ateatro 115.17 L'isola della pedagogia teatrale Methodica. Festival internazionale di metodi di training teatrale a Venezia di Fernando Marchiori
“Solo su un’isoletta potremmo sperare di fare, lentamente, qualcosa di necessario per il teatro, per plasmare la coscienza teatrale”. L’amara constatazione di Anatolij Vassiliev risuona in una sala gremita di giovani attori e addetti ai lavori in riverente silenzio, si sdoppia nelle voci delle interpreti che in simultanea traducono in inglese e in italiano, ritorna tra le rughe del maestro russo dal volto di jurodivij, uno di quei “santi folli” cari a Tarkowski e a Grotowski. Sembra una risposta alla provocazione lanciata da Jurij Alschitz pochi minuti prima: chiudere tutte le scuole di teatro, smetterla di alimentare illusioni ed errori, e provare a costruirne una sola, basata sul confronto e sulla trasmissione di tecniche diverse per affrontare le questioni che il fare teatro pone a tutti, ovunque. Ma l’immagine evocata da Vassiliev sembra anche suggellare l’itinerario di questa quarta edizione di Methodika, il Festival internazionale di metodi di training teatrale, svoltasi proprio in un’isola – la Giudecca a Venezia – e molto attenta agli aspetti dell’etica dell’attore e della responsabilità dei processi pedagogici.
Jurij Alschitz.
Il nuovo appuntamento di questa specie di scuola itinerante che si propone, oltre che di diffondere conoscenze tra i professionisti del settore, anche di aprire discussioni nelle realtà di insegnamento e nel teatro stesso, è stato ideato dall’European Association for Theatre Culture (che raccoglie una serie di centri teatrali internazionali a Berlino, Stoccolma, Oslo, Milano) e dall’Akt-Zent di Berlino, prodotto dalla Fondazione di Venezia con il patrocinio dell’International Theatre Institut (UNESCO).
Sette giorni (dal 5 all’11 novembre scorso) di workshop intensivi, incontri, spettacoli, dimostrazioni di lavoro, con allievi provenienti da sedici paesi e divisi in quattro gruppi paralleli affidati ad altrettanti maestri internazionalmente riconosciuti, quali Maria Horne, Adolf Shapiro, Rimas Tuminas e César Brie.
Quattro modi molto diversi di lavorare con gli attori, di confrontarsi con un testo, di costruire la scena, anche se, almeno per i primi tre, la matrice stanislavskiana è dichiarata e riconoscibile, come per lo stesso direttore Jurij Alschitz, proviene da un percorso che, attraverso Vassiliev e Malkovski, risale direttamente al fondatore del Teatro d’Arte di Mosca.
Ma Methodika non intende trasmettere un metodo, quanto piuttosto favorire un atteggiamento di ricerca e di apertura al teatro come esperienza, e insieme contribuire alla ricostruzione di un lessico e di una tradizione da condividere e da salvaguardare come prezioso giacimento di quelle conoscenze e competenze che per secoli hanno fatto vivere un’arte oggi profondamente in crisi e a rischio di scomparsa o di definitiva omologazione commerciale.
Per questo Alschitz non ha mai invitato due volte lo stesso maestro. Nella prima edizione, che si svolse a Milano nel 1999 sul tema del rapporto tra la personalità dell’attore e la dimensione dell’ensemble, c’erano Frantisek Veres, Felix Müller, Virgilio Sieni e Oleg Koudriachov. Nelle due sessioni svoltesi a Stoccolma fu la volta di AnneLise Gabold, Gregory Hlady, Gabriele Vacis e di Vassiliev (2001, “Energia e teatro”) e poi di Vladimir Klimenko, Claudio de Maglio, Abel Solares, Thanos Vovolis e Giorgos Zamboulakis (2003, “Il volto e la maschera dell’attore”).
Adolf Shapiro.
