanno una forte probabilità di risultare utili alla prassi teatrale. (...)
L’attore contemporaneo occidentale non ha un repertorio organico di consigli su cui appoggiarsi e orientarsi. Ha come punti di partenza, in genere, un testo o le indicazioni di un regista. Ma gli mancano quelle regole di azione che, pur non restringendo la sua libertà artistica, lo aiutino nel suo compito.
L’attore tradizionale d’Oriente, al contrario, si basa su un corpo organico e ben sperimentato di “consigli assoluti”, cioè delle regole d’arte che assomigliano alle leggi di un codice: codificano uno stile d’azione chiuso in se stesso e a cui tutti gli attori di quel genere debbono adeguarsi. (...)
Un teatro può aprirsi alle esperienze di altri teatri non per intrecciare maniere diverse di far spettacoli, ma per rintracciare principi simili in base ai quali trasmettere le proprie esperienze. In questo caso l’apertura al diverso non significherebbe necessariamente una caduta nel sincretismo e nella confusione delle lingue. Da una parte si eviterebbe il rischio dell’isolamento sterile, dall’altra quello di un’apertura a tutti i costi, che degenererebbe nella promiscuità.
(Eugenio Barba, Aldilà delle isole galleggianti, pp. 146-147)
A mettere in pratica questi principi, sotto la guida dello stesso Barba, è la compagnia Theatrum Mundi, che raccoglie attori provenienti dalle tradizioni asiatiche, africane ed euro-americane, gli attori dell’Odin e artisti della località dove si tiene la sessione dell’ISTA.
Nella scia di Brook e Barba, su una prospettiva multiculturale si muovono altre esperienze, secondo un’ampia gamma di possibilità, nell’ambito del continuo scambio tra Oriente e Occidente che ha caratterizzato la storia del teatro novecentesco.
L’operazione più semplice consiste ovviamente nell’allestire un testo della tradizione occidentale secondo uno stile “orientale”. Lo ha fatto per esempio Ariane Mnouchkine, quando ha immerso i testi di Shakespeare in atmosfere e suggestioni che rimandavano alle tradizioni orientali: nel Riccardo II (1984) e nella Notte dei re (Avignone, 1984) la messinscena riprendeva gli stilemi del teatro giapponese e indiano. Per certi versi affine è l’operazione condotta con Samritechak, “l’Otello khmer” chiamato da Peter Sellars alla Biennale Teatro 2005: in questo caso una compagnia orientale, l’Ensemble di Danza e Musica della Royal University of Fine Arts di Phnom Penh, ha portato in scena uno dei testi più noti della tradizione occidentale. In operazioni di questo genere, l’intreccio riguarda tre elementi: un testo (che fa parte della tradizione occidentale, o meglio del “canone” occidentale, visto che portano la firma autorevole di Shakespeare), una compagnia di attori addestrati all’interno di una tradizione (nel primo caso occidentale, nell’altro orientale) e uno “stile teatrale” più o meno ibrido (nel primo caso attori occidentali che usano tecniche espressive orientali, con tutte le inevitabili; nell’altro attori orientali che seguono la tradizione in cui si sono formati). Questa drastica semplificazione (esistono diverse tradizioni orientali, così come la tradizione occidentale è assai variegata, e da più di un secolo continuamente arricchita da contaminazioni e innesti) può essere utile per capire la ricchezza delle possibilità offerte dalla pratica di un teatro multiculturale.
Peter Brook ha raccolto al CIRT attori con origine e formazione molto diverse, senza certamente costringerli ad abbandonare il loro imprinting, anzi, ma cercando un punto d’incontro semplicemente umano, all’interno di una cornice teatrale essenziale e quasi originaria, adatta a rappresentare testi presi da tradizioni assai diverse, da Shakespeare a Farid Attar, dal Mahabharata ad Athol Fugard. Affine era, per certi versi, l’impostazione di Jerzy Grotowski, che nel Teatro delle Fonti cercava di riattivare una dimensione originaria dell’esperienza umana di cui restano tracce in varie tecniche e tradizioni, dallo yoga indiano al voodoo haitiano, ma cercando elementi utili anche nella ginnastica occidentale, che fu alla base di alcuni esercizi del training del Teatr Laboratorium, e nelle sperimentazioni teatrali di Stanislavskij con gli attori.