Nelle giornate veneziane allievi e maestri, artisti e intellettuali si sono invece confrontati sul tema del centauro, esplorando caratteri e tracce della “centauristica teatrale”. Un tema che, come ha sottolineato Adolf Shapiro nell’incontro inaugurale, ci riporta alle questioni fondamentali del teatro, delle sue possibilità, della sua stessa natura: “Porsi domande e cercare delle risposte è ciò che sostiene il nostro lavoro. Il teatro è una cosa strana: gli dedichi tutta la vita e insieme ti chiedi: ‘Di cosa mi sto occupando?’”
Al lavoro con i maestri di Methodika
Accoppiati e incrociati in modo da consentire ai partecipanti di assistere anche ai corsi cui non erano iscritti, i laboratori sono stati condotti dai singoli docenti a partire da un’indicazione testuale più o meno precisa: la Horne ha lavorato su Arthur Miller e sulla relazione tra il metodo Strasberg e le moderne neuroscienze, Shapiro su Così è (se vi pare) di Pirandello, Tuminas sul Gabbiano di Cechov, Brie sull’Odissea. Sono, evidentemente, autori con i quali i registi invitati si sono già misurati.
Il Pirandello letto attraverso Stanislavskij di Shapiro risuona nelle diverse lingue utilizzate dagli attori, che il maestro incalza con richieste di concentrazione (“Tenete questo sentimento quando entrate nel ruolo”), di precisione (“Per chi lo state facendo?”), con esercizi di analisi delle relazioni tra i personaggi. Parla del drammaturgo siciliano come di una vecchia conoscenza, del suo teatro come di un paradosso antirealistico che va analizzato a partire dalla fine. Invita ad applicare la lezione di Stanislavskij: portare in primo piano gli elementi secondari e viceversa. Chiede di cercare in scena il nervo vivo, come il medico che per tentativi e domande individua il punto dolente. Il teatro vivo, spiega, comincia nel momento in cui metto il mio partner in scena nella condizione di dover decidere. Cita ancora Stanislavskij: se alla fine dello spettacolo, dietro le quinte, ti ricordi di come ha “risposto” il tuo partner, allora hai recitato bene.
Rimas Tuminas.
Tuminas offre una splendida lezione di “costruzione” della dilatazione cechoviana, ricavando dal capolavoro dello scrittore russo una mezz’ora di montato già definito negli intenti registici. Gli attori sono posti in una dimensione di partenza che fa il vuoto di riferimenti e sospende il tempo. Vengono invitati a guardare la casa, il giardino, i personaggi come qualcosa di lontano e morto. Su questa frattura – che da una parte rinvia a un Gabbiano letto come un addio al Romanticismo, dall’altro sembra richiamare l’esperienza autobiografica del regista nella Lituania post-sovietica – Tuminas interviene con un’opera di ricomposizione che non sana il conflitto (per lui alla base del teatro e della drammaturgia), ma lo piega alla “forza tenera del teatro”. Agli attori chiede perciò di ricominciare, per esempio proponendo loro di rimettere in piedi quella casa abbandonata, di ridarle vita: torneranno le persone che vi abitavano? Come vivevano? Forse le loro stanze avevano le tende ricamate, il verde vi entrava dal giardino. Com’è oggi quella casa?
Se gli esiti del laboratorio di Maria Horne sono apparsi piuttosto deboli – ma certo i risultati di un workshop non sono valutabili solo sulla base di una dimostrazione di lavoro – il corso condotto da César Brie ha suscitato entusiasmi negli allievi e nello stesso insegnante. Il fondatore del Teatro de los Andes, che dopo l’esperienza nel 2000 dell’Iliade sta allestendo in Bolivia un’Odissea (dovremmo vederla in Europa già alla fine di quest’anno), ha chiesto agli allievi di produrre immagini a partire dal testo omerico per poi lavorare sulle sequenze selezionate e passate, l’ultimo giorno, attraverso la fase del montaggio. Con tutte le sorprese e i limiti imposti dal tempo limitato, Brie ha mostrato le potenzialità di una tecnica compositiva che muove dalle risposte degli attori e ne rispetta la centralità nello sviluppo creativo, anche a costo di un procedere più lento e incerto. Ma, come aveva detto il regista argentino iniziando il laboratorio, “sperimentare è amare l’errore. Quando facciamo ricerca facciamo errori: in questi cinque giorni di lavoro cercheremo qualcosa, ma non è detto che la troveremo”.
Per una centauristica teatrale
Un aspetto interessante di Methodica è l’apertura interdisciplinare, la ricerca di dialogo con le altre arti, la poesia, le scienze. Tra gli ospiti delle serate alla Giudecca vanno ricordati Michele Abbondanza e Antonella Bertoni (in scena con l’assolo Try); il duo jazz di Roberta Rigotto e Enrico Merlin; Vasil’ev e alcuni direttori di scuole e organismi internazionali che sono intervenuti sulle prospettive della pedagogia teatrale; Mariangela Gualtieri, Cesare Ronconi e Francesco Bonami che, insieme a chi scrive, hanno affrontato più specificamente il tema dell’attore come centauro.
Centauristica, come ha spiegato Alschitz, “è una parola che nemmeno esiste nel vocabolario. Il centauro è il volto del mondo contemporaneo: la nostra vita è già una vita da centauri, in cui si uniscono diverse nazionalità, diverse lingue, si mischiano la cultura alta e quella bassa. Il teatro deve essere il luogo in cui viene unito ciò che non può altrove essere unito. È nel teatro, dove si combinano la realtà e l’irrealtà, che vivono i centauri: e sono queste nuove creazioni, nate dall’unione di reale e irreale, che ci parlano”. L’altra vita, che il teatro non “rappresenta” ma crea, ha bisogno di una nuova lingua e gli educatori devono aiutare una nuova generazione di attori a scoprire la propria natura polimorfa. Il performer come ponte tra mondi differenti, corpo meticcio, animale e divino, dionisiaco e apollineo. Un centauro che, secondo Vasil’ev, si muove in una terra di mezzo, nella zona d’incontro fra il teatro narrativo e il teatro non narrativo, tra due istanze registiche e due fonti di energia, all’incrocio tra la “linea verticale” e quella “orizzontale”.
L’attore è da sempre, ontologicamente, un centauro, nello stesso tempo persona e personaggio, maschera e volto, un ibrido di tecnica e di passione. Deve fingere la verità ed essere vero nella finzione, dev’essere capito ma anche creduto. Il “sii spontaneo” che fa scattare la trappola psicologica del doppio legame, e che blocca e inibisce i comuni mortali, è invece il punto di partenza dell’attore, il suo kantiano “dover essere” quotidiano. L’attore esplora e governa il doppio e la doppiezza. È centauro o non è.
La questione è stata messa a fuoco a partire dal Settecento anche nei termini del “paradosso dell’attore”, che da Diderot a Grotowski alimenta un dibattito centrale nella prassi e nella teoresi teatrali. Deve l’attore provare veramente le passioni che interpreta in scena? E come spiegare tale trasporto emotivo in rapporto ai trucchi, alle tecniche, all’esperienza, al mestiere? Si deve costruire il personaggio dall’interno, lavorando sui moti spontanei dell’anima dell’attore, come sostenevano Luigi Riccoboni e più tardi la tradizione grandattorale, o al contrario dall’esterno, intervenendo sulla meccanica esteriore di un personaggio per provocare uno stato d’animo corrispondente, come vorranno Diderot, Lessing e tanta ricerca teatrale novecentesca? Temi che, lungi dall’essere esauriti, trovano oggi sviluppi inattesi nell’avanzare dell’ibridazione tecnologica, della protesi multimediale, nel grande tema della marionetta e in quello della differenza animale, nei teatri delle diversità.
Centauro è il teatro stesso in ogni suo elemento. In quanto atto biologico e spirituale insieme. In quanto interfaccia tra attore e spettatore, performer e testimone. In quanto spazio nel quale tutto è come nella realtà, solo un po’ “ingrandito” (come doveva ammettere persino Riccoboni, paladino del “teatro naturale”), proprio come i centauri che per gli antichi possedevano tutti i pregi e tutti i difetti del genere umano, ma estremizzati.
César Brie.