In altri casi, si può cercare invece un punto di contatto specifico tra due universi culturali lontani: un esempio è la ricerca delle Albe sulle affinità tra i griot senegalesi e i fûler romagnoli, due figure di attore-autore-narratore presenti nelle due tradizioni, che è diventato il tema di uno spettacolo, Ruh. Romagna + Africa =. Su questi fondamenti Marco Martinelli, il regista del gruppo ravennate (che ha inglobato diversi immigrati, formando una compagnia multietnica), nell’allestire il testo goldoniano I 22 infortuni di Mor Arlecchino (1993) ha scelto di affidare la parte di Arlecchino a un attore africano.
Il Theatrum Mundi – un’etichetta barocca, che però tradotta in inglese rimanda anche a World Music, genere ugualmente contaminato e ibrido – diretto da Eugenio Barba si muove in una prospettiva diversa. Nell’Ur-Hamlet (2006) il regista non chiede ai suoi attori di rinunciare al peso della loro tradizione, o di alleggerirlo. Anzi, li prende così come sono: con i loro costumi colorati, la gestualità stilizzata e formalizzata, la vocalità addestrata per decenni, addirittura con le maschere... La scommessa – l’utopia – è che questi diversi colori e tonalità possano convivere e interagire sulla scena, arricchendosi a vicenda. Il regista ha il compito di montare (con adattamenti minimi) i diversi spezzoni all’interno del suo progetto, facendo interagire attori con storie e formazioni assai lontane tra loro (un postulato implicito, anche se non strettamente indispensabile, è quello su cui è fondata l’antropologia teatrale di Barba: cioè il fatto che nelle diverse tradizioni l’attore si faccia carico di un surplus di energia).
Queste forme di spettacolo “multitradizionale” si stanno già affermando, anche se magari non sono sorrette dalla consapevolezza anticipatrice di un Brook o di un Barba: basta guardare il programma della Notte Bianca romana 2007 per capire che già sono un ingrediente indispensabile per una manifestazione popolare – o addirittura di massa – in una metrpoli multietnica. Ma in questi incontri, quale potrà e dovrà essere il ruolo affidato alle singole culture? Gli stili recitativi verranno utilizzati da un regista-arrangiatore solo come i colori sulla tavolozza di un pittore, in base alla loro efficacia e funzionalità? Oppure ciascuna di quelle diverse tradizioni porta in sé qualche valore specifico, che può arricchire lo spettacolo di significati? In questa composizione, che ruolo può avere l’Occidente, nelle sue varie articolazioni, a cominciare dall’istituzione stessa della regia come principio regolatore e garante del senso complessivo dello spettacolo?
Così il cerchio si chiude e nello stesso momento si riapre. Un’esperienza locale ed élitaria come il teatro affronta alcune delle problematiche più complesse del villaggio globale, quelle dell’incontro tra le diverse culture, partendo dalla loro intima essenza. E’ un compito difficile e ambizioso, e che tuttavia risponde alla natura profonda del teatro, alla sua funzione più alta.
NOTA
Una bibliografia sui temi affrontati da questo capitolo, così radicati nella vita materiale del teatro e insieme nella sua natura più profonda e inafferrabile, potrebbe ridursi a ben poca cosa: si tratta di un campo di studi esplorato solo episodicamente, e non nella sua organicità e problematicità; oppure rischierebbe di diventare fin troppo ampia e di scarsa utilità, se avesse l’ambizione di coprire le esperienze di cui danno ampio conto le memorie e le testimonianze di attori, capocomici, studiosi e teorici del teatro.
Ci limiteremo quindi a suggerire alcune letture, che possono aiutare a mettere a fuoco temi e problemi ci abbiamo solo accennato.
Abbiamo già consigliato la consultazione del Patalogo, l’annuario del teatro curato da Franco Quadri e pubblicato dalla Ubulibri a partire dal 1979: la panoramica dedicata ogni anno ai festival in Italia e nel mondo offre moltissime informazioni sugli spettacoli che hanno girato sulle scene internazionali negli ultimi trent’anni (si privilegia il teatro, ma non mancano accenni al teatrodanza e alla danza). Ai maestri della scena mondiale sono dedicati, nei vari numeri del Patalogo, diversi saggi, che da un lato finiscono per comporre vere e proprie monografie sui singoli artisti o compagnie, e dall’altro permettono di individuare tendenze e linee di ricerca. In rete, util informazioni si posono trovare su www.ateatro.it.