Centauro è il teatro nel suo stare, oggi come nei secoli passati, ai margini della società, con un piede dentro, spesso in modo scandaloso, e un altro fuori, in un esilio volontario o coatto. Il teatro insieme divertimento e peccato, cultura e depravazione, proprio come gli eretici che nel Medioevo erano considerati metà cristiani e metà pagani e perciò raffigurati anch’essi in forma di centauro.
Centauro è il teatro nella sua polarità di realismo e simbolismo, ben incarnate dallo stesso Stanislavskij, nel quale convivevano due anime eternamente in dissidio, secondo il celebre ritratto di Ripellino: quella del deteatralizzatore e quella del maestro di trucchi, l’inventore del “sistema” e l’erede della tradizione ottocentesca con la sua “brama di ciarpe” e di travestimenti.
Un teatro senza regista?
Ma se l’orizzonte è quello dell’attore corpo-mente in scena, organicità irriproducibile anche nell’epoca dell’assolutismo tecnologico, corpo che pensa e mente che sente, cavallo e cavaliere insieme... che ne è del regista? Quale istanze pedagogiche rimettere in gioco? Che senso dare all’ambizione di Methodika di educare gli educatori perché la didattica teatrale diventi scienza?
Jurij Alschitz racconta (La matematica dell’attore, Ubulibri, Milano 2004) di essere passato nel corso della sua carriera dall’idea di regia come competenza negli effetti scenici, nei “trucchi”, a quella come messinscena di un proprio mondo nel quale far vivere anche altri (gli attori), fino a quella come organizzazione della vita interiore dell’uomo, cioè della vita altrui. Oggi, confessa, il senso della professione del regista gli sembra consistere nell’“organizzare la primavera”, ovvero nel “creare le condizioni da cui ha origine la vita, e poi semplicemente nell’osservarla e nel conservarla così com’è. La missione del regista consiste nel creare un clima particolarmente adatto alla nascita di nuovi germogli, una stagione propizia affinché le cose nascano”.
È, a ben vedere, l’immagine di un regista-pedagogo, saggiamente maieutico e consapevole delle proprie responsabilità nello sviluppo delle qualità degli attori come di quelle nei confronti del Teatro come “casa comune”. Su quest’ultimo aspetto Alschitz insiste anche nelle conclusioni del suo recente Teatro senza regista (Titivillus, Corazzano 2007): “Grazie al lavoro in Europa, Asia, America del Sud e del Nord, mi sono sincerato di persona (e non sui libri) che il teatro è uno solo. Gli attori, i registi, le scuole teatrali, le tradizioni sono molto diversi, e tuttavia si crea l’impressione che si tratti di un unico teatro. Un cosmo enorme dove vivono tutti insieme pianeti dissimili. Un’unità di dissimili. Tutti gli opposti (Est-Ovest, classicità-avanguardia, vecchi-giovani) non hanno senso. Il Teatro è un organismo unitario con problemi comuni. È un fatto collettivo e si costruisce insieme. Tutti noi insieme siamo una sola compagnia. Insieme dobbiamo costruirlo e insieme a lui dobbiamo vivere”.
Il regista-pedagogo, dunque, è anche un pedagogo-regista, nel senso che sa assumere il carico di responsabilità derivante da tale visione unitaria del teatro, a cominciare dalla necessità di un’educazione permanente degli attori. Non a caso Methodika si propone esplicitamente come occasione per scoprire “l’importanza di tornare, a quarant’anni, giovani studenti per una settimana”. In questo senso, Methodika è davvero fedele alla linea stanislavskiana che, come testimonia Toporkov (in Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri, Milano 1991), non mancava di richiamare al dovere dello studio: “Ricordate: tutti gli attori esigenti e di valore devono tornare a studiare a intervalli regolari, diciamo ogni quattro-cinque anni. Bisogna anche reimpostare la voce, che col tempo subisce mutamenti, e fare pulizia della sporcizia accumulata, intendo per esempio la civetteria e il narcisismo. Dovete allargare giornalmente i vostri orizzonti culturali e tornare a studiare per almeno sei mesi a intervalli di tempo regolari. Adesso è chiaro il compito che vi attende? Lo ripeto: non pensate allo spettacolo ma solo allo studio.”
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