Alcuni testi sulla scrittura scenica sono ora raccolti in Giuseppe Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, Bulzoni, Roma, 2007.
Dario Fo ha raccontato del grammelot nel Manuale minimo dell'attore, Torino, Einaudi, 1987, e nel Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione con Luigi Allegri, Laterza, Roma-Bari, 1990; molte tracce se ne trovano nel suo Teatro, pubblicato da Einaudi.
Per comprendere il successo delle compagnie italiane all’estero a partire dal Cinquecento, resta utilissimo di Ferdinando Taviani e Mirella Schino Il segreto della commedia dell’arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, La casa Usher, Firenze, 1982. Nella nota di Ferdinando Taviani alla quarta edizione del 2007 (che aggiorna anche la bibliografia), si legge:
Gli spettacoli prodotti per esser venduti hanno forti elementi comuni nei diversi paesi d’Europa, che non vengono sufficientemente valutati quando li si vede come particolarità di aree culturali, linguistiche, nazionali invece che come particolarità di categoria. Per esempio: il polilinguismo (lo spettacolo della lingua attraverso l’esposizione delle diversità); la pratica dell’improvvisazione; la presenza quasi senza eccezioni del comico accanto alle vicende serie, sentimentali o tragiche; e soprattutto un modo di costruire l’azione drammatica attraverso l’intreccio di più linee o più trame, che da un lato si intersecano, e dall’altro stanno fra loro in una delle relazioni previste in musica dalla pratica del contrappunto (speculari su diversi registri, a contrasto, in relazione retrograda). E’ un modo completamente diverso di pensare la drammaturgia rispetto al modo che si praticava nelle accademie e nelle corti, diverso anche dal modo in cui si visualizzavano le storie negli spettacoli religiosi o festivi. (p. 495)
Sulle strategie dei comici italiani a Parigi, vedi anche Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Laterza, Roma-Bari, 2006; e Delia Gambelli, Arlecchino a Parigi. Dall’Inferno alla corte del Re Sole, 2 voll., Bulzoni, Roma, 1993.
Sui viaggi di Don Giovanni, vedi Giovanni Macchia, Vita avvenutra e morte di Don Giovanni, Adelphi, Milano, 1991 (prima ed. Laterza, Roma-Bari, 1966), integrato da Silvia Carandini e Luciano Mariti, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro, Bulzoni, Roma, 2003.
Per quanto riguarda Giorgio Strehler e il Théâtre de l’Europe, si possono consultare il sito www.strehler.org, su cui è pubblicato il testo che abbiamo citato (datato 30 novembre 1993); e poi Giorgio Strehler o la passione teatrale. L’opera di un maestro raccontata da lui stesso al III Premio Europa per il Teatro a Taormina Arte, a cura di Renzo Tian con Alessandro Martinez, Ubulibri, Milano, 1998; e la collezione della rivista “TE théâtre en europe”, diretta dallo stesso Strehler e pubblicata negli anni Ottanta e Novanta prima in Francia e poi in Italia.
Un tentativo di affrontare i problemi del teatro su scala continentale è testimoniato dai cinque Forum du théatre européen, tenuti a Saint-Étienne tra il 1996 e il 2001; gli atti sono raccolti in cinque volumi pubblicati da Actes Sud (in francese).
Sui rapporti tra Oriente e Occidente, ricchissimo di documenti e materiali, ma anche di notizie ed esperienze curiose, è il monumentale saggio di Nicola Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1992 (e vedi anche il suo Il teatro Eurasiano, Laterza, Roma-Bari 2002).
Sull’antropologia teatrale e sul lavoro dell’ISTA, oltre ai numerosi saggi di Eugenio Barba, resta illuminante quella che è quasi una enciclopedia (o una contro-enciclopedia) del teatro mondiale: L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Ubulibri, Milano, 2005 (che sviluppa i precedenti L’arte segreta dell’attore. Dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce, 1996; e Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, La casa Usher, Firenze, 1983).
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